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O quanto mi pareva sbigottito,
Con la lingua tagliata nella strozza,
Curio, ch'a dicer fu così ardito!

Ed un, ch' avea l'una e l'altra man mozza,
Levando i moncherin per l'aria fosca,
Si che'l sangue facea la faccia sozza,
Gridò: ricorderati anche del Mosca,

Din. Comp. Intell.:
Curio Trebuno parlò primieri,

E disse: Io son per te di Roma fuora:
Nostra franchigia è nella tua speranza:
Cavalca, Cesar, sanza dimoranza:
I tuoi nemici non avranno dura.
Cesare intalentato di battaglia

Parlamentò e disse ai suoi lontani:
Per me soffert'avete gran travaglia
A conquistar molti paesi strani ec.
Vedi Caes. De Bell. Civ. I, 12, 18; II,
32, 42.

Goffredo appo il Tasso, I, 28: Il tempo dell'impresa è già maturo. Men divien opportun, più che si resti: Incertissimo fia quel ch'è sicuro. 100. SBIGOTTITO, per la vergogna di comparire con la lingua mozza, e che altri abbia dovuto parlare per lui squarciandogliene con atto villano quella bocca, onde una volta uscieno:

Più che mel dolci d'eloquenza i fiumi. 102.A DICER fu così ardito: Fu ardilo a dir così,come su è detto (98 seg.),cioè:

che il fornito

Sempre con danno l'attender sofferse. le quali parole furono mal seme di guerra civile.La locuzione può riferirsi eziandio al carattere di Curione, secondo che Lucano dice:

Audax venali comitatur Curio lingua...
Vox quondam populi, libertatemque tueri ausus.
Abbiamo di Cicerone più lettere a
questo Curio.

DICER: dire. C. III, 45, nota.

103. ED UN ec. Il Mosca (v. 106), al quale furon mozze ambo le mani. Mozza: mozzata, tronca. Lat. mutilus; All. mutzen; smozzare. C. VII, 56:

Questi risurgeranno del sepolcro

Col pugno chiuso, e questi co' crin mozzi.

tando la superbia de' maligni, nuove forze raguna, aggiungendo presunzione a presunzione. Intuoni dunque in te ancora quella voce di Curio a Cesare:

Dum trepidant nullo firmatae robore partes, Tolle moras: semper nocuit differre paratis, Par labor, atque metus pretio majore petuntur.

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104. MONCHERIN. Moncherino, braccio mutilo della mano. Cento nov. ant. L.: Un giorno avvenne, che uno, che avea meno un piede, venne alla porta; il pedagiere li dimandò un danaio. Quelli sì contese azzuffandosi con lui. Il pedagiere il prese. Quegli difendendosi trasse fuori un suo moncherino,ch'avea meno l'una mano. Allora il pedagiere il vide, e disse: Tu me ne darai due, l'uno per la mano, e l'altro per lo piede.

PER L'AURA FOSCA. Questo, quasi fondo al quadro, mettea più paura. Anche gli spiriti magni de' greci ec., come fu loro apparso nelle ombre Enea e l' armi sue che folgoravano lampi, furon presi da sì gran timore, che qual si volse a fuggire, quale a mandar fioche grida. En. VI, 490 seq.:

Ut videre virum,fulgentiaque arma PER UMBRAS,
Ingenti trepidare metu: pars vertere terga,
Ceu quondam petiere rates; pars tollere vocem
Exiguam: inceptus clamor frustratur hiantes.

105. IL SANGUE FACEA LA FACCIA SOZZA:

perchè dalla faccia insanguinata e dalle mani mozze potesse anche apparire com'egli stato fosse cagione di stragi e di sangue, peccando di consiglio e di mano. Æn. VI, 496 segg.:

Deiphobum vidit, lacerum crudeliter ora,
Ora manusque ambas.
Vedi v.
36, nota.

Sozza: insozzata, lorda. Æn. II, 286: Foedavit vultus. Enea leva di terra il da lui ucciso giovine Lauso (X, 832): Sanguine turpantem comptos de more capillos. Nel Purg.XVI, 13,si chiama sozzo l'aere brutto del fumo. Sozzo fig. per impuro, disonesto, sfacciato come nel Parad. XIX, 136 opere sozze ec.

106. RICORDERATI: ti ricorderai. Il Tommaseo adotta ricorderatti, ti ricorderà, ch'è lo stesso nel senso; se non che il Cod. Cassin. ha Ricorderaiti,e il testo Bargigi, con cui legge anche G.B.

Che dissi, lasso! capo ha cosa fatta: Che fu'l mal seme della gente Tosca.

Niccolini, ricorderati: nè pare necessario seguir l'ortografia ricordera'ti e meno ricordera'ti. Ricorderati legge il Lombardi,e noi prescegliamo questa lezione; perocchè usarono i Toscani fognar l'i nel mezzo delle voci dicendo, ad esempio, atare, tranare, ec. per aitare, trainare ec. a fuggire il concorso delle vocali. Il Boccaccio: Farane un soffione alla tua servente, cioè ne farai. Ricorderati AnCHE dice, perchè poco su (v. 73) Pier da Medicina avea detto Rimembriti.

106-108. DEL MOSCA. Narra Ricord.

Malisp. Cap. XCIX: « Negli anni di Cristo MCCXV:... avendo messer Bondelmonte de' Bondelmonti, nobile cittadino da Fiorenza, promesso di torre per moglie una nobilissima donzella di casa gli Amedei, orrevoli cittadini: e poi cavalcando per la città il detto messer Bondelmonte, ch'era leggiadro e bel cavaliere, una donna di casa Donati (a) il chiamò,biasimandolo della donna ch'egli avea promessa (b) come non era bella nè sufficiente a lui, dicendo: io avea guardata questa mia figliuola, la quale gli mostrò, ed era bellissima. Incontanente stigato di spirito diavolico, preso e innamorato di lei, la promise, e la sposo moglie. Per la quale cosa i parenti della prima donna promessa raunati insieme, e dogliendosi di ciò che Messer Bondelmonte avea fatto loro di vergogna, sì presono il maladetto isdegno onde la città di Fiorenza si partì, che più case di Fiorenza di nobili si congiurarono insieme di farne vendetta e vergogna al detto messer Bondelmonte. E ragionando infra loro in che modo il dovessono offendere, o di batterlo o di fedirlo, IL MOSCA de' Lamberti disse la mala parola, Cosa fatta capo hae, cioè che fosse morto; e così fu fatto. Che la mattina della Pasqua della Resurrezione... il detto Messer Bondelmonte... in su uno

(a) Aldruda moglie di Fortiguerra Donati. Din. Comp.

(b) Oggi diciamo fidanzata. Il Comp. tolta e giurata.

bello palafreno bianco giugnendo a piè del ponte Vecchio... fue morto da quelli degli Uberti, e 'l Mosca Lamberti... per la qual cosa la città corse tutta ad arme e a rumore. Questa morte del detto messer Bondelmonte fue cagione e cominciamento delle maledette parti guelfe e ghibelline in Fiorenza ec.» Vedi anche il Compagni; e nel canto XVI,136-144 del Paradiso, ove Dante tocca di questo fatto e mostra aver letto e considerato questo tratto di cronaca, che ci è parso bene antiporre ad altra qual si sia sposizione.

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La cosa ch'è Cosa falla

107. CAPO HA COSA FATTA: Cioè, ha fine da riparare; il che voleva dire: Uccidetelo che alla fine ogni cosa si ag- Fatta la cosa, il giusta. Nannucci rimanente s'aggiusta, o: cosa fatta ha avviamento. Blanc-Ad ogni disordine si trova rimedio. Volpi falta ha fine. Vellutello ha poi fine; vale a dire, s'aggiusta poi, non vi manca riparo. Lombardi col Volpi e il Biagioli Cosa falla ha capo, - Uccicioè, porta a un esito. Bianchi diamolo, e così al fatto sarà dato principio. Ovvero: opera non lasciata a mezzo ha più agevole un termine. TommaIl Malispini ci spiega il solo senso di questo proverbio. Il Compagni se ne passa. I Comentatori prendon CAPO chi per principio e chi per fine. Noi sospettiamo che il motto sia una metafora allusiva ai tumori, che quando sono fatti, cioè compiuti e maturi, hanno capo, per dove s'agevola la via all'uscita dell'umor guasto, e se ne ottiene la guarigione.

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108. CHE FU IL MAL SEME ec. « Onde di tal morte i cittadini se ne divisono, e trassonsi insieme i parentadi e l'amistà d'amendue le parti, per modo che la detta divisione mai non finì: onde nacquero molti scandoli e omicidi e battaglie cittadinesche ». Dino Compagni. · Seme, V. C. III, 104, nota.

DELLA GENTE TOSCA; chè il consiglio del Mosca portò amari frutti non solo in Firenze, ma eziandio nel resto della Toscana, dove per la morte di Bondelmonte le parti concitaronsi a guerra; e que

Ed io v'aggiunsi: e morte di tua schiatta:
Perch' egli accumulando duol con duolo,
Sen gìo come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

gli odi poi vennero propagandosi con le generazioni, e cagionarono all'Italia dieci iliadi di mali funesti e di rovine. Varianti Per la gente hanno il cod. Caet., il Cassinese, il testo del Poggiali, del Bargigi, del Vellutello, del Lombardi, dell'E. R., del Tommaseo; e così legge il Nannucci. Della gente ha il cod. Vatic. (n. 3199) detto del Boccaccio, il testo del Landino, l'edizione 1a del Sansov. Ven. 1564; del Zatta, Ven. 1757; del Fulgoni, Roma 1791; del Venturi, Ven. 1757; e questa lez. adottarono G. B. Niccolini, il Bianchi ed altri.-L'una e l'altra lettera è probabile, potendosi, ad esempio, dire che il mal seme cioè il principio o la sorgente de' mali fu per la gente Tosca il motto del Mosca, pei Trojani l'adulterio di Paride ec. E parimente il mal seme, il principio delle dissenzioni e discordie civili della Toscana fu quel Cosa fatta capo ha. Così il Poeta dicendo il mal seme d'Adamo non intende significare onde Adamo venisse, ma chi da Adamo provenne.

109. V'aggiunsi: cioè alle parole ultime (v. 108) del Mosca. E MOrte ec. ch'è quanto dire: Il tuo maledetto consiglio CAPO HA COSA FATTA se fu il mal seme della gente tosca, fu altresì morte di tua schiatta; perocchè non restò in te e ne' tuoi (a) invendicato il sangue di

Buondelmonte.

110-111. PERCHÈ: per la qual cosa; per le quali mie parole da lui udite. AcCUMULANDO ec.: accrescendo sopra dolor di sua pena, dolore della mala nuova (v. 109) da me recatagli.-TRISTA: mesta.- MATTA: fuor di sè. PERSONA TRISTA

(a) Il Mosca vuolsi fosse stato della nobilissima e potente famiglia degli Uberti, che tennero parte Ghibellina: i quali quasi distrutti da' Donati, ch' erano Guelfi, scontarono il fio delle parole che pronunziate ebbero quando si deliberava di battere e far vergogna a Buondelmonte: Volcano fosse morto: chè così fa grande l'odio della morte come delle ferite. Din. Compagni.

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E MATTA. Parole che dicono anche quale in vita il Mosca si fosse, dal malvagio e dissennato consiglio ch'ei diede.

112-117. Guardando buccia buccia questo luogo, l'hanno i comentatori interpretato, come se il poeta temesse d'esser tenuto bugiardo narrando, senza testimoni che facessero fede al suo detto, d'aver veduto Bertram dal Bornio che camminava tenendo con mano pesolo pe' capelli, qual fosse una lanterna, il proprio capo troncato dal busto.

Ma questa protesta l' avrebb' egli fatta dal principio del canto; dove non mostra punto dubitare non altri gli aggiusti fede, ma si esser certo che non è dato a lingua umana descrivere il quadro spaventoso della nona bolgia. Che tanta moltitudine di storpi, di mozzi, un Maometto che si dilacca con le proprie mani, un Alì ch'è fesso dal mento al ciuffetto, infiniti che miserabilmente forati la gola e mutilati vadano in tregenda per quella bolgia, e di volta in volta si risaldino, e da un diavolo si rifacciano le mortali fe

rite, son cose certo men paurose, ma non

meno incredibili del fatto di Bertram.

Che giova egli ad un narratore invocare il testimonio della propria coscienza in quello che riflette l'altrui assenso alle cose che si asseriscono? E chi può mai porre la propria coscienza come mo

tivo di credibilità? Noi nol concederemmo neanche ad un poeta romanzesco come il Pulci e l'Ariosto ec. quando ci contano i prodigi di Morgante e d' Orlando.

Dante non una ma cento volte nel suo poema dovrebbe, se così fosse, o diffidare dell'altrui adesione alle cose che ci vien contando, e non diffida, perchè sa di esser poeta; ovvero sotto l'usbergo di sua coscienza presumere che dovessimo tenere per articoli di fede moltissime cose, che sono visioni e larve della sua fervida immaginazione.

alla cosa incredibile rende con tali proDirebbesi ch' egli per conciliar fede teste verosimile la finzione poetica, ep

però maravigliosa. Così aver egli fatto nel XVI di questa cantica, quando della vista che gli apparve di Gerione, riconosce che:

Sempre a quel ver c' ha faccia di menzogna

De' l'uom chiuder le labbra quant'ei puote, Però che senza colpa fa vergogna; e poi giura per le note della sua Commedia la realtà del fatto che viene narrando. Ma questo è ben poetico; quel d'invocare la coscienza in fede del proprio asserto è ridicolo, è contrario al buon senso ed alla stessa morale.

Vediamo ora in questo luogo qual fosse l'intendimento del Poeta. Non sarà malagevole rintracciarlo tenendo dinanzi agli occhi quegli altri d'antichi poeti, dai quali egli attinse. Son senza dubbio quelli di Orazio tra i primi:

(Lib. I, Od. 22):
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Ancora (Lib. 1, Epist. I):

Hic murus aeneus esto: Nil conscire sibi, nullaque pallescere culpa. Quel sentirsi puro è lo scelerisque purus oraziano e il nil conscire sibi. La buona compagnia tien luogo in Dante delle armi, de' turcassi, degli archi e delle saette, onde non abbisogna chi non si sente rimorso da colpa. Dante chiama la retta coscienza col nome di buona compagnia, a somiglianza di una schiera di valenti uomini armati, che si adibiscano alla guardia, difesa, o custodia d'un uomo: e la voce buona è da prendersi in sentimento di valida, strenua, brava ec. dal bonus tolto in tale significazione dai latini, siccome da Orazio stesso ove disse (Lib. IV, Od. 4): Fortes creantur fortibus et bonis. e (Lib. IV, Od. 8):

Per quae (marmora) spiritus et vita redit bonis Post mortem ducibus ec.

Questa compagnia francheggiava Dante. E che vuol dire egli codesto francheggiare ?

II Du-Cange:Franci dicti potissimum ex nobilitale ingenui, ipsique proceres. Dunque quella compagnia muniva, difendeva quasi la sua persona, qual d'un nobile o d'un principe si suol fare.

Franco anticamente si disse l' uomo libero non soggetto a taglie, nè a censi, nè ad altre imposte; e quindi la voce

passò o significare anche gentile, cortese, libero, immune; e francare, francheggiare per liberare, esimere, rendere esente da quello che offende o grava altrui.Francanza, franchigia per libertà, privilegio, esenzione, immunità ec. (a) E però dice anche il poeta che la coscienza l'assicurava, cioè lo faceva stare senza cura, affanno, timore, sospetto ec. di checchessia, che gli potesse danno arrecare (Vedi securus nel Forcellini ec.). Ma qui fa mestieri vedere d'onde procedesse tanta franchezza ed arditezza di Dante, d'onde mai tanta sicurezza nel guardare impavido il quadro orrendo di Beltramo e la nulla tema di descriverlo altrui (b). Richiamiamoci alla mente che Dante visita l'Inferno per vedere le diverse generazioni di colpa punite nelle anime reprobe, acciocchè si penta di quelle che ha commesso egli stesso, o ben si guardi d' inciamparvi, ove ne fosse esente. Noi lo vediamo che tre belve gli fanno dal principio tremar le vene e i polsi, perchè la superbia, l'avarizia e la lussuria,che son vizi da quelle simboleggiati, avevano alcuna volta morso l'anima dell'Alighieri. Nella setta de' cattivi egli non accusa che la testa cinta di confusione per gli urti disperati che ferirono le sue orecchia. Cade poscia come uomo preso da sonno alla luce vermiglia balenata dalla terra lagrimosa; ma come corpo morto cade poi dinanzi alla pietà de' due cognati, perchè riflette ch'egli, visitando da vivo l'In

(a) La compiuta donzella di Firenze: La gente franca (gentile) tutta s' innamora. Il Beato Jacopone, Lib. II, C. XVIII, 23: Jesù sia la tua fidanza, Se vuoi vivere in francanza. Dante stesso: Io cominciai come persona franca, cioè ben creata; poichè in questo luogo non ha che fare quella franchezza che da noi si ripone nella libertà di parlare, essendo egli mosso a dire le parole susseguenti da sentimento d' animo grato e rispondendo con cortesia a cortesia. Guido Orlandi: « Come servo francato » cioè

fatto libero.

Dino Comp. Intellig.: « Nostra franchigia è nella tua speranza ». 11 test. di Lucano: Tua nos faciat victoria cives. Franchigia è qui livile e libera cittadinanza. Francarsi per farsi bertà civile, passaggio dalla schiavitù alla ci

ardito ec. Dante da Maiano:

Allor di tanto, amico, mi francai Che dolcemente presila abbracciare. (b) Il Poeta dice io avrei paura... se non che ec.: dunque paura non ebbe.

ferno, risparmiava all'anima sua i tormenti che le sarebbero toccati per essersi lasciato cogliere alle reti di Amore. L'affanno di Ciacco l'invita alle lagrime, ma nol fa lagrimare, perchè non sente d'esser egli stato della greggia de' crapuloni. Imperterrito descrive la ridda degli avari e de' prodighi; non mette fuori che una morale esclamazione, e riceve dal suo Maestro un avviso su'provvidenziali rivolgimenti della Fortuna.Disdegna Filippo Argenti, perchè l'anima sua è sdegnosa, non già orgogliosa, e la Ragione lo cinge al collo e caccia da lui il fiorentino spirito bizzarro. Trema delle Furie e si stringe al Poeta che lo guida. Passa pe' martiri e gli alti spaldi de' seguaci d'Epicuro; tranquillo discorre con Farinata e in sè rumina con calma di ragione le parole che gli metteano innanzi l'esilio futuro. Qui non uso al lezzo: Che il profondo abisso gitta. gli è mestieri turarsi il naso; lì Virgilio dichiara a Chirone che il suo alunno:

Non è ladron, nè io anima fuia.

Pe' cerchi di tutt'i violenti il Poeta or coglie un ramuscel d' uno sterpo, e al sangue che quello gitta egli sta soltanto come l'uom che teme; chè in tutta sua vita non avea mai pensato di fare, anche tra le più grandi sventure, quello che Pier delle Vigne mal fatto avea. E perchè mai non s' affanna egli, o perchè non invoca testimonianze (e fosse anche della sua coscienza) colà dov'egli ci narra degli uomini mutati in pruni e dalle rotture di questi gemer sangue e parlare che meglio non farebbe lo stesso Dante? Un'anima che balestrata, come vuol fortuna, in Inferno:

Quivi germoglia come gran di spelta. a noi pare cosa più incredibile invero che non la pena di questo Beltrando: intanto il Poeta non cura d'allettare l' altrui credulità, ma, stretto dalla carità del luogo natio, soffermasi un tantino a ragunare le fronde sparle. Ora si mostra contento al solo esclamare, quanto la vendetta di Dio debbe:

Esser temuta da ciascun che legge Ciò che fu manifesto agli occhi miei! perocchè egli non fu mica violento o contro Dio, o la natura, o l'arte; e le dilatate falde di fuoco, e l'incendio che matura Capaneo e arrosta Ser Brunetto

non par che curi più che tanto, e serba nell'animo il duolo delle piaghe incese ne' membri del Rusticucci e consorti, suoi concittadini. Ma alla sponda del Burrato scioglie da sè la corda, che gli stringeva i lombi, poichè il vizio della libidine non restava meno già domo dalla ragione, che da una fune che si gitta via. La novità di Gerione dice non poter egli tacere, e giura in pro del vero per le note della sua Commedia. Pria che discenda alle bolge visita gli usurai ed altra tema nol coglie tranne quella, che non dovesse del lungo stare crucciarsi il suo Duca; e monta poscia ardito sulla groppa del fiero animale, come altri non farebbe sopra un nobile palafreno. La frode non avealo mai trafitto del suo pungello. Egli ebbe gran paura quando gli fu spenta:

Ogni veduta, fuor che della fiera, ma fu paura non dovesse precipitare.

Scosso indi dalla schiena di Gerione e messosi per le bolge, descrive le pungenti salse,cui son dannati ruffiani e adulatori; ed egli e il suo Duca volgono altrove lo sguardo da quelle sozzure. I Simoniaci non toccano il Poeta, ed hannosene anzi un rabbuffo. Se qualche lagrimetta gli bagna le gote nella bolgia degli Indovini,n' & cagione la pietà natagli dal vedere torta stranamente l'imagine umana. Alla pegola bollente nol piglia l' uncino di Malacoda, e, perchè non fu barattiere, gli è ingrata, non rea la scorta di dieci diavoli neri. Viene al collegio degl' Ipocriti, e stava per dar loro un cappello, se non era che la vista di:

Un crocifisso in terra con tre pali. gli troncò le parole, e tosto si parte:

Dietro alle poste delle care piante. Vanni Fucci che alla trafitta d'un serpe arde e cade in cenere, e come Fenice rinasce ad eterna pena,parrebbe delle cose più incredibili; e il poeta dice solo: Se tu sei or, lettor, a creder lento

Ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia;

Chè io, che 'l vidi appena il mi consento. e questo stesso gli vale a conciliarsi fede per le trasformazioni di Agnèl Brunelleschi e di Buoso degli Abati, le quali paiono al Poeta stesso più nuove e portentose di quante ne descrissero Lucano ed Ovidio. I rei del fuoco furo parlano al guizzo della fiamma: egli ode i

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