Volle ch'io gli mostrassi l'arte; e solo Perch'io nol feci Dedalo, mi fece Ardere a tal, che l'avea per figliuolo: Ma nell'ultima bolgia delle diece Me per alchimia che nel mondo usai, Dannò Minos, a cui fallir non lece. Ed io dissi al Poeta: or fu giammai Gente si vana come la Sanese? Certo non la Francesca sì d'assai. qui avvenenza ma desiderio.Venturi VAGHEZZA per curiosità. Volpi, Lombardi, Bianchi-Voglia che fa l'animo vago, vagante finchè giunga all'oggetto amato. Biagioli Voglia vana. Tomma seo. E la voglia d' Albero era vana, non perchè fosse vaghezza, ma perchè desiderio non regolato dal senno. Se chi è vago vanamente volesse, non diceva Dante (VIII, 52 seg.): Ed io: Maestro molto sarei vago Di vederlo attuffare in questa broda. Eppure fu pieno il suo desiderio (ivi 58-60). 115. L'ARTE: gli argomenti e modi onde potess'egli levarsi per l'aere a volo: il che per natura far non poteva.ARTE per antonomasia intendevasi la magia. 116. NOL FECI DEDALO. Sali fiorentini, anzi satira amara. Io, dice Griffolino, fui arso, perchè non feci d'un torso un tirso. Le ali non furon date all'uomo. Quelle di Dedalo son mito dell' altezza d' ingegno, onde distrigavasi dal laberinto e levavasi al cielo (a). Or fate d' un matto un Dedalo per virtù di arte magica! (V. C. XVII, 109-111). Più giustamente dovrebbe al fuoco mettersi chi pretende l'impossibile, che quegli il quale non pone opera a volerlo fare. 117. A TAL: da tale. A per da ritrae dall'a de' latini. (C. V, 118, nota). D'ordinario in italiano la preposizione a tien luogo di da ne' costrutti ove s' adoperano i verbi fare, lasciare, sentire, vedere, udire e simili seguiti da un infinito. Inf. XVII, 129 XXI, 55 e altrove. (a) Horat. Lib. I, Od. III: Expertus vacuum Daedalus aera Pennis non homini datis. 115 120 TAL. Non si vuole nominar la persona. (C. XXVIII, 86, nota). 120. A CUI FAllir non lece: Che non può fallire. Licere, potere, appo i Latini. 121. GIAMMAI: mai. Lat. unquam Il Tasso, Ger. liber. VII, 20: Perchè se fia ch'alle vostr'ombre grate Giammai soggiorni alcun fedele amante ec. 123. CERTO LA gente FRANCESCA NON fu D'ASSAI sì vana come la Sanese: La gente sanese lasciasi a gran pezza indietro la Francese in fatto di boria e di vanità. Certamente i Francesi non furono mai sì d'Assai, sì mollo, o tanto vani, quanto i Senesi. O pure costruisci, e intendi: CERTO LA gente FRANCESCA fu vana, ma non sì D' Assai, non tanto (a). Or codesta vanità, di che so dantesco ce ne fa fede il seguente sonetto Al(a) Che questa sia la sposizione del luogo feriano: Gente più matta assai che la sanese, Or vedria Dante nostro, s'ei vivesse; Se (com'io l'odo) udire ei pur dovesse: Tutto di millantarsi la Franzese. Schiavi ognora costor, dacchè s'intese Han trasmutato l'un tiranno in mille, Libertà, ch'ei non hanno, han pur già sparta Onde l'altro lebbroso che m'intese, no biasimate due genti, è tanto ridevole 124. L'ALTRO LEBBROSO. Costui si appalesa al v. 136. —Griffolino avvegnacchè poco su non dica il suo nome, pare dovere intendersi, che più dell'altro fosse per fama noto. 125. Tranne, sciolto nelle sue componenti, è Tra-ne; delle quali la seconda è il pronome ne che vale di questi, di questo numero, o simile (parla qui il poeta degli scialacquatori), e che raddoppia la n per aggiugnersi come affisso alla parola tronca tra. Questo tra è seconda persona dell'imperativo da trare o trarre, e si piglia dalla seconda del presente dimostrativo, che s'inflette tro, tra, tra―tramo, trate, trano o tranno, come svariati esempi di antichi nostri scrittori dimostrano. Poco appresso a questo luogo di Dante: E tranne la brigata in che disperse Ritranne dal seguir sue turbe e squadre. Trami di questo labirinto fori. Nella Vita di S.a Eufrag. E quando è cotto questo pane, tralo del forno. Nondimeno tra, fuori che in unione con l'affisso, non è più in uso nello imperativo, ma s'adopera trai; non ostante che la pena di leggere d'una tirata il Misogallo.Con tutta la virulenta musa, da cui è dettato, contro una nazione per sè indubitatamente rispettabile; noi oseremmo pur dire, che le poche sillabé del detto verso Alligheriano dicono e fanno pensare mille cose dippiù, che non intero quel libro di Vittorio Alfieri. 125 dare, fare, stare ec. configurati come trare non fanno dai, fai, slai ec.; ma dà, fa, sta ec. La ragione sta in ciò, che alle inflessioni del verbo trare cadute in disuso vennero sostituite quelle di traere. Lieve ragione sarebbe l'equivoco infra tra verbo, e tra preposizione, che si levava di leggieri con un accento. Oggi, in cambio delle particelle eccetto, salcome in antico, la voce tranne si toglie vo ec., lat. praeter, in quella guisa che i Latini diceano quaeso,age ec. di grazia, su via ec., che pur non sono in sè che veri verbi. Senza dubbio tra è da trare, e questo da traer (Lat. trahere), trasportata l'r e poscia raddoppiata. In un codice della libreria comunale di Siena è a questo verso la lettera: tramene Stricca. Gaetano Milanesi tenevane avvisato il ch. Bianchi; il quale (Agg. e Correz. pag. 743) accetta e preferisce questa variante, a cagion che Stricca, essendo scorcio di Baldastricca, nome proprio d'uomo, rifiuta di sua natura l'articolo. Noi mossi dalle dette ragioni, abbiamo prescelto pel nostro testo la lettera TRAMMENE STRICCA, maggiormente che così hanno le cospicue edizioni, nonchè del De Romanis e del Witte, ma quelle di Foligno, di Mantova, di Jesi (an. 1472), di Napoli, an. 1474, e il testo Bargigi, che legge trammene in questo e nel v. 130. fu gran gastronomo. Nella brigata deʼricchi giovani sanesi, che misero in denari tutte le loro sostanze per gavazzare e darsi buon tempone, costui era il factodo. Folgore da San Gemignano dice di lui: In questo regno Niccolò corono 127-129.E NICCOLÒ ec. Questo Niccolò Poich'elli è il fior della città Sanese. Questo regno stette mentre fumò la cucina, e quanto potettero dugento mila ducati, dispesi da chi non gli avea sudati,e profusi nello scialo di lauti pasti. Poi fu giusto che facesser penitenza a Pasqua quelli che aveano continuato buon carnevale tutta la quaresima. A lui che pose tanto studio in trovar nuove generazioni di soavi e delicate vivande, si attribuisce la grande scoperta della coSTUMA RICCA, cioè, del modo o foggia nuova, usata da' ricchi, di profumare con varietà di spezierie, massime di garofani, i fagiani ed altri arrosti. Dante lo pianta in Inferno, e vi stia a suo bell'agio. Noi cerchiamo la retta interpretazione delle parole dantesche, le quali ci sembrano (e chi vi aguzzi un po' l' occhio lo vedrà ) contenere un di quegli amari sarcasmi, che usa il Poeta lanciare acuti come saetta. La comune è come quella che qui descriviamo:NELL'Orto ec. Appella seme l'usanza di Niccolò, e corrispondentemente orto la città di Siena, dove quell' usanza s'appicca, cioè s'attacca, si fa comune a molti, o, prende voga. Pictoribus et poetis Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas ec. Sed non ut. .!! Ma non di trapassare il confine segnato dall' equa licenza ch'è benigna concessione del giusto, nè di dir tutto, quanto, e conforme frullasse loro nel capo.E in questo avrebbe fallato Dante, se avesse trasferita l'idea del seme all'usanza sanese,e dell'orto alla Città. Strano, se ciò avesse inteso pur fare il Poeta, sarebbe ancora il dire che il seme s'appiccasse a Siena città presa come orto, per significare che i chiodi di garofano o il gran di pepe si adoperasse in condimento di tutte le cucine. Sarebbe questa una toppa assai male appiccata al capperuccio del divino poeta. E come, o sottili comentatori della Divina Commedia, com'è che non abbiate potuto scorgere, vedere e toccare con mano, che qui l'Alighieri parla della naturale produzione del garofano, che, siccome le altre più odorate spezie, viene nelle Indie, e di là ne' primi tempi, i mercatanti ne fecero incetta e negozio grande trasportandolo a noi, (Maffei storia delle Indie orientali volg. dal Serdonati) massime i fiorentini è i Sanesi, che ne trassero gran guadagno? Pare adunque che Dante voglia dire la grande scoperta del chiovo del garofano, che Niccolò avea fatta, e come questo gastronomo, nuovo astronomo, (un Tolommeo in diciottesimo!) abbia volto l'occhio scrutatore degli astri solo alla plaga dell' oriente, dove quel seme cade in terra, e vi germoglia, e vi s'abbarbica, e mette radici, e cresce in pianta indigena di quelle regioni. Questo importa la parola discoprire, ch'è scoprire da lungi, come oggi si fa col teloscopio; questo la voce orto, ortus solis, sol oriens, l' oriente, il levante, che gl'illustratori hanno ammiserito stringendolo a Siena, e tanto peggio ad un orto da bietole e da carote; e questo finalmente il s' appicca, tanto bello a significare la forza naturale della semenza nel propagarsi senza coltura in terreno amico. È insomma questa la sentenza: Quel Niccolò che discoverse in levante il garofano, che quivi nasce spontaneamente e allecchisce. Quale stolidezza non sarà quella di appiccare s' appicca alla costuma, quando il Poeta chiaramente dice tal seme, che non è la costuma, ma il garofano? Nè la costuma del garofano non è il garofano. Dunque per tutte le regole, anche più schizzinose e pedantesche, nonchè quelle dettate dal senno ideologico intorno alla struttura delle parole, questo luogo di Dante venne finora franteso: e bisognerà chinar la fronte dinanzi alla maestà del vero, che irradia splendore; altrimente diremo che la superba aristocrazia della letteratura si contenterà come Lucifero meglio giacere nelle tenebre infernali, che negarsi il vano e dannoso piacere di perfidiare e contendere alla luce di Dio. Costuma per Costume è uno de' moltissimi nomi di genere maschile, adoperati per uniformità di terminazione in A, come duca, elera, prenza, toraca, ereda, orizzonta ec. per duce, elere, prenze (prence), torace, erede, orizzonte ec. Senonchè Costume (che gli antichi scrissero anche Costumio e Costumo) muta con la desinenza in A il genere di maschile in femminile, come intenta, demona, crimina ec. dal masch. intento e da demone, crimine, anticamente stati d' ambi i generi. Non lasciamo di dire che COSTUMA RICca era espressione volgare. Il Poeta non E tranne la brigata, in che disperse credette punto appartarsene, e fece as- 130. TRANNE LA BRIGATA. Accenna l'intera compagnia godereccia, di cui toccammo al v. 127 seg., e alla quale Folgore da San Gemignano (an. 1260) dedica una corona di sonetti bizzarri (veduti certo dell' Alighieri) col seguente proemiale: Alla brigata nobile e cortese, E a tutte quelle parte dove sono, lo Di lepri, starne, fagiani e paoni, 132. E L'ABBAGLIATO ec. Alcuni tennero abbagliato come attributo del senno di Caccia d'Asciano, e inteser questo luogo come lo spose il Bargigi. Ed ancora da questi vani trammene tulta la brigata, in che quell' altro cittadino chiamato Caccia d'Asciano disperse la vigna e la gran fronda, le grandi possessioni sue, nelle quali erano molte vigne, molli oliveti, molti alberi fruttiferi, e molli boschi, disperse grandi ricchezze, e non solamente perdette la roba, ma eziandio entrando in tal brigata proferse, manifesto fece il suo senno esser poco, il quale prima era abbagliato, cioè nominato, essendo egli riputato uomo prudente. E il Viviani 130 disse che tale interpretazione era da ritenere per vera infino a che non si dimostrasse che codesto Abbagliato fosse un nome proprio. Ora par ciò dimostro abl'articolo e con iniziale maiuscola hanno bastanza, 1.o perchè Abbagliato senza l'edizioni di Foligno, di Jesi di Mantova preziosissimi codici, come il Filippino, e (1472) e di Napoli (1474), il Vat. 3199: e se pur ciò non fosse, gli antichi scrivevano anche i nomi propri con la minuscola nel mezzo de' versi. 2.o Jacopo della Lana dice che Caccia e Abbagliato furon due Sanesi: uno ricco, l'altro saputa persona della predicta brigala. Il Postill. Cassinese: nomen proprium de Senis. Il Vellutello spone: L'ABBAGLIATO fu della medesima compagnia, CHE PROFERSE, cioè, Il qual manifestò il suo poco senno in prodigamente consumare, come gli altri, le sue sustanzie. Così intesero il Portirelli, il Volpi, il Venturi; e sopra tutti l'Anonimo. Il Ch. Bianchi scrive nelle Aggiunte e correz. « L'Abbagliato... sta bene coll' articolo, perchè è un soprannome di un tal Meo di Ranieri de' Folcacchieri sanese.» -Forse è soprannome. Tommaseo. Il Daniello, il Landino, il Lombardi fecero d'Abbagliato un aggettivo; seguitando la lez. della Nidob.-Al Biagioli: «Piace preferir la lezione della Crusca, onde do: e nella quale brigata (detto è con limpido sentimento si ricava, significanironia), l'Abbagliato mostrò il suo senno ». SUO (a) SENNO PROFERSE. Mentre gli (a) IL SUO è lezione oggi comune. Ma se questa fosse stata l'antica e la vera, i più dotti co mentatori non avrebbero avuta la contesa di cui è parola nella nota. Noi dalla stessa divergenza delle opinioni caviamo valido argomento per sostenere che il suo fu lettera accomodata alla chiarezza dell' interpretazione, che d' altronde è la più probabile: e prescegliamo pel nostro testo la lettera suo senno ch' si ha non solo nell'edizioni della Minerva e del Fulgoni; ma eziandio in quelle antiche di Foligno, Mantova, Jesi, Napoli, nel cod. Cassinese, nel FiWitte; e tra le moderne in quello del ch. Tomlippino, nel testo Bargigi, nelle varior. del maseo. Ma perchè sappi chi si ti seconda Contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio, altri della nobile compagnia stavano a rassiti. 133-135. MA PERCHÈ ec... Ma acciocchè tu sappia chi è colui che ha risposlo al tuo dello (vv. 121-123) seguitando a parlar contro i Sanesi e carpendo in particolare Stricca, Niccolò, Caccia d' Asciano, e l'Abbagliato; e conosca ch'egli non è persona da essersi ingannato giudicando degna di biasimo la lor vanità, aguzza VeR ME L'OCCHIO: guardami fiso-Ovid. De remed. amoris, 801: Acuentes lumina. Altrove (XV, 20 seg.) il Nostro: E si ver noi aguzzavan le ciglia Come vecchio sartor fa nella cruna. BEN TI RISPONDA: « Quasi interrogata dall'occhio: sì che tu mi conosca. Tommaseo » -Ben ti si appalesi. Lomb. Ti si lasci ben vedere. Volpi. Per quanto a noi ne sembra, il Venturi ha qui imbroccato il segno, dicendo: Sicchè la mia sembianza, che tu altra volta vedesti, ti risponda da sè e ti dica chi io mi sia. Il Poeta avea poc' anzi (v. 106) detto a quei due: Ditemi chi voi siete e di che genti. Griffolino gliel disse indirettamente; 135 Capocchio sa che se Dante lo guarda in faccia basti sol questo a fargli sapere chi fosse; di tal che la risposta, la quale era egli tenuto di fare con le parole, veniagli fatta per solo riconoscimento. Così canseremo le strane interrogazioni dell'occhio, e le corrispondenze al desiderio che si trasmutano in modo di potere raffigurare, che ne paiono stiracchiature nocevoli alla retta intelligenza di questo passo. La sposizione del Venturi è confermata dal v. 136. 136. CAPOCCHIO Sanese (a) dicono che fu condiscepolo di Dante nello studio della filosofia naturale. Datosi all'Al chimia, nè potendo ridurre in preziosi i vili metalli, gli falsò spacciando per oro vero quel che ne avea le sole apparenze. 138. SE BEN T'ADOCCHIO: se tu sei veramente quel Dante che in le raffiguro; se ben ti riconosco. 139. DI NATURA BUONA SCIMIA: chè valente alchimista, seppe imitare ciò che fa natura; come la scimia contraffà degli atti e movimenti umani senza esser uomo. DI NATURA alcuno intende per naturalmente buono, sottile e industrioso a contraffare, secondo quell'arte, i metalli, sì che paressero naturali. La simiglianza che il Poeta pone tra gli alchimisti e le scimie ha, secondo a noi pare, alcun'allusione ai Cecropj trasmutati da Giove in quelle bestie. Ovid. XIV. 91 seg.: Quippe Deùm genitor fraudem,et perjuria quon (dam Cercopum exosus, gentisque admissa dolosae; In deforme viros animal mutavit: ut idem Dissimiles homini possent,similesque videri.— Il Poeta flagella la vanità Sanese, e la fa frizzare da Capocchio. La famosa bri (a) Altri lo dice Fiorentino, avverso ai Sanesi perchè in Siena venne arso vivo come alchimista. Vedi l'Excerpta dal comento dell'Imolese, Murat. Antiq. Ital. tom. I. |