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Vid' io scritte al sommo d'una porta,
Perch' io: maestro, il senso lor m'è duro.

Ed egli a me, come persona accorta :
Qui si convien lasciare ogni sospetto;
Ogni viltà convien che qui sia morta.

nel pensiero immagini tristi e pauro-
se. Le quali perciò son dette altrove,
(Inf. VIII, 127): La scritta morta.

12. Maestro, il senso lor m'è duro.

Queste parole sono un aureo tratto di pennello che Dante con mano maestra stende sul quadro, per dipingere l' atto, la movenza e la portatura od atteggiamento della persona di Virgilio, mentre ch'egli leggeva la scritta.

Le parole precedenti a queste entrando nella parte narrativa che fa il poeta, a noi che non stiamo la giù, non posso

no affatto formare l' antecedente cui si riferisca il pronome lor che sta entro quelle che Dante volge a Virgilio d'avanti alla porta d'inferno.

Il poeta fiorentino non può dire dunque al Mantovano:

ll senso lor

senonchè nella supposizione che quelle parole stavano sotto gli occhi dell' uno, come dell'altro.

Adunque mentre Dante leggevale, Virgilio faceva altrettanto; onde n'ebbe anticipatamente veduto l'effetto che produr dovevano nell'animo di lui, e perciò chiamato poco appresso persona accorta. Per quello s' attiene a grammatica, è

naturale anche al linguaggio comune,
che i pronomi, massime dimostrativi, si
adoprino senza compagnia de' loro nomi
a cui riferisconsi, e senza pure averli es-
pressi innanzi.
Cur, inquit, turbolentam fecisti mihi istam bi-
(benti?

dice il lupo all' agnello, appo Fedro. E
non sappiamo in vero quanto abbia gua-
dagnato d'evidenza l'espressione col mu-
tare che l' edizioni di Lipsia han fatto di
quell'istam in aquam.

Il senso lor, m'è duro.

Duro per molte ragioni. Duro cioè impenetrabile e resistente alla punta della intelligenza, ovvero che per quanto egli studisi e si adoperi attorno quelle parole, non gli vien però fatto di cavarne costrutto.

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Il senso n'era duro, val dire inestricabile, difficile ec.

Dante non potette mostrarsi restio anche questa volta a seguitare il suo duca. Ciò fece nel secondo canto dicendo : Guarda la mia virtù s'ella è possente, Prima che all'alto passo tu mi fidi. e con quelli arzigogoli ed andirivieni recati in mezzo di Enea e di S. Paolo, a cui non era egli pari per imprendere il gran viaggio. E non costò piccolo sforzo ad un uomo come Dante mostrarsi di sì poco coraggio, dopo che nella fine del primo canto ebbe con sì grande ardore pregato Virgilio che ve 'l menasse; dappoichè volere e disvolere (Inf. II. 37) il bene è velleità propria de' dappoco e dei vili (v. 122). Ora, dopo tutto questo; dopo che il Mantovano contò della Beatrice e degli altri celesti che stavano per Dante, e che il suo viaggio volevasi lassù; quale sfuggita resteragli perchè ritraggasi onorevolmente e ragionevolmente dell' entrare in Inferno, giunti come ne sono già entrambi alla porta? Nessuna, proprio nessuna, salvo questa; ch'egli mostrasse di non intendere quella scritta, e come poi Virgilio si ponesse ad aprirgliene il senso, ed egli potesse afferrare un capo per novellamente rivolgersi dalla impresa. Ma qui l'ombra del Mantovano fece da suo pari; chè ricisamente gli dice:

Qui si convien lasciare ogni sospetto, Ögni viltà convien che qui sia morta ec. e presolo, con lieto volto, per mano, vel sospinse dentro, e fu in un punto la pau

ra svanita.

Se diasi uno degli altri sensi, che ha, la voce duro; l'intelligenza del luogo, come a noi qui è paruta naturale, non vi è più.

Impertanto bene potrà dirsi altrove, non qui: « m'è duro, mi è aspro, mi reca pena, mi spaventa » chè sarebbe disperdere tutta la bellezza di questo passo, dove maestrevolmente chiudesi dal poeta l' episodio tratteggiato sino al ter

Noi sem venuti al luogo, ov'io t'ho detto,
Che vederai le genti dolorose,
Ch' hanno perduto 'l ben dello 'ntelletto.
E poichè la sua mano alla mia pose
Con lieto volto, ond' io mi confortai,
Mi mise dentro alle secrete cose.
Quivi sospiri, pianti, ed alti guai

zo canto per dipignere a vivi colori il
contrasto tra il volere il bene e non por-
si all' opera per la difficoltà d'ottenerlo;
nonchè poi la paura che nascerebbe in
ognuno di mettersi per le vie dell'infer-
no. Se Dante avesse fatto altramente,
ogni cicisbeo andrebbe a visitare la reg-
gia di Plutone con la stessa facilità che
recasi ad una veglia, o ad una festa di
ballo.

17 e seg. Non tutt'i dannati son dolorosi solamente per questo, che hanno perduto il bene dell'intelletto ch'è Dio. Oltre di questa pena che dicono del danno, o perdita del bene sommo, sapeva Dante che v'era la pena del senso. Intanto sono due belle ragioni, onde qui si fa motto d'una sola; e queste sono, la prima perchè i primi a esser visitati furono invero le anime di quelli, che si perderono per difetto della fede ec. e non per altra reità: la seconda, perchè vi si nota la pena infinitamente dell' altra più grave; ed anche molto opportunamente Virgilio non tocca le pene del senso come tormenti, froco, ghiacci, pegole bollenti ecc., perciocchè essendovi Dante andato ancor vivo, ed avendo ai dolori de' sensi ognun che ci viva, naturale ed irresistibile avversione; il savio Duca ben capiva, che parlandone innanzi tempo, avrebbe svolto il suo alunno dall'onorata impresa. È stata quell'epigrafe non men dura a Dante, che ai comentatori. (V. Inf. I, 4).

20. Confortano il P. l'atto gentile e le parole (v. 14 seg.) del suo Duca, che ci ricordano (En. VI, 261): Nunc animis opus, Ænea, nunc pectore firmo. Quivi sospetto val timore.

É da Suspicari, sperare, che significò anche in italiano temere. Vedi Inf. X, 57. La scritta morta dice: Lasciale ogni speranza... Il savio Duca fa il turcimanno di questa frase: Si convien lasciare ogni

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sospetto; poichè sospetto e speranza
v' hanno l'identica significazion di ti-
more. E la Porta diceva: lasciate ogni
timore voi che intrate (V. il Torricelli) e
il Maestro così chiariva al suo alunno
l'epigrafe di colore oscuro. Di Speranza
per timore eccone esempi. Bono Giamb.
Stor. Paol. Oros. Lib. II, cap. IX. Am-
monio gli Spartani che della buona no-
minanza curino e della vita non ispe-
rino, e non guardino all' abbondanza
de' nemici... Dino Frescobaldi (1300):
Dove nascer suol conforto in pria,

Or più tosto si cria
Quel che mi fa di vita sperar morte;
E quivi cresce con tanta fierezza
Questa speranza, che così m'è ria,
Ch'ogn'altra fugge via

Vinta e tremando, e questa riman forte.
Tommaso Buzzola (1280):

... Più non son salito in vostro amore,
Ch'era primeramente,

Nè più cadere già non me ne spero.
Però voi, donna, serviraggio amando...

Ancora:

Lo meo core è partuto, e morte spera. Sperando morte, oh Deo, poria guarire (a). Nella duplice accettazione della voce speranza è posta artificiosamente la tema, che la scritta morta incusse a Dante, e il conforto e la benigna spiegazione, che Virgilio gliene diede.

22. Paragonate, di grazia, questo verso con quegli altri di Fra Jacopone: Nello 'nferno n'andrai eternamente

Là dove è strida e pianti con gran guai. e poi sappiate dire se Dante non fece anch' egli come colui, che confessò: Colligimus aurum de stercore Ennii. In

S. Matteo si lesse dal Todino e dal Fiorentino: « Ubi erit fletus et stridor dentium » e Jacopone l'avea tradotto a parola, stando al Codice Pucci, che ha:

Là dove son grandi stridori e guai.

(a) Qui Sperare è piuttosto in sentimento di aspettare, significato altresì della voce latina sperare, la quale valse, per catacresi, temere,

siccome si ha da esempi. 6

Risonavan per l'aere senza stelle,
Perch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
Parole di dolore, accenti d'ira,
Voci alte e fioche, e suon di man con elle

Facevan un tumulto, il qual s' aggira
Sempre 'n quell' aria senza tempo tinta,
Come la rena, quando a turbo spira.
Ed io, ch' avea d'error la testa cinta,

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Dissi: Maestro, che è quel, ch'i' odo?
E che gent'è, che par nel duol sì vinta?

Ma Virgilio aveva detto anche (En.
VI, 557):

Hinc exaudiri gemitus, et saeva sonare
Verbera; tum stridor férri tractaeque catenae ec.
E il nostro Poeta vagheggia la locu-
zione virgiliana e qui e dove dice (Inf.
V, 25):

Ora incomincian le dolenti note ec.
Enea alla Sibilla (Ivi v. 560):

Quae scelerum facies? 0 virgo, effare: quibusve
Urgentur poenis ? qui tantus plangor ad auras?

sua mente e i suoi occhi volgesse. Gianni Alfani (1250):

Lo quale (saluto) sbigotti sì gli occhi miei,
Ch'egli incerchio di stridi
L'anima mia, che li pingea di fuora ec.

Ser Brunetto:

Ahi lasso che corrotto
Feci, quand'ebbi inteso
Com'io era compreso
Di smisurati mali...!

Al Poeta pare fosse stato in animo di

e Dante al v. 32 di questo canto, volto esprimere la sentenza del Salm. XVII:

al suo Duca:

Maestro, ch'è quel ch'i odo?

E che gent'è, che par nel duol sì vinta? Il che mostra quanto vero ei dicesse all'ombra del Mantovano:

Tu se' lo mio poeta e il mio autore ec. toccato poco innanzi del lungo studio e grande amore, ch' ebbe posto in quel divino poeta. (V. Inf. VI. 22. not.).

29. Senza tempo intendono alcuni senza temporale. Il Landino lo spiega per eternamente, e pare con molta ragione; poichè l'eternità esclude il tempo. Dante usa eziandio senza fine per nfinitamente (Purg. XX, 12 - Parad. XVII, 112 ec.) a significare la non sazievole cupidezza dell'avarizia, e l'interminabile ed illimitata acerbezza del doloroso regno infernale, « Che tuono accoglie d'infiniti guai » (Inf. IV).

31. Dante avea ancor freschi nella mente gli orrori della Selva, la gravezza che gli porsero le tre Fiere; nè tanto è ancor sicuro della sua impresa, che, leggendo ora quell'epigrafe infernale, non abbia novella cagione di smarrimento. Avea cinta di orrori la testa, perchè altro che orrori non vedeva, ovunque la

Circumdederunt me dolores mortis..... Dolores inferni circumdederunt me ec. o la simile del CXIV.

Molte edizioni, codici e preziosi mss. hanno errore come riteniamo nel testo. La voce ha qui forza di confusione, smarrimento ec. e non pare significhi ignoranza, come s'avvisarono taluni dotti. È presa nel senso proprio. Orrore poi è del cod. Pucciani, del Riccardiano, del Vaticano, del Dante Antinori e di quel del Boccaccio, nonchè di due delle prime quattro edizioni della Divina Commedia ristampate per cura di G. G. Warren Lord Vernon. Londra 1858. Il Cod. Cassin. legge: derror con in su la postilla: vel dorror; che poi chiosa: propter horribilem clamorem (a).

33. Vinta, come si voglia da vincire, o da vincere, verbi latini, ne vien sempre buona la sentenza. Se dal primo, la voce vinta sarà la stessa che vincta, e

(a) Cito il codice, che i Reverendi PP. Benedettini misero la prima volta a stampa, offerendolo al Comune di Firenze, quando vi si celebrò il sesto centenario di Dante. Debbo alla cortesia dell' insigne mio concittadino Avvocato Cesare Pirrò, ch'io abbia potuto a mia posta cercare e scontrare il prezioso volume.

Ed egli a me: questo misero modo
Tengon l'anime triste di coloro,

si vorrà dal Poeta significare, come quel-
la gente stia quasi avvinta di ritorte,
stretta e incatenata nel dolore, come allo
scoglio era, secondo le favole, fisso Pro-
meteo: lo che dinoterebbe nessuno poter
sottrarsi alla pena inflitta dall' eterna
giustizia. Se dal secondo; e allora vinta
dir vorrà che l' acerbezza del duolo sor-
passa, eccede la forza di chi lo soffre:
con questo vivo tratto di pennello il Poe-
ta pingerebbe nella mente del lettore la
miseria di quegli sciaurati; i quali, per
quante vi adoprino difese e schermi con-
tro i dolori, non possono fare ch' egli
non restino superati, sopraffatti dall' in-
tensità di quello, e annientati da una
potenza superiore, la quale gli preme, e
tiene in angosce ch' essi non valgono a
sostenere. Frequentissimo l'uso di que-
sto vocabolo vincere in tutta la Divina
Commedia. Il luogo che annotiamo ci
ricorda quello di Virgilio (En. IV, 370):
Num lacrimas victus dedit, aut miseratus aman-
(tem est?

e quell'altro (ivi 474):
Ergo, ubi concepit furias, evicta dolore...

Le distinte significanze date dall'Alighieri alla predetta voce, porta il pregio d'andarle qui noverando.

Vinto in sentimento di venuto meno

Parad. X, 64:

Io vidi più fulgor vivi e vincenti ec. (a)
Ancora, Parad. XXIX, 8 seg.:
Si tacque Beatrice, riguardando
Fiso nel punto che m'aveva vinto.

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Vincere dicesi di ogni cosa che posta al paragone con altra la superi ed avanzi sotto qualche rispetto. Purg. VII, 73 segg.:

Oro ed argento fino e cocco e biacca,
Indico legno lucido e sereno,
Fresco smeraldo allora che si fiacca,
Dall'erba e dalli fior dentro a quel seno
Posti, ciascun saria di color vinto,
Come dal suo maggiore è vinto il meno.
E così nel Paradiso XV, 109 seg.; e
XXVIII, 25 seg.

Che poi Dante includa in questa voce Vincere l'idea di due forze, delle quali una in conflitto dell' altra ne sia sorvanzata, lo dice la parola da sè; niuna vittoria essendo senza combattimento. Egli stesso ciò esprime (Parad. XXIII, 77) dove dice:

mi rendei

Alla battaglia de' deboli cigli.
Chè non erano possenti le sue pupille
a sostenere il raggio della
viva stella,

Che lassù vince come quaggiù vinse.
Con queste idee leggansi i versi Inf.
V, 72 e Parad. XX, 94 a 99 ec.

Da ultimo è da notare, il valor della di forza, oppresso, soperchiato ec. Inf. frase vinta nel duolo esser dappiù, che

XXIII, 58 segg.:

Laggiù trovammo una gente dipinta,

Che giva intorno assai con lenti passi, Piangendo, e nel sembiante stanca e vinta. Erano gl'ipocriti, che mancavano sotto il peso delle cappe di piombo. Veggasi altresì Inf. XXIV, 31 a 36.

Vinto per fatto soggetto, ubbidiente, servo; (chè servo primitivamente non si disse, se non al vinto in battaglia). Purg. XII, 124:

Fien li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
Che non pur non fatica sentiranno,
Ma fia diletto loro esser su pinti.

Vincere detto della luce, per abba-
gliare, instupidire, ottundere la facoltà
visiva, o la forza del sentimento in ge-
nere. In questo canto v. 133 e segg.:
La terra lagrimosa diede vento,
Che balenò una luce vermiglia,

La qual mi vinse ciascun sentimento;
E caddi, come l'uom cui sonno piglia.

se detto fosse dal duolo: debita pena ai dappoco, e a quella vile bruzzaglia di cacacciani. Gli altri dannati mostrano del vigore qual più, qual meno in portare i martiri; sino a Capaneo, che sotto la pioggia del fuoco pare che insulti e sfidi la divinità punitrice. (Veggasi Inf. V, 104 not.).

34 e seg. Tenere, avere in sua potestà

(a) Un dotto Comentatore chiosa: « Vincenti, che vinceano la luce del sole ». Ma il sole sta in cielo, e non trovandosi nell' orazione il suo nome quale obbietto, nessuna licenza ci autorizza di sup supplirvelo. Il significato, che noi rileviamo proprio della voce, fa vedere che il Poeta non ha usato in questo costrutto nessun modo ellittico; e che vincenti e vivi son due aggiunti egualmente assoluti: o diasi pure la forza attiva al participio, e i fulgori vincevano non il sole, ma la potenza visiva degli occhi di Dante, che gli guardava.

Che visser senza infamia e senza lodo.

una cosa, esserne padrone, possederla, averla come sua propria. E proprio è appropriato in dominio perenne ec. Virg. En. I: propriamque dicabo ec. la farò tua per sempre. Oraz. Lib. II, Od. 2, propriamque laurum - alloro, gloria speciale, perpetua, non peritura ec. Tengon questo misero modo val dunque (per proprietà della voce anzidetta) in sentenza: a queste anime è assegnata e data in eterno cotesta miseria.

Tener modo, per proprietà di favella, significa: usar moderazione, tenersi sul giusto, temperarsi, stare ad una regola ec. Qui, come altrove (Inf. X, 99) la frase non pare di questo valore, e modo sembravi messo nell' ovvia accettazione di maniera. Pure non sarebbe strano che valesse metro, verso. I Latini disser modus allo schema del carme; e modulari, trovare e aggiustare il verso, accordarne il canto al suono. Orazio Lib. III, Od. 30:

Dicar

Princeps Æolium carmen ad Italos
Deduxisse modos.

Virgilio Ecl. V:
Immo haec, in viridi nuper quae corlice fagi
Carmina descripsi, et modulans alterna notavi,
Experiar.

Il metro è forma, modo, o modulo, secondo cui il verso tiene le sue pause, i suoi accenti, le sue misure di sillabe, di piedi, di tempi, le sue note. Epperò si dice metro, verso, modo una certa maniera regolata di canto o di suono. Facere modos era appo i Latini il musicare o mettere in musica. Ci avvisa dunque, cotesto tener modo, che il Nostro dice, voler significare: star sulla nota, sulla battuta; usare invariabilmente una cantilena. Così diciam noi: il verso del canario, dell'usignuolo, del fringuello, e del gufo, del corvo, del gallo ec. Questo misero modo che tenevan l'anime

triste ec. era una specie del

miserum carmen disperdere (Virg. Ecl. III); era un'eterna inutile cantilena, onde disfogavano il lor dolore. Dante stesso (Inf. VII, 31):

Così tornavan per lo cerchio tetro,
Da ogni mano all'opposito punto,
Gridando sempre in loro ontoso metro.

Chiama metro (Inf. XIX, 89) il tenore delle sue acri parole a Niccolò III, piantato tra i simoniaci:

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
Ch'io pur risposi lui a questo metro: ec.

E alla fine di quella franca rammanzina (90 a 117), (che dovrebbe far tremare i vivi, come fece forte spingar le piote al trapassato) vien poi dicendoci che gliel' ebbe cantata, o detto in canzone ciò che aveagli a dire:

E mentre io gli cantava cotai note ec. La significanza di modo, nel senso ch'è detto, traspare anche da' seguenti versi (Purg. XVI, 18):

Pure Agnus Dei eran le loro esordia:
Una parola in tutti era ed un modo,
Sì che parea tra esse ogni concordia.

Una parola..... un modo..... concordia, son gli elementi dell'armonia. Dante sentì vivo l'incanto della musica, come della poesia.

Ancora, (Purg. XXIII, 10):
Ed ecco pianger e cantar s'udie
Labia mea, Domine, per modo
Tal, che diletto e doglia parturie.
E (Purg. XXIV, 52):

I' mi son un che quando
Amore spira, noto, ed a quel modo
Che detta dentro, vo significando.

Dove si vede che Amore non gli detta prosa, ma gli spira versi e canzoni; come dicon le voci noto e modo, che son proprie della musica e del canto. Se voi date alla voce modo il predetto valore, si fa più terribile l'espressione del miseTo verso, che

Tengon l'anime triste di coloro Che visser senza infamia e senza lodo; perciocchè più aggrava ed attrista una infelicità, la quale mai non varia, e non ha quasi che la stessa nota, lo stesso modo, lo stesso tenore in eterno.

36. Lodo. Ebbe questa voce anticamente tre desinenze, dicendosi al singolare lode, loda, e lodo. Lode s'ebbe regolarmente dal sesto caso del nome latino corrispondente (laude). In a uscirono moltissimi altri nomi femminili della terza latina passati nella lingua volgare: il che vogliono sia stato fatto ne' suoi primordi per conformità di cadenza. Quindi il Nostro (Inf. II. 103):

Disse: Beatrice loda di Dio vera.

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