O tu che con le dita ti dismaglie, migliori codici che dice il sig. Zachero- 85. Ti dismaglIE: ti scortichi, ti laceri, ti scrosti. DISMAGLIARE propr. è rompere, disunire, o disfar le maglie. Il verbo è usato per figura tolta da' giachi, o dalle corazze, che si fanno di cerchietti, piastrelle,maglie di ferro o d'altro metallo; e s'intessono l'una sopra ed appresso l'altra, come sono disposte le scaglie sul dorso de' pesci. Il traslato è tanto più spontaneo, quanto che la pelle è quasi una cotta che veste e difende le parti più dilicate dell'organismo umano dalle impressioni dell'aria ec.; e il microscopio la ci mostra come un tessuto che può assimigliarsi a quello delle loriche ec. DISMAGLIE per dismagli; non in forza della rima, come ci han ricantato i comentatori. Albertano nel Lib. del Dire e del Tacere, Cap. I: Da escusare non se' tu che giudiche, e di quello giudiche altrui condanne te medesimo ec. Cap. III. Guardati d'intorno quando parle ec. Cap. V. E quando tu alcuna cosa lode e vitupere. E infiniti altri esempi. (Vedi C. XXVIII, 43, not. e XXV, 6, not.). Alla seconda persona del presente dimostrativo usarono gli antichi la desinenza in E in tutte le coniugazioni. Nella prima, Brunetto Latini, Tesoretto, Cap. VI: Di tutte creature T'ho detto, se ne cure. Che non son io leggier quanto tu crede. 85 Il Nostro in diversi luoghi del Poema adopra allette, fide, gride, pense, tocche, note, immolle, schiante, gette, muse, guate, peste ec. come qui dismaglie; nè gli fu mestieri ricorrere alle licenze, dove l'indole della lingua e l'uso comune de' poeti e de' prosatori gli dava pieno dritto di farlo. La var. dimaglie hanno le antiche ediz. di Napoli, di Jesi, e il Cod.Filipp. 86. A UN DI LORO: cioè de'due accennati al v. 73. Altra lez. A l'un è del codice Filippino (sec. XIV), dell' edizioni di Foligno, di Mantova,di Jesi (an.1472), di Napoli (1474); e la prescelta dal Witte. Il testo Bargigi: all' un di loro; il cod. Cassin. alun di loro. 87. FAI... TANAGLIE: adopri (le dita) a mo' di tenaglia ad istrapparti la pelle e levar le croste per la rabbia del pizzicore. Il Buonarroti imitando Dante scrisse: N'ho una gran pietà di quel meschino Ed esso tendea su l'una e l'altr'ale. Non altrimenti che per pelle talpe. 88. LATINO: italiano. C. XXII, 65 — XXVII, 33. 89. SE: così, che, particola apprecativa. C. X, 82, 94, note. · BASTI: duri. Purgat. XXV, 136: E questo modo credo che lor basti Per tutto il tempo che'l fuoco gli abbrucia. Eternalmente a cotesto lavoro. Qui ambodue, rispose l'un piangendo: E tremando ciascuno a me si volse 90. A COTESTO LAVORO. È descritto nei vv.76-85.In sent. Possa non mai venirti meno il morso dell'unghia (v. 79 seg.) a trarli le croste e grallarti la scabbia. La deprecazione ha dell' acre; ma non sarà stata così ai rognosi, i quali non avean più soccorso (v. 81) alla rabbia perenne del pizzicore. 91. SEM: semo, siamo. C. XXVIII, 40,nota.-III 16 e IV 41-Parad. VIII, 39: e altrove. Fra Guittone, Lett. III: Fuori sem noi levati di casa nostra. Lett. XXVI: Ove d'ogni parte semo assagliti da forti uomini e dotti. Novellino, LXXV: Fece tre parti de' danari.Il giullare disse: Che fai? noi non semo se non due. Da sere, antica configurazione del verbo essere, si venne semo, sele, suto, come da avere, avemo, avete, avuto ec. Ma semo ec., che oggi vive nel dialetto veneziano, non vuolsi adoperare nelle scritture. 90 95 100 sorpresa di vedere che un vivo aggiravasi per colà. 3. L'abituale rilassamento de' nervi prodotto dall' arte loro. 4. Il rimorso della colpa. Vedi vv. 67-84, nota. 99. L'UDIRONO: udirono Virgilio, o ciò che Virgilio disse (vv. 94-96). Di RIMBALZO; poichè la parola fu volta ai due (vv. 73 e 91), non a questi ALTRI, che anche l'udirono, ma DI RIMBALZO: « indirettamente, quasi di ripercussione. Bargigi. Questa è la traslatione di chi giuoca alla palla, che non le dando quando gli è mandata, le dà poi quando balza. Adunque udiron la voce, che non veniva di colla a loro. Landino.— «Di rimbalzo in questo senso vive in Toscana ». Tommaseo. Ed io incominciai, poscia ch'ei volse: Se la vostra memoria non s'imboli Nel primo mondo dall' umane menti, volentieri vuoli. Fr. Giord. 442: Se tu vuoli compire tutto.- 249: Quello che tu vuoli non sempre ti viene fatto. Il Nostro usa vuoli altre volte, come nel Parad. XXXIII, 35 ec. Male però il Venturi: «Vuoli per vuoi ce l'ha tirato a forza la rima» Nè bene il Volpi, che nota: « Vuoli per vuoi; in rima.»> - Il Biagioli: «Vuoli, benchè meno irregolare che vuoi, non si usa fuor di rima ». Noi abbiam veduta codesta voce regolarissima rell' età d'oro della lingua; ed esser falso ch'essa non trovi luogo nelle scritture, senza mestieri di licenza poetica (a). 102. VOLSE: volle. Dall'antic. vogliere vennero volsi, volse, volsero; siccome da togliere, scegliere ec. tolsi, tolse, tolsero; scelsi, scelse ec. L'antico Franc. volxit, voulsit da volsir. Mutata poscia l's in z,i nostri volgarissimi scrissero volzi, volze ec. e gli ant. franc. volz.Nel contado calabro s'ode vozi, voze, vozero per volli, volle, vollero; siccome in quel di Toscana voizi, voize, voizero. Il Poeta usò volse da volgere (Inf.II, 116 — XXII, 119 · Purg. VIII, 64 Parad. VI, 1 XII, 4 ec.) e volse da vogliere, volere. (Inf. II, 118 Purg. VIII, 66 Parad. XXII, 95 ec.). Non dismetterebbe leggermente volse per volle, se non chi patisse difetto di senso comune per distinguerne il significato. POSCIA CH'EI VOLSE: da quando ebbe (a) Del verbo volere l'uso riconfermò vuoi, non già vuoli: al contrario di solere ritenne suoli lasciando suoi, che fu voce in onore appo i nostri antichi. 11 Barberino: Come tu mi suoi dire. mi finito di dire: Dì ▲ LOR ciò che tu VUOLI; le quali parole mi significavano la sua volontà. Dante vuole ciò che mostrò volere il suo Duca: Or va che un sol volere è d'amendue. POSCIA CHE: dopo che. Se l' intendessimo per poichè (quoniam), il Poeta parlerebbe a quelle anime non per voler suo, ma del Maestro; e parebbeci qui spento, senza ragione, quel desiderio di andarle domandando, che ci appalesa pertutto. Ei voleva, ma non ardiva prima che Virgilio volesse: questi volle, ed egli non pose tempo in mezzo ad interrogare gli spiriti. Per noi dunque il Poscia che di questo luogo vale dopo che, da quando, da poi che ec.; significazione quasi identica a quella che ha ne' seguenti versi (Dant. Rim. Canz. XV): Posciachè al mondo bella donna nacque, Nessuna mai non piacque Generalmente, quanto fa costei. 103-104. SE particola apprecativa come nel v. 89; ripetuta anche nel v. 105 seguente.- LA VOSTRA MEMORIA; la memoria di voi. MEMORIA per ricordamenNon to come atto, non come facoltà. S'IMBOLI... DALLE UMANE MENTI: non si perda, non isvanisca; gli uomini non si scordino di voi. Come potenza dello spirito, Bono Giamb. Lib. I, Cap. XVI. Memoria è tesoriera di tutte cose e guardatrice di tutto quello che l'uomo truova novellamente per sottigliezza d'ingegno, o che l'uomo imprende d'altrui... La memoria è comune agli uomini ed agli altri animali ma intendimento di ragione non è in neuno allro animale che nell'uomo. Il Latini, nel Tesoretto: Di dietro sta con gloria Quello, che 'n essa vene. Ser Brunello riferisce la sentenza di Secondo, filosofo vissuto sotto Traiano, che: Il celabro è guardia della memoria. E questo è perchè Dante usi imbolare; poscia che le nostre reminiscenze son Ma s'ella viva sotto molti soli, quasi sotto la custodia della forza men- Mente degli anni e dell'obblio nemica, Lapo Gianni, vissuto verso la metà del Chiamava 'l cor gridando: or se' tu morto, Ch'io non ti sento nel tuo loco stare? Rispondea 'l cor, ch'avea poco di vita, Sol, pellegrino, e senz'alcun conforto, Quasi scemando non potea parlare, Ê disse: oh alma, aiutami a levare, E rimenare al casser della mente E così insiememente N'andaro al loco, ond'ei fur pinti fuore. NON S'IMBOLI è dunque non si sottragga, non evada ec. e propriamente non isvanisca, non perisca, non si dilegui ec. IMBOLI per involi disser gli antichi per lo facile scambio delle lettere be v. Gianni Alfano: Ed hai veduta quella che m'imbola NEL PRIMO MONDO, cioè dove l'uomo vive vita mortale; l' altro mondo è dove si va dopo la morte. Dante non tenne che ce ne fosse uno, siccome fanno coloro: Che l'anima col corpo morta fanno. 105. VIVA. Bel traslato! La memoria resta superstite ai trapassati ed è sorella della fama che trionfa della morte,e che: Trae l'uom del sepolcro, e 'n vita il serba. SOTTO MOLTI SOLI: molti anni, lungamente. Sotto la luna dice altrove (C. VII, 64) il Poeta, per significare in questo mondo sublunare; con allusione alle vicissitudini della Fortuna che s'assimigliano alle fasi di quest' astro notturno. Qui si dice sotto il sole; poichè si ha rispetto alla misura del tempo labile sulla terra. Molti soli fa bel contrasto con la 105 proprietà del vocabolo sole ch'è solo (a). Tres adeo incertos coeca caligine Soles Tre Soli interi senza luce errammo, Tre notti senza stelle. Il quarto giorno Vedemmo al fin, quasi dal mar risorta, La terra aprirne i monti e gittar fumo. SOLE per un giro ch' esso fa intorno l'eclittica, cioè per anno intero. Inf. VI, 67 seg.: Poi appresso convien che questa caggia Infra tre Soli, e che l'altra sormonti ec. Nel Purgatorio, C. XXI 100 segg.: E per esser vivuto di là quando Visse Virgilio, assentirei un sole Più ch'i' non deggio al mio uscir di bando. Per giorno va poi inteso laddove (Inf. XXXIII, 54) dice: Infin che l'altro Sol nel mondo uscio. che son propriamente i raggi del nuovo giorno. È poi notevole differenza tra questo modo: viva sotto molli soli, e quello che Beatrice usa con Virgilio: Di cui la fama ancor nel mondo dura E durerà quanto il mondo lontana. 106. GENTI: città, o popoli italiani, in questo luogo; poichè Dante avea già prima (v. 91) udito: Latin sem noi, che tu vedi si guasti. e quegli risponde (v.109): I'fui d'Arezzo. 107-108. LA VOSTRA SCONCIA....... PENA, che v' ha si guasti (v. 91); FASTIDIOSA, che voi rende languidi e noiosi a voi (a) Germ. Son che val sole è voce che nota alcun che di singolare. Apollo,nome dato al nume simboleggiato nel sole, si vuole anche fatto dall'a privativo e os. Cicerone De nat. Deor. Lib. 3: Cum Sol dictus sil, vel quia solus ex omnibus est tantus, vel quia cum est exortus, obscuratis omnibus, solus apparet. tu Solem,quia solus esset, appellatum esse dicas. Cumque I' fui d'Arezzo, ed Albero da Siena, stessi, e fa che siate spiacevoli altrui per DI PALESARVI... NON VI SPAVENTI: non vi ritenga che voi non vi appalesiate a me, pensando il modo della pena che portate non abbia forse ad indurre gli altri a disprezzo di voi. II Fucci (XXIV, 140 seg.): Ma perchè di tal vista tu non godi, Se mai sarai di fuor de' luoghi bui. SPAVENTI qui facciam noi che abbia lo stesso valore del lat. Deterrere per dehortari, svolgere, dissuadere. Tema di sorta, o spavento altro da questo, non v' essendo, che potesse tener chiuse quelle ombre e farle restie a manifestarsi. Anche nel C. XVI, 28 e 52, Jacopo Rusticucci mostra dubitare non il Poeta disdegni lui e suoi consorti. E spaventare usarono altri nel significato che reputiamo debbe qui attribuirsegli.Il Salv. avv. «Gli scrittori del volgar nostro dallo studio e dall'uso della latina lingua cerchiamo di spaventare » cioè svolgere, rimuovere ec. Con che capiamo eziandio, che il Poeta vede già in quelli due la disposizione di appalesarsi, ma la vergogna insieme che li rattiene; onde con questo non vi spaventi gl' incuora e fa più pronti (a). 109-110. I' fui d' AREZZO ec. Costui che qui si finge parlare fu un alchimista d' Arezzo nomato Griffolino, il quale ad Albero, o Alberto, sanense, avendo per ischerzo detto ch' ei sapea l'arte del volare, seppegliela dar sì facilmente a bere, che invogliò il giovine sciocco ad imprendere come potesse anch' egli levarsi a volo. Il falso malioso lo tenne lungo tempo in parole ne trasse danaro; ma l'alunno, che non si vide mai (a) Il Venturi tenne la voce spaventare esser qui usata nel sentimento del latino Deterrere. 110 metter ali, deluso e crucciato riferì tutto al Vescovo di Siena suo parente; e questi volle che Griffolino fosse arso qual mago. testo Barg. e quasi la più parte dell'edi109. ALBERO hanno il cod. Cassin., il Villani. Alberto ne' codici Pucciani 2, 3, zioni. Albero per Alberto si legge nel 4,7, 12, nel Magliab., ne' Riccard.1025, 1026, 1027, 1028; nel cod. Caet. e in altri veduti dagli Accademici della Crusca e dal Vellutello. Questa lezione prescelse il De Romanis pel suo testo (Rom. 1822). L'altra sembrò corrotta a G. B. Niccolini, Cino Capponi, Giuseppe Borghi e Fruttuoso Becchi e ritennero Alberlo per la loro edizione (Fir. 1846, Tip. del Vulcano). 110. METTERE AL FUOCO: ardere. Ci sembra che questa locuzione ritragga dalla biblica: Mittere in ignem aeternum o in gehennam ignis. Griffolino, se così fosse, vorrebbe la baia di Monsignore, che lo dannava alle fiamme in questo mondo giudicandolo degno delle infernali; mentre poi per la colpa appostagli non sarebbe caduto laggiù. Inteso in tal modo questo verso, ci riesce di più efficacia il seguente, e tutto il trinario 118-120, massime il motto: a cui fallir non lece, che pare contrapporre al falso giudizio del vescovo sanese la severa ma diritta condanna di Minosse. 111. QUEL PERCH' 10 MORI' ec.: altra colpa da quella che m'imputavano mi ha condotto in questa bolgia: fui arso come negromante, e pur non son messo tra gl' indovini e maliosi incantatori (IV bolgia). 112. A GIUOCO: per ischerzo. 114. Vaghezza: vanità assui. Bargigi- Vana cupidità. Landino-Voglia assai. Vellut. Era molto voglioso ma giudizioso poco; nè VAGHEZZA significa |