Page images
PDF
EPUB

Mischiate sono a quel cattivo coro

Degli Angeli, che non furon ribelli, Nè fur fedeli a Dio, ma per sè foro. Cacciarli i Ciel, per non esser men belli,

e Parad. XXX, 17:

Fosse conchiuso tutto in una loda. Di che poi le lode (Lat. laudes), Parad. X, 122; e alte lode, ivi XIV, 124. Similmente calla per calle, Purg. IV, 22; froda per frode, Inf. XVII, 7 e molti altri come lila, apa, cota, falcia, sela, sorta, froda ec. per lite, ape, cote, falce, sete, sorte, frode ec.

Altresì negli aggettivi; e si disse bene un tempo: celesta, crudela, sublima ec., come ora: celeste, crudele, sublime ec. Laonde Parad. XV, 145:

Quivi fu' io da quella gente turpa ec.
Disviluppato dal mondo fallace.

Da ultimo, quanto a lodo, veggansi not. Purg. XXII, 3 e XV, 51.

Lodo qui s'intende per buona fama, contrapposto ad infamia. Come dunque l'infamia non è che per fatti eccesivamente viziosi ed atroci; così questo lodo non s'intende meritato se non da coloro, che s'acquistarono rinomanza per azioni generose e grandi. Assai poco bene che non meriti il Paradiso; o poco male che non vada sotto il giudizio di Minosse, hanno lor pena al di sopra de' gironi del Tartaro. E poichè di codesti buoni e mali infinita è la turba: ecco la ragione onde il Poeta dice averne visti sì gran numero, che mai non si sarebbe creduto:

Che morte tanti ne avesse disfatto.

39. Foro dice non forzato dalla rima, nè qui nè altrove (Inf. XXII, 76-Purg. IX, 22, XI, 36-Par. XXIII, 131, XXVIII, 96, ec.) come s'avvisa il Mastrofini ei comentatori annotano; perciocchè e fuori della rima, ed in prosa, foro per furono fu comune ai nostri primi scrittori; e fra gli altri de' meno antichi l' adoperarono il Tasso e l'Ariosto.

Da Fu si fece Fo (mille ne son gli esempi): e come da Fu venne Furono; così da Fo, Forono e Foro. La scala delle mutazioni è: Fo, forono, forno (per sincope), foron, foro. Le quali ultime due inflessioni avemmo noi di comune co' Provenzali. Queste voci furon cer

[ocr errors]

40

to cavate dal Lat. Fui, fuisli ec. che si deriva dall'antico Fuo, e questo dal greco. L'o si conserva bene nelle inflessioni Fosti, Foste, Fossi, Fosse ec. per Fusti, Fuste ec. che più si conformano al latino. L'u sovente si scambiò con l'o, dicendosi, v. gr., dederont, vollis, volgos, servos, coi ec. per dederunt, vultis, vulgus, servus, cui ec. Foi per fui, nonchè nel verso, si adoperò nella prosa. Pannuccio dal Bagno:

Che in tal maniera foi adesso priso.
Il Frezzi, Quadr. Lib. I, cap. XVIII:
Li dissi di Cupido, e come foi

Con lui tra boschi per diversi canti.

e Lib. II, cap. IX:

Qual ora sete voi, ed io già foi.
Fosti è tuttavia in onore.

Fo. Il B. Jacopone Lib. I, sat. V, 5:
Pianto fo il primo cantare.

Fomo e Fom. Idem. Lib. II, cap. XVII, 2:

Quando in lui fom battezzati.
Foste è in uso.

Foro.Il Frezzi.Quadr. Lib. IV, cap.XII:
Alli quai prima elli ordinati foro.
L'Ariosto, Orl. Fur. C. XX, 18:
Dalle lor donne i giovani assai foro,
Ciascun per sè, di rimaner pregati.
Il Tasso Gerus. liber. XV, 12:
Nell'isola di Francia eletti foro.
Dante l'usa molte altre volte, come
Inf. III, 39XXII, 76 Purgat. IX,
22 XII, 36
XXVIII, 96.
Parad. XXIII, 131

chè anche ed in prosa se ne trovano eNè son voci acconce solo alla rima ; sempi, e fuor di rima nella stessa poesia. Le lingue romanze usitaron quasi

tutte le medesime inflessioni.

40. Men belli. La perfetta bellezza non va disgiunta dalla bontà, dalla virtù, dal valore. I cieli, se vi avessero avuta lor sede gli angeli cattivi, cioè gli spiriti vili, codardi, dappoco, stati sarebbero non compiutamente belli: ovvero, meno belli di quel che or sono, per aver cacciato gl'imbelli.

Nè lo profondo Inferno gli riceve,

41 e seg. Profondo inferno, chi ben l'intende, è tutta la parte interna del Cono immaginato dal Poeta, dove vari scompartimenti sono ordinati, secondo la gradazione e natura de' reati e delle pene. I Gentili lo dissero Tartaro. La parle superiore è de' virtuosi, come Virgilio, Omero, Platone ed altri molti, che vissero più o meno secondo i dettami della legge naturale; ma non ebbero Battesimo, nè fede nel Cristo venturo. I Pagani appellarono questo luogo Elisio: il nostro Poeta lo dice Limbo, quasi Lembo, parte superiore ed esterna del Cono infernale; dove furono, secondo la finzione del Poeta, gli antichi Patriarchi infino alla trionfale discesa del Redentore. E questo è detto il Limbo chiaro, a differenza dell'oscuro, dove vanno i vili o cattivi, luogo neutro, cioè nè Inferno nè Paradiso. Gli antichi, come si ha da Virgilio, ammisero anche un luogo di purgazione: il loro Paradiso era un campo ameno; l'Inferno un luogo tenebroso e terribile (a). Ecco un parallelo tra le viete superstizioni degli antichi e l'invenzione alligheriana, che tiene alla cristiana credenza circa la vita futura.

[blocks in formation]

(a) Anchise ad Enea (En. V, 733):

Non me impia namque

Ma quanto l'idea cristiana sorvanzi la pagana non è a dire. Non offre questa, come l'altra, sì gran dovizia di sublimi concetti, tanta morale filosofia, tanto discernimento e giustizia nella partizione de' vizi e de' reati, e nell' applicazione delle leggi punitive; nella gradazione delle virtù e de'meriti, e nella proporzionata attribuzione de' premi. La dipintura poetica di questi luoghi fatta per Dante (checchè il Cassinese Frate Alberico e altri gli avesser potuto prestare delle loro visioni) è, e sarà la più perfetta, la più compita, che siasi potuta fare da ingegno mortale.

Allusive alle idee degli antichi sulla vita futura son le parole di Catone riferite da Sallustio (Catilin.): Bene et composite (ironia) Caius Caesar paullo ante in hoc Ordine de vita et morte disseruit; falsa, credo, existumans quae de inferis memorantur: diverso itinere malos a bonis loca tetra, inculta, foeda atque formidolosa habere ec. Il Latini traduce: « Cesare ha parlato bene e artificiosamente, come voi avete udito, della vita e della morte, quando elli disse che appresso della morte l'anima non avea nè bene nè male: ma quando elli parla così, elli non crede a quello che dicono dello inferno, che i rei sono disceverati da' buoni e sono messi in luogo orribile fetido e spaventoso » (b).

La Chiesa cristiana, che ritrasse dal gentilesimo non poco delle forme, del culto e delle voci e locuzioni, nella preghiera pe'defunti intuona: Domine,... a

poche bellezze, che l'Allighieri ritrasse e recò felicemente nella Divina Commedia. Il monitu Divum di questo luogo rende, ad esempio, l'im

Tartara habent,tristes umbrae:sed amena piorum magine del Vuolsi così colà dove si puote ciò

Concilia Elysiumque colo.

La Sibilla (VI, 530 segg.):

Sed te qui vivum casus, age fare vicissim,
Attulerint? Pelagine variis erroribus actus,
An monitu Divim? an quae te fortuna fatigat,
Ut tristes sine sole domos, loca turbida adires?

Hic locus est, partes ubi se via findit in ambas:
Dextera, quae Ditis magni sub moenia tendit:
Hac iter Elysium nobis: at laeva malorum
Exercet poenas et ad impia Tartara mittit ec.

Gioverà leggere la descrizione che nel VI li bro della Eneida vien fatta e del Tartaro e degli Elisi; e cercare tra i versi Virgiliani le non

che si vuole (Inf. V), e di quell'altro simigliante verso (Inf. VII, 11).

Le parole: tristes sine sole domos ci son ricordate per quelle del Nostro:

Quivi sospiri pianti ed alti guai
Risuonavan per l'aere senza stelle.
(Inf. III, 22 seg.)

e: loca turbida son rese in quelle altre:
Come la rena quando il turbo spira. (Ivi v. 30)

(b) Catone teneva più che non Cesare alle credenze religiose. Questi era perciò uno spinto forte del suo tempo, e così amico della libertà de' Romani, come i presenti materialisti si mostrano teneri della nostra.

Che alcuna gloria i rei avrebber d'elli.

profundo lacu; libera eas de ore Leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum ec. Ecco il profondo inferno e il Tartaro dantesco: quello stesso, cioè, de' pagani e della chiesa cristiana antica e moderna. Vedete, cosa chiara anche ai ciechi, da quel profundo lacu tratta la voce lacca e moltiplicata in diversi ordini per tutto l' Orco o Lacu infernale (Inf. VII, 16 - XIII. 11 ec.). Questa voce è anche nel Purgatorio (VII, 74) usurpata per significare la cavità nel seno d'un monte, circondata da un orlo o lembo rilevato; ma per similitudine e licenza da non disdire al poeta.

-

Ancora è da notare, che Dante probabilmente dal descritto luogo di Sallustio, e dalle due vie, accennate da' versi di Virgilio, tolse la frase posta in bocca a Caronte (Inf. III, 94):

Per altre vie per altri porti ec.

imperocchè questo per altre vie pare pretto miniato il diverso itinere sallustiano; e il Poeta latino dice la via infernale partita in due rami; per quello da man manca si mettono i rei; da destra i buoni. Dante si trova sulla proda d'abisso, senza passare le onde brune del fiume Acheronte. (Inf. IV. 7 seg.).

42. Molti intendono che questi angeli cattivi non son ricevuti nel profondo inferno, perchè essendo angeli conferirebbero alcuna gloria ai rei. Questa interpretazione non sta, considerando che codesti angeli, teologicamente parlando, cioè secondo la mente del Poeta, non potevano nulla dare altrui di quello che non ebbero per sè stessi. Eglino non s'ebber mai nessuna gloria; perchè, consistendo questa nella visione di Dio, quando per un solo istante avuta l'avessero, ed ei non sarebber potuti cadere in peccato, nè esser codardi e cattivi, ove trattavasi di pugnare per l'Altissimo. Nè vale il dire che la natura angelica seco porta sempre de' pregi, delle perfezioni e bellezze superiori allo spirito umano: chè, nulla essendo più spregevole d'una grandezza vilmente caduta, non si comprende qual gloria i rei si sarebber po

tuti promettere da questi enti miseri ed infelici.

Il Monti credette che il profondo inferno non ricevesse gli angeli cattivi per una ragione tutt' opposta: cioè, perchè da essi non avrebbero i rei punto di gloria; epperò gli rifiutano come cosa vile. L'Inferno è negazione d'ogni gloria. Quella di cui parla Dante, vuol intendersi d' una gloria non vera, a che allude con le parole alcuna gloria: d'una gloria che in certo modo ne ha le apparenze, ne mentisce le sembianze e per tale si tiene dagl' insipienti. Questa gloria, della quale son capaci i rei, ce l'insegnano qual fosse i libri sacri ove si dice degli empi: Gloriantur cum male fecerint. L'è dunque il vanto d'aver fatto il male; vanto che si può dare Lucifero ribelle al suo creatore e per superbia precipitato in abisso. Or qui dice Dante che se quegli angeli inetti venuti fosser là dove stanno i rei; questi, non fosse altro, preso avrebbero una certa gloria sopra di contro la Divinità; noi abbiamo fatto alquelli, dicendo: noi pugnammo almanco cuna cosa, e fosse pure mal falta: ma voi siete de' codardi, de' vili, degl' imbelli. Lo stesso presso a poco direbbero gli altri rei ai cattivi ed inerti spiriti umani. E sarebbe cotesta una vanagloria, una millanteria, e una specie di consolazione che Dio non dovea loro accordare. A conferma di quanto si è detto, ricordino i lettori che gli antichi usarono il vocabolo gloria non soltanto per significare la chiara rinomanza di alte geste tornate in comun bene degli uomini; ma l'usurparono altresì in sentimento di millanteria, spavalderia ec. Fra le commedie di Plauto e di Terenzio avvene alcuna, in cui si descrive il carattere del Milite glorioso, ch' era uno di que' soldati, i quali, senz'avere pur fiutato le aure della battaglia, nonchè odorato la marziale flagranza della polvere incesa su' campi; tornansi ai lor focolari, narrando di sè quante prodezze non si direbbero di Morgante, o di Orlando. Insomma, questa gloria, che da' cattivi avrebbero i rei,disfogherebbesi per una tracotata diceria, come quella in cui esce Plu

Ed io Maestro, che è tanto greve
A lor, che lamentar li fa sì forte?
Rispose dicerolti molto breve.

tone appo il Tasso (Gerus. liber. IV,
st. 15):

Ah! non fia ver; chè non son anco estinti Gli spirti in voi di quel valor primiero, Quando di ferro ed alte fiammé cinti Pugnammo già contra il celeste impero. Fummo, io nol nego, in quel conflitto vinti; Pur non mancò virtute al gran pensiero: Ebbero i più felici allor vittoria; Rimase a noi d'invitto ardir la gloria. D'elli. Elli per egli s'inviene nelle scritture de'primi secoli di nostra lingua. Viene dal lat. ille, permutate, per metatesi, le vocali estreme. Così si disse quelli per quello e quegli, ch'è qui-ille. Egli è pur l'antico illi fatto igli e poi egli originariamente plurale, come fra gli altri si vede da questo esempio. Lucano volg.: Or pur veggio che in tutti i modi sarebbe il nostro meglio l'aspettare e lo 'ndugiare, che noi aviamo assai vivanda, della quale egli hanno poca, o quasi neente. Nè sempre sarà quel ripieno che dicono i grammatici. Igli provenutoci da illi e da illis fu adoperato al terzo caso d'ambi i numeri, come ottimi scrittori usarono gli pronome. Tav. rotond.: E dice infra suo cuore ch' ella farae a Tristano non bene, s'ella altro igli (gli) potrae fare. E appresso: Li due cavalieri erranti si feggiono alli X cavalieri, e prima ch' egli (eglino) igli (a loro) rompano le lancie, ciascheduno abbaltea tre cavalieri. Igli al nominativo: Allora lo ree Marco di quelle avventure si ne fu molto allegro, e tutti igli (gli, o quegli) altri baroni si ne fanno grande festa. Di questa fonte ne venne l'articolo determinativo. Di una e di due elli pronunziate come gl ne fanno fede mille altre voci, come capilli, filio, caballi, mirabilia, folio, melius ec. primitivamente si proferirono per l semplice o raddoppiata: capelli, mellio, cavalli, maravillie ec. e poscia, o piacque la sola proferenza figlio, foglio, maraviglia ec.; ovvero e l'una e l'altra, cioè, capelli e capegli, cavalli e cavagli ec.

--

che

Elli al caso retto. Ristoro d'Arezzo: Perchè elli (egli, il cielo) è, e co (come) elli è falto ec. Dante e gli altri scrittori

45

prima e dopo di lui non molto, posero il segnacaso a questo pronome, che avea già ricevuta l'impronta di legittima voce italiana.

45. 1° Dicerolti ec. « Tel dirò breve-
mente; dall'antiquato dicere» (B. Bian-
chi). Dicerolti. Dicerò è futuro da Dice-
re. Le altre voci dicerai, dicerà, dice-
remo, dicerete, diceranno ec. furono re-
golarissime, ed usitate un tempo.
Il Nostro, nelle rime:

Io dissi: donne, dicerollo a voi.
Ancora:

E dicerò di lei piangendo pui (poi). Brunetto Latini, nel volgarizz.dell'Oraz. per M. Marcello: Ma dicerai che poco non sia a te lasciare tanta gloria dopo te. Dante stesso, Parad. IX, 61:

Su sono specchi, voi dicete (dite) troni ec.
E Parad. XXXIII, 123:

È tanto che non basta a dicer poco.
E vedi Purg. XV, 82 e 89.

dialetto Dicere; e molte voci che son og-
I Napolit. tuttavia hanno viva nel loro
gi in onore ed attribuisconsi da' gram-
matici al verbo Dire, sono regolarmente
piegate da Dicere.

Del resto dicerolti può equivalere a dirolloti, diroltelo, tel dirò, loti dirò ec. e l'intera locuzione risponde alla latina: Rem tibi perpaucis (verbis) expediam, o simile.

E Ser Brunetto Rettor. lib. I: Sovente e molto ho io pensalo in me medesimo se la copia del dicere e lo sommo sludio della eloquenzia hae fatto più bene o più male alli uomini e alle cittadi.E parlando dell'Esordio: Intenti li faremo (gli uditori) dimostrando che in ciò, che noi diceremo sieno cose grandi, nuove ec. E nel volgarizz. dell' Oraz. contro Catilina: Se io comandassi che tu fossi morto; credo che tutti dicerebbero che io avessi fatto questo bene anzi troppo tardi, che alcuna cosa troppo crudele.

Tavola rotonda:

lo ti diceroe che corno èe questo ec. 2o Molto breve. Breve per Brevemente. Folgore da San Gemignano:

Entendi quel ched io ti dico breve.

Questi non hanno speranza di morte:
E la lor cieca vita è tanto bassa,
Che 'nvidiosi son d' ogn' altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa:
Misericordia, e Giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor, ma guarda, e passa.
Ed io, che riguardai, vidi una insegna,

Che girando correva tanto ratta,
Che d'ogni posa mi pareva indegna:
E dietro le venía sì lunga tratta

Di gente, ch'io non averei creduto,
Che Morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch' io v' ebbi alcun riconosciuto,
Guardai, e vidi l'ombra di colui, &
Che fece per viltate il gran rifiuto.

49. Lassa, lascia ec. Il Petrarca:

Lassare il velo per sole o per ombra,
Donna, non vi vidio ec.

Egid. Colonna, Gover. de' princ. Lib. III, part. II, cap. X: Il tiranno non lassa lenere scuole, e non lassa istudiare nel suo reame i suoi soggetti, acciò ched ellino non diventino savi ec. Bono Giamb., Form. onest. vit., Prudenz. IX: Non sii sempre in opera, ma alcuna fiata lassa riposare lo tuo cuore ec. cioè: lascia, permetti che riposi ec. Questo lassare è il sinere da' latini costrutto a un di presso come fa qui Dante. Oraz. Lib. II, Od. 15:

Nec fortuitum spernere cespitem
Leges sinebant.

50

55

60

Bono Giamb., Volgar. di Vegez. lib. II, cap. XXIII: Quando sono richiesti ad alcuna operazione i cavalieri, le trombe suonano. Quando le insegne muovere si debbono, suonano i corni (a). Colui che portava l'insegna era detto Gonfaloniere, oggi Alfiere, lat. Signifer, Vexillarius. Mover l'insegna (Signa movere) era un movimento d'evoluzione militare. Starebbe a vedere che l'insegna di cui parla Dante non fosse portata lì da qualche Gonfaloniere della repubblica fiorentina!... Ma quella mossa in giro è infernale; è una marcia sforzata fatta senza progresso, perchè intorno allo stesso centro; il più gran male che si possa desiderare ai tristi. Salm. 82:

Simile a questi parlari è ancor quello Deus meus, pone illos ut rotam, et sidel Farinata (Inf. X):

Ma fu' io sol colà, dove sofferto

Fu per ciascun di torre via Fiorenza,
Colui che la difesi a viso aperto.

in quanto che qui la voce soffrire ha lo
stesso valore di lassare, permettere, sos-
tenere ec. simigliantemente al sinere e
al pati de' latini.

52 seg. Cotesta pena d'un rapido correr girando è debita agli empi; i quali si muovon sempre e non progrediscon mai. Salm. XI, 9. In circuitu impii ambulant. Ai cattivi benissimo applicata; perciocchè, non avendo in lor vita nulla di bene operato, e stati essendo inerti e dappoco; conveniva fosser mossi e volti invano per quell'eterno giro.

cut stipulam in faciem venti.

Indegna d'ogni posa. Dante mantiene alla voce indegna la forza del verbo dignari di voce comune: sicchè può d'ogni posa indegna intendersi non degnata, non fatta, non reputata, non giudicata degna di posa. Virgilio Ecl. IV, in fin.:

Cui non risere parentes
Nec Deus,hunc mensa, Deanec dignata cubili est.

(a) Nel poema L'Intelligenza, attribuito al Compagni, son tutt'uno insegna e segno. Dove Lucano mette Roma in prosopopea che dice a Cesare, ancor di là dal Rubicone: Quo fertis mea signa viri? conformemente il poeta italiano traduce:

Figliuoli, ove volete voi venire? Recate voi incontra me mie insegne? (V. Inf. IV, 53 seg.)

« PreviousContinue »