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gata spendereccia, e Albero, che vuol esser Dedalo, basterebbero a dargli ragione d'usare il suo scudiscio sopra cotestoro, anzi che nel IV cerchio (Inf. C. VII) de' Prodighi, qui, dove si punisce la dolosa vanità degli Alchimisti. Il ch. Tommaseo ha per mal fatto, che dalla spensierata prodigalità di pochi Sanesi il Poeta pigli pretesto d' avventarsi contro Siena tutta; e aggiunge che: « Dovea Dante serbare a se qualche mese di Purgatorio per tali sfoghi, che non sono di quel dritto zelo Che misuratamente in cuore avvampa ». E nondimeno pur vero che da' vizi di pochi ha biasimo un popolo, come dalle virtù di pochissimi trae lustro ed onore. Onde noi pensiamo che Dante non sarebbe stato sì matto da imporsi per questo un mese di Purgatorio; siccome il dotto illustratore non andrebbe per una sola settimana a purgarvisi delle sue critiche: e al contrario crediamo che gli sfoghi dell' Alighieri e le critiche del Tommaseo sono tanto innocui, da non impedire che si abbiano ambidue un posto in Paradiso.

1-2. GIUNONE ERA CRUCCIATA PER SEMELE ec. Sapendo Giunone che Semele figliuola di Cadmo, primo re di Tebe, era amata da Giove, volle in una volta vendicarsi contro d' entrambi. Trasformatasi in Beroe, vecchia balia e confidente di Semele, venne a lei; e con gran dimestichezza per vari e lunghi ragionamenti aggirandola fece tanto, ch'ella appalesò per minuto i suoi amori. Vorrei, dice la finta Dea, che costui fosse Giove in effetto; ma non ne sarai tu certa infino a che sopra di ciò non ti dia egli un segno: dimandagli che, siccome usa con Giunone, venga a te vestito del suo splendore. L'incauta giovine volle che Giove pria promettesse e giurasse di

farle il dono che gli era per chiedere: egli promise, giurò e fu costretto:

Di compiacer in modo a' desir sui Che lui privi di lei, e lei di lui E così Giove contentò Giunone, Che colei non potè l'aspetto vero Soffrir di lui,quando in tal forma apparse, E dell'amante il don l'accese ed arse (a). Anguillar. Met. III, st. 104-107. La favola è splendidamente narrata da ciamo i seguenti versi: Ovidio (Met.III, 260-315), da cui addu

...gravidamque dolet (Juno) de semine magni EsseJovis Semelem:tum linguam ad jurgia solvit. Profeci quid enim toties per jurgia? dixit. Ipsa petenda mihi est; ipsam, si maxima Juno Rite vocor, perdam.

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Fallat eam faxo: nec sim Saturnia; si non
Ab Jove mersa suo Stygias penetrarit in undas.

Nè contenta a questo, la gelosa Giunone tenne odio mortale contro la reale stirpe di Cadmo, e la indusse a miserabili casi.

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Come mostrò già una ed altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,

Che veggendo la moglie co' duo figli
Andar carcata da ciascuna mano,

SANGUE progenie, stirpe ec. C. la pronunzia della voce fiata, ch'è trisXXIX, 20. sillaba di sua natura (a).

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3. UNA E ALTRA FIATA: più fiate: «Nella morte di Semele, e poi ». TommaMa le più fiate che la gelosa Dea mostrò il suo corruccio contra il sangue tebano per Semele, dovrebbero esser dopo la morte di questa che n'era stata cagione. Oltre a Semele tre altre figliuole ebbe Cadmo, delle quali Autonoe, moglie d'Aristeo, ebbe unico figlio Atteone, che fu lacerato da' propri cani; Agave, moglie d' Echione, sacrificando a Bacco insieme con le figlie ebbre uccisero l'unico figlio maschio Penteo, parendo loro che fosse un cinghiale; e d'Ino non meno delle altre infelice si dirà nella seguente nota.

UNA ED ALTRA FIATA. « Se avesse detto l'una e l'altra fiata, sarebbersi determinate le volte a due sole » Biagioli E infatti altrove (C. X, 48 segg.) leggiamo:

Si che per duo fiate gli dispersi.
S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte,
Risposi lui, e l'una e l'altra fiata.

Var. Il cod. Cass.:

Come mostro una e altra fiata.

Il testo Bargigi:

Come mostrò una et altra fiata.

Così leggono il Landino, il Venturi, e molti altri che ommettono il già. Il Biagioli dice: « Il Lombardi, con la Nidob. scrive: Come mostrò già una ed altra fiata, ma senza necessità alcuna, e quel già è un vero taccone ».— Anche il ch. Tommaseo lo ha rigettato; ma trovasi nella edizione del Fulgoni e della Minerva, come ancora tra le varior. del Witte-G. B. Niccolini, B. Bianchi ed altri han ritenuto il taccone che fa peso al Biagioli. Se quello fu un taccone, vel mise ciabattino che avea d'altronde orecchio sì dilicato, da non poter sostenere l'incontro che fanno molte vocali nel verso. A noi piace nondimeno tener co' primi; anche perchè quella lettera, così ritenuta senza del già, non altera

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4-12. ATAMANTE re di Tebe mosso dalle Furie infernali prese Ino sua moglie e i due figliuoli Learco e Melicerta per una leonza con due leoncini; e insano volendo dar loro la caccia, afferra e tira per l'un de' piedi Learco che l'era in braccio, lo rota a guisa di fromba, e lo percuote ad un sasso. La madre vistone il duro scempio, recasi l'altro figlio al seno,e da uno scoglio si gittò furiosamente nel mare. Ino s' era tolta la cura d' allevare Bacco, figlio adulterino di Giove e di Semele; e questo fu possente stimolo a rinfocolare lo sdegno della fiera Giunone, che serbava antico rancore contro la superba stirpe di Cadmo (Met. IV, 416540). Ivi 511 segg.:

Protinus Æolides mediâ furibundus in aula
Clamat, Iö, comites, his retia pandite silvis:
Utque ferae, sequitur vestigia conjugis amens:
Hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena.
Deque sinu matris ridentem et parva Learchum
Brachia tendentem rapit,et bis,terque per auras
More rotat fundae; rigidoque infantia saxo
Discutit ossa ferox. Tum denique concita mater
(Seu dolor hoc fecit, seu sparsi causa veneni),
Exululat; passisque fugit male sane capillis;
Teque ferens parvum nudis, Melicerta, lacertis,
Evohe, Bacche, sonat. Bacchi sub nomine Juno
Risit, et: Hos usus praestat tibi,dixit, alumnus.
Imminet aequoribus scopulus: pars ima cavatur
Fluctibus, et tectas defendit ab imbribus undas:
Summa riget, frontemque in apertum porrigit
(aequor.
Occupat hunc (vires insania fecerat) Inò:
Seque super pontum, nullo tardata timore,
Mittit, onusque suum; percussa recanduit unda.

6. ANDAR CARCATA DA CIASCUNA MANO. Ovidio (loc. cit. v. 513): cum gemina prole, che gli scoliasti intesero così: Ino uxor est illi visa leaena; at Learchus et Melicerta, quorum illum in ulnis gestabat, hunc non aeque infantem manu trahebat, catuli seu leunculi. Parendo

(a) A quel verso del primo salm. penit. dove il nostro Poeta dice; Ajutami, o Signor, tutta fata, così il Quadrio: Fiata è voce trissillaba, come derivata dal verbo Fiat de'Latini: nè si é fatta bissillaba mai, che per larga licenza.

Gridò: tendiam le reti, sì ch' io pigli
La lionessa e i lioncini al varco:
E poi distese i dispietati artigli,
Prendendo l' un ch' avea nome Learco,

E rotollo, e percosselo ad un sasso;
E quella s' annegò con l'altro incarco.
E quando la fortuna volse in basso.

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E quella s'annegò con l'altro incarco. DA CIASCUNA MANO. Se ai dotti parranno d'alcun valore le considerazioni testè fatte, si potrà intendere Ino gravata dalla man sinistra tenendo Learco al petlo, e dalla dritta menando per mano Melicerta. Da ciascuna mano è locuzione che può forse significare, dall'uno e dall'altro lato, cioè dal lato destro e dal mancino: siccome il Poeta dice altrove (Inf. VII, 32): da ogni mano, da ogni parte; (Inf. IX, 110): ad ogni man, a destra e a sinistra; ec.

adunque regolare che de' due figliuolini e il Nostro (v. 12):
l'uno fosse ancora poppante e l'altro più
adulto, la madre tenea con la sinistra
mano stretto al seno Learco,e con la de-
stra menava Melicerta. Questa supposi-
zione distingue l'età de' due fanciulli, e
rileva l'acerbità del materno dolore,
quand' ella videsi strappare dal petto il
figlio più teneramente amato. All'acume
di Dante non poteano sfuggire le finezze
dell'arte Ovidiana, e noi non crediamo
molto assennate le interpretazioni che i
dotti comentatori danno di questo luo-
go: DA CIASCUNA MANO, portante cioè un
per braccio i due di lui figliuolini.
Lomb. Tenendone due in collo, uno
per braccio. Venturi.- Portandoli am-
bedue tra le braccia. Bargigi. Con
due figliuolini in collo. Biagioli. Ve-
dendo Ino co' figliuoli.Il Landino, uscen-
dosene pel rotto della cuffia. — Essendo
Atamante marito d'Ino.... in certa sel-
va condotto al sacrificio, e veggendo
la moglie carica di due piccoli figliuo-
li. Vellut.—Ne han fatto veramente della
Ino un somiere; mentre ella non cessava
di potersi dir carcata, nel modo che la
dipinge il poeta latino; e dicendosi in
genere che i figli son carico della ma-
dre o ch'ella gli porti nel braccio, o che
gli tragga per mano, o che gli abbia
portati nel ventre, o, anche moralmente,
ch'essi a lei, che gli ha partoriti, impon-
gono l'incarico d'allevarli.

Nel citato luogo Ovidiano (IV 528 seg.):
Seque super pontum... Millit, onusque
suum. E nel Tasso (Ger. liber. XII, 34):
E giungo ad un torrente, e riserrato
Quinci dai ladri son, quindi dal rio.
Che debbo far? te dolce peso amato
Lasciar non voglio e di campar desio ec.

7-9. TENDIAM LE RETI... E POI DISTESE I DISPIETATI ARTIGLI: parole che dimostrano l'insano furore e il delirio di Atamante, che in quello vuole una cosa ne fa un'altra; vuol prendere alle reti la creduta leonessa e i leoncini, e poi come feroce nibbio si lancia sulla innocente preda. Li artigli (lat. articuli) son propri degli uccelli di rapina. Dante gli dà alle arpie (Inf. XIII, 14); all' Aquila romana (Parad. VI, 107); e (Inf. XXII, 437) al diavolo; or qui, per estensione, ad Atamante, il quale adopra le mani sul proprio sangue con la fierezza d'uno sparviere grifagno. Ovid. nel testo allegato v. 515 seg.: Deque sinu matris... rapit.

7. GRIDO: TEndiam le reti ec. Ovid.

loc. cit. v. 512:

Clamat: Io, comites, his retia pandite silvis.
11. E ROTOLLO ec. Ovidio:

Et bis, terque per auras
More rotat fundae; rigidoque infantia saxo
Discutit ossa ferox. .

12. CON L'ALTRO INCARCO: con l'altro figliuolino, che s'era tolto in braccio,

Nel qual luogo Torquato imitò Virgi- nel fuggire. Vedi la nota al v. 6, in fine.

lio (En. XI, 549 seq.):

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13-15. LA FORTUNA ec. Questo luogo dice quello che della fortuna il Poeta ci disse nel VII canto. (V. le note quivi ai

L'altezza de' Troian che tutto ardiva,
Si che insieme col regno il re fu casso;
Ecuba trista, misera e cattiva,

Poscia che vide Polissena morta,
E del suo Polidoro in su la riva

vv. 88, 89, 90, 95, 96). Ella che permuta li ben vani e per cui una gente impera, ed altra langue, volvendo la sua spera (C. VII, 96) girò in basso L'ALTEZZA DE TROJAN, cioè la trojana potenza, dal sommo grado della ruota al quale era salita. Questa imagine ci avvisa abbia più di poetico, che quella la quale ci si dipinge dalle parole di Virgilio (En. III, 53):... Ut opes fractae Teucrum, et fortuna recessit; e da quelle di Ovidio (Met. XIII, 435): Cecidit Fortuna Phrygum.

14. L'ALTEZZA: la superbia, sarebbe da intendere ancora, secondo quel verso (I, 75):

Poichè il superbo llion fu combusto. e le parole di Virgilio (En.III, 1 segg.): Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem Immeritam visum Superis, ceciditque superbum Ilium, et humo fumat neptunia Troja. ec.

Sicchè l'altezza de' Trojani son propriamente i superbi Trojani; la loro superbia e il tutto ardire fu cagione del cader basso. Omnis qui se exaltal humiliabitur; e dell' altezza che rovina, il Poeta ci dipinge la spaventosa imagine in Lucifero, di cui è detto (Parad.XXIX, 55):

Principio del cader fu 'l maladetto

Superbir di colui, che tu vedesti
Da tutt'i pesi del mondo costretto.

De'quali versi, con gli esempi di Troja e di Lucifero, si dovrebber giovare i principi reggitori degli stati mondani; avvisandosi come abbia il precipizio innanzi ai piedi quell'altezza che tutto ardisce e di nulla teme. Così i versi del divino Poeta sarebbero materia non di sterile erudizione, ma di morale, civile e politico ammaestramento, fine supremo della Divina Commedia.

TUTTO ARDIVA. S'allude principalmente allo spergiuro di Laomedonte, e al ratto d'Elena.

15. COL REGNo il re fu casso. Fu an

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nientato il reame e con esso estinto Priamo.- Ovid. Met. XIII, 404: Troja simul Priamusque cadunt.-Virg. Æn. XI, 104:

Nullum cum victis certamen, et aethere cassis.

16-21. ECUBA ec. Ecco in sei soli ver

si dipinte in iscorcio tutte le sventure di troiana. TRISTA ora, perchè prima era Ecuba dal principio al fine della guerra stata lieta; MISERA, perchè in istato infelice e compassionevole, altrò da quello in cui ella innanzi trovavasi; CATTIVA, chè di signora e regina fu poscia presa e menata qual serva. Di tale tristezza e miseria furono infinite cagioni: vedere guasto sì gran reame per aver Paride, suo figlio, rapita Elena moglie di Menelao re di Lacedemonia; molti suoi figli morti; Priamo ucciso da Pirro; la dolce figlia Polissena sacrificata al sepolcro d'Achille; Astianate fanciullino, figlio di Ettore, spietatamente percosso ad un sasso e morto da Ulisse. Rimaneva a lei

l'ultimo figlio Polidoro: Priamo, durando la guerra intorno a Troia, lo avea con gran tesori mandato in Tracia a Polinestore (a) suo genero; e questi, udita la distruzione d'Ilio ei casi miserandi della regia stirpe, avido di quell' oro e per farsi amico ai Greci vincitori, l'uccise e buttò nel mare: mentr'ella è mena

ta prigione in Tracia, e credeva trovar colà vivo Polidoro, ne vede il cadavere che le onde aveano pur dianzi gittato al lido: qui l'infelice Ecuba per tante av

versità faticata fu vinta da sì forte dolo

re, che, dicono le favole, come lionessa la quale persegue il cacciatore che le abbia tolti i figli, corre furiosa alla corte del traditore, e volendo dolersi nella solita favella, latra qual rabbiosa cagna in cui fu trasmutata: rictuque in verba

(a) Il nostro Poeta (Purgat. XX, 114 seg.):
Ed in infamia tutto il monte gira
Polinestor che ancise Polidoro.
Vedi En. III, 49-57.

Del mar si fu la dolorosa accorta,
Forsennata latrò si come cane;
Tanto il dolor le fe la mente torta.
Ma nè di Tebe furie, nè Troiane
Si vider mai in alcun tanto crude,

parata Latravit conata loqui. Ovidio. Vedi (Met. XIII, 526-569).

ECUBA TRISTA, MISERA E CATTIVA. A intender bene la forza di queste parole, gioverà considerar quelle che presso 0vidio (Met. XIII, 508 segg.) dice l'afflitta moglie di Priamo:

In cursuque meus dolor est:modo maxima rerum, Tot generis,natisque potens,nuribusque,viroque; Nunc trahor exul,inops,tumulis avulsa meorum.

20. FORSENNATA: extra sensum, chiosa il postillator Cassinese. Risponde una parola a tutto e quanto è detto dal poeta Latino (Met. XIII, 138 seq.):

Obmutuit illa dolore;

Et pariter vocem, lacrimasque introrsus obortas

Devorat ipse dolor: duroque simillima saxo
Torpet: et adversa figit modo lumina terra.

Poscia il dolore le fa la mente torta, le travolge la mente; ed ella esce fuori della ragione, sicchè non paia più donna, ma belva feroce.

Ecco in che guisa Ovidio ne trae dalle cagioni l'effetto, quivi appresso: Nunc positi spectat vultum, nunc vulnera nati;

Vulnera praecipue: seque armat et instruit ira.

Qua simul exarsit, tanquam regina maneret, Ulcisci statuit, poenaeque in imagine tota est, Utque furit catulo lacténte orbata leaena; Signaque nacta pedum sequitur, quem non vi(det hostem.

COME CANE. Ecuba, secondo le favole, venne trasmutata in cagna. Qui pare a noi che il Poeta adoperi cane per cagna. I Latini ebbero di comun genere la voce canis. Ci ha eziandio degli esempi nella nostra lingua. Vit. S. Mar. Madd. 21: O misera e miserabile cane, e peggio che cane. Firenz., Rim.:

Donde le vien questa superbia adunque

A questa arpía, a questa furia, a questa Rabbiosa cane, a questa orribil tigre? Nel dialetto calabrese s'ode dalla bocca de' contadini dir na cane per una cagna: il che ci avverte dell' uso comune nell' antico volgare. Nè sarà da maravigliarsene, chi sa come molti de' nomi di lor natura mascolini piacque agli approvati scrittori del buon secolo della no

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stra lingua far femminini: la fiore, la mare, la valore, la presepe ec.; e non pochi altri terminanti in e far comuni, come polvere, viscere, rene, calle ec. e fonte, fronte, fine, carcere, parete ec., che tuttora sono in ambi i generi adoperati.

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21. TANTO IL DOLOR ec. Epifonema.Var. Tanto dolor.- MENTE TORTA: le fe dar la volta (V. v. 20, nota). E chi vede tutt' uno mente torta e mens laeva (Virg. Ecl. I, 16 En. II, 54); ma a noi non pare; perocchè la mente può essere non sana per difetto di consiglio; la torta ci avvisa che stia nella negazione d'ogni facoltà intellettuale; di tal che nel primo caso l'uomo divenga imprudente, nel secondo, fuori ogni dirittura di ragione, delirante e feroce.

22-27. MA NÈ DI TEBE FURIE ec. In sentenza: Ma nè le furie di Atamanțe, nè quelle di Ecuba; non le stesse furie che assalir sogliono le belve, nonchè gli uopareggino a quelle che agitavano le ommini, esser possono sì crudeli, che si bre di Gianni Schicchi e di Mirra; le quali vid'io correre sbuffando e mordendo con l'impeto e furore del porco,quando del porcile si schiude.

Questo passo è d' inciampo ai dotti comentatori. Il Volpi vuol soprabbondante il non del v. 24; e allora la sentenza sarebbe: Nè furie di Tebe, nè Troiane si vider mai lanto crude in alcuno, punger bestie ec. Ma come intendere le furie in alcuno punger bestie ec.? Il Tommaseo, col Bianchi ec. prendono in (v. 23) per contro, e a noi sembra a questo luogo non tanto acconciarsi tal significato, comecchè il Bianchi ne tragga pure buona sentenza. Se a codesto in si darà col Lombardi il valore di dentro, noi vedremo quelle furie invasare gl'infuriati, come Tesifone entrò ne'corpi del crudo Atamante e della misera Ino. Ovidio dipinge quel mostro infer

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