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Là 'vel tacer mi fu avviso il peggio,
E dissi: Padre, da che tu mi lavi
Di quel peccato, ov' io mo cader deggio,
Lunga promessa con l' attender corto
Ti farà trionfar nell' alto seggio.
Francesco venne poi, com' io fui morto,
Per me; ma un de' neri Cherubini
Gli disse: nol portar, non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra' miei meschini,
Perchè diede 'l consiglio frodolente,
Dal quale in qua stato gli sono a' crini;
Ch' assolver non si può chi non si pente,

tito e fatto assolvere posteriormente.Dan-
te cel mostra visso in inganno fino agli
estremi: ed è poi verosimile che fosse
tanto semplice a credere, in que' tempi,
alla sconfinata potestà pontificia; per
quanto ci par dabben uomo assai chi set-
tuagenario ricinga ai lombi il cordone.

107. MI FU AVVISO: mi parve.C.XXVI, 50, nota.-V. v. 106-123, nota.

108 seg. DA CHE, quando, poichè ; MI LAVI... Salm. 50: Amplius lava me ab iniquitate mea ec.

110 seg. LUNGA PROMESSA ec. (a): il promettere assai, e nulla o poco attener ciò che hai promesso; TI FARÀ TRIONFAR ec.: ti farà ottenere su' Colonnesi villoria, qual si conviene a un Papa.— TI FARÀ TRIONFAR suona tremendo a chi pensa gli strazi di Bonifazio ullimi, i quali mossero a pielà Dante stesso. Tommaseo. Purg. XX, 86 segg.

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112 seg. FRANCESCO ec. S.Francesco, non appena io spirai, venne PER ME: a prendermi, a portarsene l'anima in

(a) « Quanto sia laudabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimanco si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fon. dati in su la lealtà». Machiav. Princ. Cap.XVIII. Arte volpina antica! Ai papi meglio era non avessero usato questa falsa politica: ai principi secolari poi ci mostra ancor l'esperienza che non è da invidiar troppo le gran cose ch'ei san no fare per questa via.

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cielo; ma invece di questo padre Serafico,UN De' neri Cherubini gli disse: non portar suso quest' anima, NON MI FAR TORTO di torlami, dacchè la è mia.

Neri Cherubini: quelli dannati per la ribellione di Lucifero. Nel C.XXI,29: E vidi dietro noi un diavol nero Correndo su per lo scoglio venire. e nel XXIII, 131:

Senza costringer degli angeli neri

Che vegnan d'esto fondo a dipartirci.
115. TRA I MIEI MESCHINI: tra' miei
servi. Nel C. IX, 43, le Furie son chia-
mate meschine di Proserpina. Meschi-
no si crede venuto dall'ebreo mika, po-
vero, sventurato. In sentimento di schia-
vo o servo, nella Vita Nuova:

Trovai Amore in mezzo della via
In abito leggier di pellegrino:
Nella sembianza mi parea meschino,
Come avesse perduta signoria.

117. DAL QUALE IN QUA ec. dal quale consiglio; cioè, dal quale tempo (che STATO GLI SONO AI CRINI: vicino ai catal consiglio ei diede) infino ad ora. pelli; acciocchè occorrendo polessi acciuffarlo, ed ei non mi sfuggisse dalle unghie.

Un contrasto simile tra l'angelo e il diavolo si descrive nel Purgatorio; (C.V, 104 segg.) e Buonconte figlio di questo Guido è più fortunato del padre.

118-120. Vedi argomento diabolico ! Non può essere assoluto della colpa chi non se ne sia pentito: Guido non potè certo pentirsi anticipatamente della colpa ch'ebbe in animo di voler commettere e commise: dunque l'assoluzione fu

Nè pentere e volere insieme puossi, Per la contraddizion che nol consente. O me dolente! come mi riscossi

Quando mi prese, dicendomi: forse Tu non pensavi ch' io loico fossi. A Minos mi portò, e quegli attorse Otto volte la coda al dosso duro; E, poichè per gran rabbia la si morse, Disse questi è de' rei del fuoco furo;

nulla, ed egli si morì in peccato.-L'uomo si pente di ciò che non vorrebbe aver fatto: or pentirsi d'un fallo e voler fallire è lo stesso che pentirsi e non pentirsi insieme: il che involve contraddizione.

119. PENTERE. Vedi v. 83, nota. 121. MI RISCOSSI: mi deslai, apersi gli occhi e vidi l'inganno in cui m'era credendo valida quella falsa assoluzione. Non pare cotesta scossa simile a quella che subita paura suol nelle membra produrre. COME MI RISCOSSI: come mal mi seppi riscuotere (a) e difendere contro le allegazioni di quel dimonio. Io non seppi escusarmi, onde Francesco mi lasciò liberamente a lui. Bargigi. Come rimasi sopraffatto, spiegano i più, attribuendo a Guido la grande paura nel vedersi tra le unghie del diavolo abbandonato da S. Francesco. E così par che dicano le parole seguenti: Quando mi preSecondo il Vellutello: Erasi il Conte Guido prima scosso per lo tremito ch'ebbe, quando il demonio disse a S. Francesco, che non lo dovesse portare, nè farli torto, perchè ne doveva andar giù in Inferno tra suoi meschini. Ed avendo poi il demonio convinto S. Francesco con ragione, e vedendosi prender da lui... SI RISCOSSE, cioè, un'altra volta si tornò a scvOTERE. Noi non crediamo necessaria cotesta reiterazione: e ci sembra piuttosto che il riscuotere debba riferirsi al ridestamento delle facoltà intellettive di Guido, le qua

se.

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(a) Novellin. LXXIII. Allora il Soldano udendo costui così riscuotersi, non seppe che si dire di coglierli cagione, si lo lasciò andare. Questa nozione del verbo riscuotersi non pare si confaccia con la sentenza del testo dantesco.

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li attuffate quasi nel sonno d'una letargica illusione non gli fecero discernere l'errore in cui era vissuto; se non quando il nero Cherubino ne lo ebbe convinto per punto di ragione. Fu la forza dell'argomento la cagion principale di quella riscossa, e il diavolo, che questo vide, immediatamente soggiunge:

Tu non pensavi ch'io loico fossi.

123. TU NON PENSAVI ec. Al. Iez. non credevi Loico: logico, dialettico Anche Loica per Logica dissero gli antichi. In sentenza: Tu non pensavi, mentr' eri in vita, ch' il diavolo fosse sì fino ragionatore, da non lasciarsi inviluppare dai sofismi degli uomini, e andar diritto dalle premesse alla conclusione.

124. A MINOS ec. che, come giudice dell'Inferno, dovea vedere qual luogo di pena a lui si convenisse, C.V.4, nota.XIII, 96 XX, 36 XXIX, 120 Purg. I, 77.

124-125. ATTORSE OTTO VOLTE LA CODA ec. perciocchè Guido diede il consiglio frodolente (v. 116), ed era da lui l'ottavo cerchio, e di questo l'ottava bolgia. Minosse è detto (C. V, 6 segg.) che:

Giudica e manda secondo che avvinghia. 126. PER GRAN RABBIA LA (coda) si MORSE. C. V.

Stavvi Minos orribilmente e ringhia. Rabbioso è anche secondo Stazio (VIII) il re dell'Erebo: Nil hominum miserans,iratusque omnibus umbris

Se Minos simboleggia la coscienza del dannato, il morso della coda, che figura la malizia, son le furie dell' anima che rimorde e tormenta sè stessa.

127. FUOCO FURO. V. C. XXVI, 40-42,

nota.

Perch' io là dove vedi son perduto,

E si vestito andando mi rancuro. Quand' egli ebbe 'l suo dir così compiuto, La fiamma dolorando si partio, Torcendo e dibattendo il corno aguto. Noi passamm' oltre, ed io e 'l Duca mio, Su per lo scoglio infino in su l' altr' arco, Che cuopre 'l fosso, in che si paga il fio A quei che scommettendo acquistan carco.

128. PERCHÈ: per la qual cosa - LA DOVE per dove semplicemente, v. 36.

-

129. VESTITO: involto nella fiamma. C. prec. v. 42, 47-48 ec. ANDANDO, conforme si dice nel Canto precedente v. 40 seg.: si movea ciascuna per la gola del fosso.

co.

no.

MI RANGURO: amaramente mi dolgo ed attristo; soffro, peno, mi rammariA me medesimo porto odio; perciocchè rancore è odio occulto. LandiRancurarsi è, secondo il Biagioli, dolersi per cupo e profondo dolore, che non si può con pianti nè con parole esalare. Questo rancore di Guido qui non sembra essere scompagnato da rabbia e dispetto; dappoichè uscito dal crudelissimo disinganno vide che per una falsa assoluzione egli perdette il merito dell' essersi reso frate; secondo che dice (v. 84):

Ahi miser lasso! e giovato sarebbe. 131-132. DOLORANDO: dolendosi, ed esprimendo il dolore, TORCENDO ec. col torcere, e dibattere IL CORNO Aguto: la sua cima: vv. 17; 59-60; e C. prec. vv. 85-90.

133. PASSAMM'OLTRE. I Poeti vanno avanti, continuando su per lo scoglio il lor cammino, sino all' altro arco del ponte, che soverchia la nona bolgia o il fosso seguente.

135. IN CHE: nel qual fosso, SI PAGA IL FIO: si sconta la pena dai seminato ri di scandali.

135-136. SI PAGA IL FIO— A QUEI ec. Si dà la debita pena a coloro ec. Nel Purgat. XI, 88:

Dit al superbia qui si paga il fio.

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Pagare il fio è portar la pena: lat. dare poenas.

II. 58 (a), nota.-Il cod. Caetani, e quelFio che vaglia propriamente, vedi C. lo della Bibl. Real. di Berlino hanno: si paga il fio Da quei. Ma ritenendo la lezione a quei, ch'è di tutte quasi le altre edizioni antiche e moderne, la sentenza è: si paga il debito tributo (figurat. la pena debita) a coloro, che ec.

136. SCOMMETTENDO: seminando discordie, sedizioni e scandali tra quelli che son congiunti per vincoli di natura, di amicizia, di religione ec.- AcQUISTAN CARCO: di colpa e di peccato. Barg. CARCO: carico, peso, è figuratamente in alcuni altri luoghi del Poema. In sentimento di peccato, come va qui presa la voce,si legge in altri esempi. Salm. penit. I;

E per lo cargo grande, e grave e grosso
L'anima mia è tanto conturbata,
Che senza il tuo aiuto io più non posso.
e poco appresso:

Se tu discarghi il cargo che mi preme. Nel salm. 3: Quoniam iniquitales meae supergressae sunt caput meum: et sicut onus grave gravatae sunt super me. E Dante volgarizza:

Però ch'io vedo, che 'l mio capo giace Sotto l'iniquitade, e'l greve cargo ec. Così carco di gran pesi, per dire gravato da enormi colpe, ivi ec.

Abbenchè mettendo insieme soglia farsi grande il fardello; pure i dannati della seguente bolgia han questo di strano, che rendono più grave il carico loro come più scommettono, e disuniscono. A significare tal paradosso credette il Venturi che fossero anche intese le parole del Poeta.

sa

CANTO XXVIII.

Nona bolgia: i Seminatori di discordia.

Chi poria mai, pur con parole sciolte,
Dicer del sangue e delle piaghe appieno,
Ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
Ogni lingua per certo verria meno,
Per lo nostro sermone e per la mente,
Ch'hanno a tanto comprender poco seno.

1. PORIA: potrebbe. C. XX, 69, notaPUR CON PAROLE SCIOLTE: anche in proPAROLE SCIOLTE: non obbligate alle leggi del metro, della rima ec., alla piana, senza norma di ritmo. Ovid. Trist. IV, 10: Verba soluta modis. Quintil. L. 9, c. 4: Oratio alia vincta, atque contexta, alia soluta, qualis in sermone, et epistolis.

2. DICER: dire. C. III, 45, nota. 3. ORA: nel tempo che il mio Duca ed io stavamo in sull'arco del ponte della nona bolgia, C.XXVII,133 segg.- Con l'immaginazione ci par di veder come presenti le cose che furono. Così C. V, 25 segg.:

Ora incomincian le dolenti note

A farmisi sentire: or son venuto Là dove molto pianto mi percuote. Ora per qui, in questo luogo; adoperato l'avverbio di tempo per quello di luogo, siccome viceversa da' latini si usò hic per nunc. Il Biagioli intende la particella nel senso suo proprio ed ordinario.

PER NARRAR; Locuzione equivalente a: checchè, o qualunque sforzo ei facesse per narrare, comunque narrasse ec.·

C. IV, 11: per ficcar lo viso al fondo. Vedi C. IV, 25 XVI, 93-XVIII, 83-84 XXVI, 49-51, note.Talvolta il per posto innanzi all'indefinito pare che dia al verbo la forza del gerundio. Conv. (Zatta, pag. 60): La fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. Dante volta in volgare il verso Virgiliano (En. IV, 175):

Mobilitate viget, viresque acquirit eundo. 1-3. In sentenza: Chi mai potrebbe, nonchè in versi, ma in prosa, nè una,

ma più fiale narrando, contare appieno del sangue e delle piaghe ch' io vidi? Æn. II, 361 seq.:

Quis cladem illius noctis, quis funera fando Explicet, aut possit lacrimis aequare labores? 4-6. Ogni lingua ec. Altrove (C. IV, 145 segg.) in modo simile:

Io non posso ritrar di tutti appieno,

Perocchè si mi caccia il lungo tema,

Che spesse volte al fatto il dir vien meno:
Per questo principio dimostrando il
Poeta che sarebbe impossibile divisare
compiutamente le tante e sì strane cose
ch'egli è per dire, ridesta con arte ma-
ravigliosa l'attenzione del leggitore. Co-
sì Virgilio, En. VI, 625 seq.:
Non,mihi si linguae centum sint,oraque centum,
Ferrea vox, omnes scelerum comprendere for-
(mas,

Omnia poenarum percurrere nomina possim.
T. Tasso, Gerus. liber. IX, 92:

Non io, se cento bocche e lingue cento
Avessi, e ferrea lena e ferrea voce,
Narrar potrei quel numero che spento
Ne' primi assalti ha quel drappel feroce.
5-6. SERMONE E... MENTE. L'insuffi-
cienza del dire, e dell'intendere è insita
nella limitazione della parola e dell' in-
telletto, in riguardo alla grandezza e al
numero degli obbietti. Dante ne fa due
ineffabilità: I miei pensieri, di costei
ragionando molte fiate, voleano cose
conchiudere di lei che io non le potea
intendere: e smarrivami, sicchè quasi
parea di fuori alienato; come chi guar-
da col viso per una relta linea, che
prima vede le cose prossime chiara-
mente; poi procedendo meno le vede
chiare: poi più oltre dubita: poi mas-
simamente ollre procedendo, lo viso dis-
giunto nulla vede. E questa è l' una
ineffabilità... È l'altra ineffabilità,
cioè, che la lingua non è di quello, che

Se s'adunasse ancor tutta la gente, Che già in su la fortunata terra

lo intelletto vede, compiutamente seguace. E dico, che se difetto fia nelle mie rime, cioè nelle mie parole... di ciò è da biasimare la debilità dello 'ntelletto e la cortezza del nostro parlare (a). Queste parole fanno pieno comento a questo luogo, come Dante stesso spone per esse i seguenti versi, nei quali traspare un simile concetto:

E certo e' mi convien lasciare in pria,
S'io vo trattar di quel ch'odo di lei,
Ciò, che lo mio intelletto non comprende,
E di quel che s'intende,

Gran parte, perchè dirlo non saprei: Dunque se le mie rime avran difetto, Ch'entraron nella loda di costei; Di ciò si biasmi il debole intelletto, E'l parlar nostro, che non ha valore Di ritrar tutto ciò che dice Amore. Vedi anche C. XXV, 143-144, not. PER LO NOSTRO SERMONE: per lo linguaggio umano, che spesso vien meno a significare adeguatamente quello stesso che per l'intelletto si concepisce. Dante scrivendo a Can Grande: NESCIT quia oblitus: NEQUIT, quia si recordalur, et conlentum tenel, sermo tamen deficit. Multa namque per intellectum videmus, quibus signa vocalia desunt (b), quod salis Plato insinuat... Mulla enim per lumen intellectuale vidit, quae sermone proprio nequit exprimere.

E PER LA MENTE. Non neghiamo che mente sembri valer memoria dove Dante dice: 0 mente che scrivesti ciò ch'io vidi; dove T. Tasso: Mente degli anni e dell'obblio nemica ec.; e Dante stesso Rim. son. VI:

Nella mente dogliosa che mi mostra Sempre davanti lo suo gran valore ec. che in questo luogo per altri vada intesa la voce in cotesto significato, come se la MENTE,cioè la memoria,abbia poco SENO O capacità a comprendere e a ritenere, per la quantità, varietà e novità delle cose; ma certo è che il nostro Poeta spiega nel Convito questo vocabolo: In questa nobilissima parte dell' anima (nella ragione) sono più virtù... una che si chia

(a) Conv. pag. 124 seg. Ven. 1758. Zatta. (b) Nostro sermone vuol dunque intendersi non l'italiano soltanto, ma qualsivoglia linguaggio o favella umana.

ma scientifica e una... ragionaliva, ovvero consigliativa: e con questa sono cerle virtù... siccome la virtù inventiva, e giudicativa. E tutte queste nobilissime virtù, e l'altre che sono in quella eccellente potenzia, si chiama insieme con questo vocabolo.... cioè MENTE; perchè è manifesto che per MENTE s'intende questa ultima e nobilissima parte dell'anima. E vuol dire la ragione o l'intendimento, ch'è secondo Aristotile la terza e ultima potenza, in ordine alla vegetativa e alla sensitiva. Dunque l'idea che Dante lega alla voce menle è assai più complessa della sola memoria, la quale è parte di quella: e nel trinario 4-6 accenna egli indubitatamente alle due ineffabilità (v. 5-6) o difetti della intelligenza e favella umana, per quel che s' attiene al comprendere e ritrarre tutto e quanto di nuovo gli venne veduto nella nona bolgia.

7-21. SE S'ADUNASSE ec. In sentenza:

Se tutte le genti che in vari tempi caddero sui campi di Puglia, combattendosi Pugliesi e Romani, Romani e Cartaginesi, si unissero con la moltitudine de'Saraceni disfatti da Roberto Guiscardo, e con quelle che perirono nelle battaglie di Papa Innocenzo IV e Manfredi a Ceperano,di Carlo d'Angiò e Corradino a Tagliacozzo, e mostrassero qual forata, qual tronca la sua persona; tutte queste genti insieme potrebbero appena render figura delle innumerevoli ombre piagate e smozzicate, che facevano orrenda la vista di quella bolgia (c).

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