Vid' io scritte al sommo d'una porta, Ed egli a me, come persona accorta : nel pensiero immagini tristi e pauro- 12. Maestro, il senso lor m'è duro. Queste parole sono un aureo tratto di pennello che Dante con mano maestra stende sul quadro, per dipingere l' atto, la movenza e la portatura od atteggiamento della persona di Virgilio, mentre ch'egli leggeva la scritta. Le parole precedenti a queste entrando nella parte narrativa che fa il poeta, a noi che non stiamo la giù, non posso no affatto formare l' antecedente cui si riferisca il pronome lor che sta entro quelle che Dante volge a Virgilio d'avanti alla porta d'inferno. Il poeta fiorentino non può dire dunque al Mantovano: ll senso lor senonchè nella supposizione che quelle parole stavano sotto gli occhi dell' uno, come dell'altro. Adunque mentre Dante leggevale, Virgilio faceva altrettanto; onde n'ebbe anticipatamente veduto l'effetto che produr dovevano nell'animo di lui, e perciò chiamato poco appresso persona accorta. Per quello s' attiene a grammatica, è naturale anche al linguaggio comune, dice il lupo all' agnello, appo Fedro. E Il senso lor, m'è duro. Duro per molte ragioni. Duro cioè impenetrabile e resistente alla punta della intelligenza, ovvero che per quanto egli studisi e si adoperi attorno quelle parole, non gli vien però fatto di cavarne costrutto. 15 Il senso n'era duro, val dire inestricabile, difficile ec. Dante non potette mostrarsi restio anche questa volta a seguitare il suo duca. Ciò fece nel secondo canto dicendo : Guarda la mia virtù s'ella è possente, Prima che all'alto passo tu mi fidi. e con quelli arzigogoli ed andirivieni recati in mezzo di Enea e di S. Paolo, a cui non era egli pari per imprendere il gran viaggio. E non costò piccolo sforzo ad un uomo come Dante mostrarsi di sì poco coraggio, dopo che nella fine del primo canto ebbe con sì grande ardore pregato Virgilio che ve 'l menasse; dappoichè volere e disvolere (Inf. II. 37) il bene è velleità propria de' dappoco e dei vili (v. 122). Ora, dopo tutto questo; dopo che il Mantovano contò della Beatrice e degli altri celesti che stavano per Dante, e che il suo viaggio volevasi lassù; quale sfuggita resteragli perchè ritraggasi onorevolmente e ragionevolmente dell' entrare in Inferno, giunti come ne sono già entrambi alla porta? Nessuna, proprio nessuna, salvo questa; ch'egli mostrasse di non intendere quella scritta, e come poi Virgilio si ponesse ad aprirgliene il senso, ed egli potesse afferrare un capo per novellamente rivolgersi dalla impresa. Ma qui l'ombra del Mantovano fece da suo pari; chè ricisamente gli dice: Qui si convien lasciare ogni sospetto, Ögni viltà convien che qui sia morta ec. e presolo, con lieto volto, per mano, vel sospinse dentro, e fu in un punto la pau ra svanita. Se diasi uno degli altri sensi, che ha, la voce duro; l'intelligenza del luogo, come a noi qui è paruta naturale, non vi è più. Impertanto bene potrà dirsi altrove, non qui: « m'è duro, mi è aspro, mi reca pena, mi spaventa » chè sarebbe disperdere tutta la bellezza di questo passo, dove maestrevolmente chiudesi dal poeta l' episodio tratteggiato sino al ter Noi sem venuti al luogo, ov'io t'ho detto, zo canto per dipignere a vivi colori il 17 e seg. Non tutt'i dannati son dolorosi solamente per questo, che hanno perduto il bene dell'intelletto ch'è Dio. Oltre di questa pena che dicono del danno, o perdita del bene sommo, sapeva Dante che v'era la pena del senso. Intanto sono due belle ragioni, onde qui si fa motto d'una sola; e queste sono, la prima perchè i primi a esser visitati furono invero le anime di quelli, che si perderono per difetto della fede ec. e non per altra reità: la seconda, perchè vi si nota la pena infinitamente dell' altra più grave; ed anche molto opportunamente Virgilio non tocca le pene del senso come tormenti, froco, ghiacci, pegole bollenti ecc., perciocchè essendovi Dante andato ancor vivo, ed avendo ai dolori de' sensi ognun che ci viva, naturale ed irresistibile avversione; il savio Duca ben capiva, che parlandone innanzi tempo, avrebbe svolto il suo alunno dall'onorata impresa. È stata quell'epigrafe non men dura a Dante, che ai comentatori. (V. Inf. I, 4). 20. Confortano il P. l'atto gentile e le parole (v. 14 seg.) del suo Duca, che ci ricordano (En. VI, 261): Nunc animis opus, Ænea, nunc pectore firmo. Quivi sospetto val timore. É da Suspicari, sperare, che significò anche in italiano temere. Vedi Inf. X, 57. La scritta morta dice: Lasciale ogni speranza... Il savio Duca fa il turcimanno di questa frase: Si convien lasciare ogni 20 sospetto; poichè sospetto e speranza Or più tosto si cria Vinta e tremando, e questa riman forte. ... Più non son salito in vostro amore, Nè più cadere già non me ne spero. Ancora: Lo meo core è partuto, e morte spera. Sperando morte, oh Deo, poria guarire (a). Nella duplice accettazione della voce speranza è posta artificiosamente la tema, che la scritta morta incusse a Dante, e il conforto e la benigna spiegazione, che Virgilio gliene diede. 22. Paragonate, di grazia, questo verso con quegli altri di Fra Jacopone: Nello 'nferno n'andrai eternamente Là dove è strida e pianti con gran guai. e poi sappiate dire se Dante non fece anch' egli come colui, che confessò: Colligimus aurum de stercore Ennii. In S. Matteo si lesse dal Todino e dal Fiorentino: « Ubi erit fletus et stridor dentium » e Jacopone l'avea tradotto a parola, stando al Codice Pucci, che ha: Là dove son grandi stridori e guai. (a) Qui Sperare è piuttosto in sentimento di aspettare, significato altresì della voce latina sperare, la quale valse, per catacresi, temere, siccome si ha da esempi. 6 Risonavan per l'aere senza stelle, Facevan un tumulto, il qual s' aggira 25 30 Dissi: Maestro, che è quel, ch'i' odo? Ma Virgilio aveva detto anche (En. Hinc exaudiri gemitus, et saeva sonare Ora incomincian le dolenti note ec. Quae scelerum facies? 0 virgo, effare: quibusve sua mente e i suoi occhi volgesse. Gianni Alfani (1250): Lo quale (saluto) sbigotti sì gli occhi miei, Ser Brunetto: Ahi lasso che corrotto Al Poeta pare fosse stato in animo di e Dante al v. 32 di questo canto, volto esprimere la sentenza del Salm. XVII: al suo Duca: Maestro, ch'è quel ch'i odo? E che gent'è, che par nel duol sì vinta? Il che mostra quanto vero ei dicesse all'ombra del Mantovano: Tu se' lo mio poeta e il mio autore ec. toccato poco innanzi del lungo studio e grande amore, ch' ebbe posto in quel divino poeta. (V. Inf. VI. 22. not.). 29. Senza tempo intendono alcuni senza temporale. Il Landino lo spiega per eternamente, e pare con molta ragione; poichè l'eternità esclude il tempo. Dante usa eziandio senza fine per nfinitamente (Purg. XX, 12 - Parad. XVII, 112 ec.) a significare la non sazievole cupidezza dell'avarizia, e l'interminabile ed illimitata acerbezza del doloroso regno infernale, « Che tuono accoglie d'infiniti guai » (Inf. IV). 31. Dante avea ancor freschi nella mente gli orrori della Selva, la gravezza che gli porsero le tre Fiere; nè tanto è ancor sicuro della sua impresa, che, leggendo ora quell'epigrafe infernale, non abbia novella cagione di smarrimento. Avea cinta di orrori la testa, perchè altro che orrori non vedeva, ovunque la Circumdederunt me dolores mortis..... Dolores inferni circumdederunt me ec. o la simile del CXIV. Molte edizioni, codici e preziosi mss. hanno errore come riteniamo nel testo. La voce ha qui forza di confusione, smarrimento ec. e non pare significhi ignoranza, come s'avvisarono taluni dotti. È presa nel senso proprio. Orrore poi è del cod. Pucciani, del Riccardiano, del Vaticano, del Dante Antinori e di quel del Boccaccio, nonchè di due delle prime quattro edizioni della Divina Commedia ristampate per cura di G. G. Warren Lord Vernon. Londra 1858. Il Cod. Cassin. legge: derror con in su la postilla: vel dorror; che poi chiosa: propter horribilem clamorem (a). 33. Vinta, come si voglia da vincire, o da vincere, verbi latini, ne vien sempre buona la sentenza. Se dal primo, la voce vinta sarà la stessa che vincta, e (a) Cito il codice, che i Reverendi PP. Benedettini misero la prima volta a stampa, offerendolo al Comune di Firenze, quando vi si celebrò il sesto centenario di Dante. Debbo alla cortesia dell' insigne mio concittadino Avvocato Cesare Pirrò, ch'io abbia potuto a mia posta cercare e scontrare il prezioso volume. Ed egli a me: questo misero modo si vorrà dal Poeta significare, come quel- e quell'altro (ivi 474): Le distinte significanze date dall'Alighieri alla predetta voce, porta il pregio d'andarle qui noverando. Vinto in sentimento di venuto meno Parad. X, 64: Io vidi più fulgor vivi e vincenti ec. (a) 35 Vincere dicesi di ogni cosa che posta al paragone con altra la superi ed avanzi sotto qualche rispetto. Purg. VII, 73 segg.: Oro ed argento fino e cocco e biacca, Che poi Dante includa in questa voce Vincere l'idea di due forze, delle quali una in conflitto dell' altra ne sia sorvanzata, lo dice la parola da sè; niuna vittoria essendo senza combattimento. Egli stesso ciò esprime (Parad. XXIII, 77) dove dice: mi rendei Alla battaglia de' deboli cigli. Che lassù vince come quaggiù vinse. Da ultimo è da notare, il valor della di forza, oppresso, soperchiato ec. Inf. frase vinta nel duolo esser dappiù, che XXIII, 58 segg.: Laggiù trovammo una gente dipinta, Che giva intorno assai con lenti passi, Piangendo, e nel sembiante stanca e vinta. Erano gl'ipocriti, che mancavano sotto il peso delle cappe di piombo. Veggasi altresì Inf. XXIV, 31 a 36. Vinto per fatto soggetto, ubbidiente, servo; (chè servo primitivamente non si disse, se non al vinto in battaglia). Purg. XII, 124: Fien li tuoi piè dal buon voler sì vinti, Vincere detto della luce, per abba- La qual mi vinse ciascun sentimento; se detto fosse dal duolo: debita pena ai dappoco, e a quella vile bruzzaglia di cacacciani. Gli altri dannati mostrano del vigore qual più, qual meno in portare i martiri; sino a Capaneo, che sotto la pioggia del fuoco pare che insulti e sfidi la divinità punitrice. (Veggasi Inf. V, 104 not.). 34 e seg. Tenere, avere in sua potestà (a) Un dotto Comentatore chiosa: « Vincenti, che vinceano la luce del sole ». Ma il sole sta in cielo, e non trovandosi nell' orazione il suo nome quale obbietto, nessuna licenza ci autorizza di sup supplirvelo. Il significato, che noi rileviamo proprio della voce, fa vedere che il Poeta non ha usato in questo costrutto nessun modo ellittico; e che vincenti e vivi son due aggiunti egualmente assoluti: o diasi pure la forza attiva al participio, e i fulgori vincevano non il sole, ma la potenza visiva degli occhi di Dante, che gli guardava. Che visser senza infamia e senza lodo. una cosa, esserne padrone, possederla, averla come sua propria. E proprio è appropriato in dominio perenne ec. Virg. En. I: propriamque dicabo ec. la farò tua per sempre. Oraz. Lib. II, Od. 2, propriamque laurum - alloro, gloria speciale, perpetua, non peritura ec. Tengon questo misero modo val dunque (per proprietà della voce anzidetta) in sentenza: a queste anime è assegnata e data in eterno cotesta miseria. Tener modo, per proprietà di favella, significa: usar moderazione, tenersi sul giusto, temperarsi, stare ad una regola ec. Qui, come altrove (Inf. X, 99) la frase non pare di questo valore, e modo sembravi messo nell' ovvia accettazione di maniera. Pure non sarebbe strano che valesse metro, verso. I Latini disser modus allo schema del carme; e modulari, trovare e aggiustare il verso, accordarne il canto al suono. Orazio Lib. III, Od. 30: Dicar Princeps Æolium carmen ad Italos Virgilio Ecl. V: Il metro è forma, modo, o modulo, secondo cui il verso tiene le sue pause, i suoi accenti, le sue misure di sillabe, di piedi, di tempi, le sue note. Epperò si dice metro, verso, modo una certa maniera regolata di canto o di suono. Facere modos era appo i Latini il musicare o mettere in musica. Ci avvisa dunque, cotesto tener modo, che il Nostro dice, voler significare: star sulla nota, sulla battuta; usare invariabilmente una cantilena. Così diciam noi: il verso del canario, dell'usignuolo, del fringuello, e del gufo, del corvo, del gallo ec. Questo misero modo che tenevan l'anime triste ec. era una specie del miserum carmen disperdere (Virg. Ecl. III); era un'eterna inutile cantilena, onde disfogavano il lor dolore. Dante stesso (Inf. VII, 31): Così tornavan per lo cerchio tetro, Chiama metro (Inf. XIX, 89) il tenore delle sue acri parole a Niccolò III, piantato tra i simoniaci: Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, E alla fine di quella franca rammanzina (90 a 117), (che dovrebbe far tremare i vivi, come fece forte spingar le piote al trapassato) vien poi dicendoci che gliel' ebbe cantata, o detto in canzone ciò che aveagli a dire: E mentre io gli cantava cotai note ec. La significanza di modo, nel senso ch'è detto, traspare anche da' seguenti versi (Purg. XVI, 18): Pure Agnus Dei eran le loro esordia: Una parola..... un modo..... concordia, son gli elementi dell'armonia. Dante sentì vivo l'incanto della musica, come della poesia. Ancora, (Purg. XXIII, 10): I' mi son un che quando Dove si vede che Amore non gli detta prosa, ma gli spira versi e canzoni; come dicon le voci noto e modo, che son proprie della musica e del canto. Se voi date alla voce modo il predetto valore, si fa più terribile l'espressione del miseTo verso, che Tengon l'anime triste di coloro Che visser senza infamia e senza lodo; perciocchè più aggrava ed attrista una infelicità, la quale mai non varia, e non ha quasi che la stessa nota, lo stesso modo, lo stesso tenore in eterno. 36. Lodo. Ebbe questa voce anticamente tre desinenze, dicendosi al singolare lode, loda, e lodo. Lode s'ebbe regolarmente dal sesto caso del nome latino corrispondente (laude). In a uscirono moltissimi altri nomi femminili della terza latina passati nella lingua volgare: il che vogliono sia stato fatto ne' suoi primordi per conformità di cadenza. Quindi il Nostro (Inf. II. 103): Disse: Beatrice loda di Dio vera. |