Page images
PDF
EPUB

L'aguato del caval, che fe la porta
Ond' uscì de' Romani 'l gentil seme.

60

che cigolando goccia fuori l'umore, si l'entrata più larga alla machina insidiodice, C. XIII, 40 seg.:

Come d'un stizzo verde, ch'arso sia Dall'un de' capi, che dall'altro geme, E cigola per vento che va via. Si trova appo i Latini costruito gemere attivamente, e quindi anche passivamente; come qui vuol che sia il Ch.Tommaseo. Cic. ad Att.: Virtutem istam, veniet tempus, cum graviter gemes. Ed egli stesso: Hic status una voce omnium gemitur. Pure il verbo è di sua natura neutro, ed è adoperato con rigorosa proprietà, dove (En. VI, 413) Virgilio dice: Gemuit sub pondere cymba (a). Del resto anche i verbi neutri assoluti sì bene si usano passivamente nelle terze persone del meno; e il Poeta ha delle locuzioni, che agli scrupolosi saprebbero di troppa licenza. V. Inf. XIV, 38 XVII, 6 Purg. X, 35.

[ocr errors]

59-60. AGUATO: insidia. Vedi onde origini questa voce (C. VI, 6 nota) e quanto appropriatamente qui si adoperi dall'autore. SI GEME L'AGUATO DEL CAVAL ec. Ulisse ordinò si facesse un grandissimo cavallo di legno con molti ricettacoli tra le coste, e con una porticella da fianco la quale non potevasi aprire e serrare, salvo da chi entro vi fosse. Vi entrarono i più valorosi di tutta la Grecia ed egli per primo. I Greci, per costui consiglio, fingendo d' essersi alte diati dell' assedio, in che aveano tanti anni tenuto indarno la città di Troia, montarono in nave e simularono la partenza; ma sempre vi ritornavano, facendo sparger voce che Pallade,per cruccio d'essere stata rapita dalla rocca troiana, non facea più succeder loro prosperamente la guerra, e moveva venti contrari perchè neanche potessero rimpatriarsi. Il cavallo pieno di gente armata fu posto innanzi alla Città come un' offerta per placare l'ira della Dea. I troiani indotti dalle ingannevoli parole d' un greco, a nome Sinone, ruppero le mura per dare

(a) Anche in senso attivo (En. I, 220 segg.): Praecipue pius Æneas nunc acris Oronti, Nunc Amyci casum gemit, et crudelia secum FataLyci,fortemque Gyan,fortemque Cloanthum.

sa, e a gran fatica la trassero nel tempio di Pallade pregando lei che non impedisse la ritirata de' Greci. Ma la notte

gli armati uscirono del Cavallo, tennero la cittadella, e, dato segnale agli altri che il giorno stati erano in aguato, furono tutti sopra Troia e la distrussero.Il cenno dantesco ha rapporto alla splendida narrazione che ne fa Virgilio nel secondo dell'Eneide; tuttochè Ditti e Darete, citati da Pietro Alighieri, affermino che, a tradimento di Antenore e di Enea, i Greci entrarono nella Città per una porta che aveva ad insegna un cavallo.

In sentenza: Nella fiamma si porta la pena del tradimento, onde Troia fu presa da' Greci ed arsa, pe' fraudolenti consigli di Ulisse e Diomede.

CHE FE LA PORTA, ONDE ec. Il cavallo fece la via onde i Greci entrassero nella Città troiana, distrutta la quale Enea venne in Italia e da lui discese la nazione romana (b). Ma il gentil seme di vera origine troiana fu Giulio Cesare ec. Vedi Virg. En. I, 286:

Nascetur pulcra trojanus origine Caesar. che portava ancora dopo sì lunghi secoli il nome di Ascanio figlio d' Enea (Ivi 267 seg.), ed era tardo nipote, puro sangue, di Anchise e di Venere.

PORTA Si accomoda, quasi egualmente bene, al senso proprio, intendendo col Landino e col Vellutello lo squarcio del muro, onde fu in città introdotto lo smisurato cavallo; En. II, 234: Dividimus muros, et moenia pandimus urbis. o meglio in traslato. CHE FE LA porta: cioè fu principio e cagione ec.- Altri intendono, che Enea fuggendo uscisse per quella medesima porta (per la quale entrò il cavallo); ma con che fondamento? Venturi e Daniello. — Il Volpi è col Landino. Il Biagioli dice che l'idea

(b) En. I, 6: Albanique patres, atque altae moenia Romae. genus unde latinum,

Ivi v. 16 seg.:

Progeniem sed enim trojano a sanguine duci Audierat, tyrias olim quae verteret arces: Hinc populum late regem, belloque superbum Venturum excidio Libyae: sic volvere Parcas.

Piangevisi entro l'arte, perchè morta
Deidamia ancor si duol d' Achille,
E del Palladio pena vi si porta.
S'ei posson dentro da quelle faville

Parlar, diss' io, Maestro, assai ten priego,
E ripriego che 'l priego vaglia mille,
Che non mi facci dell' attender niego,
Fin che la fiamma cornuta qua vegna:

onde uscì il seme è incoerente con la
rottura delle mura. Taluni applaudisco-
no al valentuomo e noi con essoloro: ma
domanderemmo per sapere se si trovi
nessuna coerenza tra il mal seme di A-
damo e la barca di Caronte. Al Ventu-
ri e al Daniello rispondiamo noi: Enea
uscì per la stessa porta; perchè gli parve
più comoda: e ne siamo tanto certi, quan-
to voi non dubitate che il cavallo vi en-
trasse.

61 seg.PIANGEVISI ENTRO ec. Ivi entro quella fiamma si piange anche L'ARTE, l'artifizio, onde Ulisse scoperse Achille, e astutamente celando quel che fisso era dal fato, e incitandolo alla gloria delle armi, seco lo trasse alla guerra troiana: il che fu a Deidamia cagione d'interminabile duolo (a).

MORTA... ANCOR SI DUOL D' ACHILLE: ancor che morta ella si duole quivi, qual fece in vita, della morte di Achille, nonchè d'essere stata da lui tradita. Gli affetti

(a) Era fatale che i Greci non dovessero senL'Achille ottener vittoria su i Troiani, e che s'egli andava alla guerra vi sarebbe ucciso. Teti, a porre in salvo il figliuolo, da Tessaglia, ove Chirone educavalo, trafugò lui dormendo all'isola di Sciro, dove in vesti femminili accolto

fra le ancelle di Deidamia, figlia del re Licomede, bentosto innamorò di lei e fu da lei amato. Invano cercatosi di Achille per tutta Grecia, Ulisse sospettò che potesse trovarsi nascosto nella corte di Licomede, e qui recatosi in abito di mercatante, ed esposti de' preziosi arredi, vide che tutte pigliavano gioielli ed ornamenti atti a femmina, solo Achille in gonna porse la mano a uno scudo con una lancía, ch'erano fra le altre cose pensatamente posti, e ne mirava il fino lavoro: Ulisse per tale arte avendolo conosciuto seppe con sue parole a tanto desiderio di gloria infiammarlo, ch' egli, lasciata Deidamia già incinta, andò con essolui al campo. - Dante accenna questo fatto nel Purgatorio (IX, 34-39); e Deidamia pone con le sue suore nel limbo (Purg. XXII, 114). Achille in Sciro è uno de' drammí del Metastasio.

65

mortali sono pel nostro poeta non mica spenti nell'altra vita. Nell'inferno (V.102) la Francesca dice: e'l modo ancor m'offende; e (Ivi v. 105):

Amor, ch'a nullo amato amar perdona Mi prese del costui piacer si forte Che, come vedi, ancor non m'abbandona. E Nel primo cerchio del carcere cieco si veggiono molte celebri donne greche (Purg. XXII, 111):

Ed Ismene si trista come fue.

63. DEL PALLADIO ec. Nella rocca troiana si asservava l'imagine di Pallade,fatale custodia alle porte della Città, le cui mura erano inespugnabili finchè fosse quivi custodita e inespugnata ella stessa. Ulisse e Diomede secretamente di notte vi fecero la scalata, ed uccisi i guardiani rapirono e seco portarono il simulacro della Dea; onde poi a non guari seguì la ruina di Troia. Virgilio (Eneid. II, 163 segg.):

Impius ex quo

Tydides sed enim, scelerumque inventor Ulixes,
Fatale aggressi sacrato avellere templo
Palladium, caesis summae custodibus arcis,
Corripuere sacram effigiem,manibusque cruentis
Virgineas ausi Divae contingere vitlas ec.

65 seg. ASSAI TEN PRIEGO, E RIPRIEGO ec. Ha molto del latino etiam atque etiam rogo ec. CHE IL PRIEGO: che questa mia preghiera, VAGLIA MILLE: vaglia quanto mille preghiere. E come dir volesse: una per mille fiate ti prego.

67-68. CHE NON MI FACCI ec. Che non mi nieghi di aspettare fino a che LA FIAMMA CORNUTA: quel fuoco, che vien diviso di sopra (v. 52 seg.) ec.-NIEGO: negativa, come PRIEGO, preghiera son propriamente le prime persone de' verbi adoperati per sostantivi: così antic. il desidero, il dubito, il veio ec. in luogo di desiderio, dubbio, vista, o del desiderare, del dubitare, del vedere ec.

Vedi, che del disio ver lei mi piego.
Ed egli a me la tua preghiera è degna
Di molta lode, ed io però l' accetto;
Ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch' i' ho concetto
Ciò che tu vuoi; ch' e' sarebbero schivi,
Perch' ei fur Greci, forse del tuo detto.
Poichè la fiamma fu venuta quivi,

[ocr errors]

Dove parve al mio Duca tempo e loco,
In questa forma lui parlare audivi :

70. LA TUA PREghiera è degna ec. la
tua dimanda, merita lode; poichè desi-
deri di parlare agli spiriti di uomini tan-
to famosi. - (En. XI, 105):
Quos bonus Eneas, haud aspernanda precantes,
Prosequitur venia, et verbis haec insuper addit ec.
Enea fu grazioso a coloro, che onesta-
mente chiedevano tregua ai vivi e sepol-
tura ai morti.Simigliantemente (C.XXIV,
76 segg.):

Altra risposta, disse, non ti rendo,

Se non lo far: chè la dimanda onesta
Si dee seguir con l'opera tacendo.
72. LA TUA LINGUA SI SOSTEGNA: taci.
73 seg. Ho CONCETTO CIÒ CHE TU vuoi:
V. C. XXIII, 25 segg.

74 seg. SAREBBERO SCHIVI... FOrse del
TUO DETTO: forse avrebbero a disdegno
di satisfare alle tue dimande. - Scu-
VI: ignari e sdegnosi. E come Greci su-
perbi e come nemici della città da cui
sorse l'impero, che il Ghibellino va-
gheggia. Tommaseo. - Ma sarebbero
per questo stesso meno graziosi a Virgi-
lio.-Detto val qui linguaggio,favella.
Il nostro volgare non ebbe ai tempi del
Poeta tanto di onore, quanto sepp' egli
meritargliene. Ricordava Dante che (Ho-
rat. in Arte):

[ocr errors]

Graiis ingenium, Graiis dedit ore rotundo
Musa loqui, praeter laudem nullius avaris.
e qui trattavasi niente meno che di entra-
re in ragionamento con Ulisse, eloquen-
tissimo. Virgilio poi avea ben d'onde cre-
dere che que'Greci (v.80 segg.) non fos-
sero schivi del detto suo.-T.Tasso non-
dimeno dice: Credo io che Virgilio qui
inganni Ulisse, fingendo di essere 0-
mero. Consideravi bene. E veramente
l'Itacense non fa sì bella figura nell'Enei-
de, che possa saperne grado a Virgilio,

[blocks in formation]

quanto nell'Odissca ad Omero: e al Fiorentino non sarà parso mal fatto che il suo Duca usasse un' astuzia con quegli astuti Greci. Del resto crediamo che il Poeta avrebbe almeno leggermente toccato di tale finzione, e non commesso che dalle sue parole dovessimo a fatica inferirla. Oltracciò, pare che Virgilio non parlasse all'Itacense nè in greco,nè in latino; ma in lombardo (C.XXVII,24), col quale linguaggio non potea menomamente simulare il gran cantore d'Achille e di Ulisse. Considerando dunque bene, non sembrerà fondato il sospetto del Tasso : avvegnachè pur si direbbe che il Poeta Greco potesse quivi usare la lingua d'ltalia, come fa il Poeta Latino.

77. DOVE PARVE..... TEMPO E LOCO: dove e quando parve opportuno. Il Petrarca, Son. I:

Celatamente Amor l'arco riprese

Com'uom, ch'a nocer luogo e tempo aspetta. 78. IN QUESTA FORMA: così, in questa guisa ec. Più plastico è il sentimento che T. Tasso dà al presente modo (XII,69): D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, Come a' gigli sarian miste viole ec.

-

in questa forma Passa la bella donna e par che dorma. Ma le parole danno imagine e forma al pensiero.

Lui parlare auDIVI. Costrutto più significante, che se detto si fosse lo udii parlare. È qual si dicesse: io fui contento udir lui, anzi ch'egli udisse me parlare a quei Greci.

AUDIVI. I verbi di terza coniugazione, ebbero in antico la prima persona singolare del perfetto terminata in ivi alla maniera latina. Dante da Maiano:

Non come audivi il trovo certamente.

[ocr errors]

O voi, che siete due dentro ad un fuoco,
S'io meritai di voi, mentre ch' io vissi,
S'io meritai di voi assai o poco
Quando nel mondo gli alti versi scrissi,
Non vi movete; ma l' un di voi dica
Dove per lui perduto a morir gissi.
Lo maggior corno della fiamma antica

Brunetto Latini nel Tesoretto, Cap.II:

Ch'audivi dir che tene ec.
Ruggerone da Palermo:

O Deo! come fui matto
Quando mi dipartivi

Là ov'era stato in tanta dignitate.

Jacopo Pugliesi:

Allotta ch'io mi partivi

E dissi: a Dio v'accomando.

Il Nostro, Purgat. XII, 69:

Quant'io calcai finchè chinato givi.
Ed anche ne' verbi della prima e se-
conda si usò, avvegna che più raramente,
la terminazione latina. Il Frezzi nel Qua-
driregio, Lib. IV, Cap. III:

Mi prostrai 'n terra dicendo: peccavi.
E Dante nel Paradiso I, 97:
E dissi già contento requievi.

80. S' 10 MERITAI DI VOI. Meritare di uno, farsi o acquistarsi merito appo uno; meritare la sua grazia o il suo favore; rendersi degno di esser meritato o rimeritato. Lat. Mereri de aliquo; bene, male, parum, valde, nihil ec. de aliquo, o de aliqua re mereri. Gli esempi onde i nostri scrittori tolsero la locuzione,sono ovvi tra i latini; e Dante sembra aver imitato il suo Maestro e Duca (Virg. En. IV,316 seg.) là dove si fa così parlare Didone ad Enea, perchè questi non l'abbandoni:

Per connubia nostra, per inceptos hymenaeos, Si bene quid de te merui, fuit aut tibi quidquam Dulce meum, miserere domus labentis, et istam Oro (si quis adhuc precibus locus) exue mentem. Nota, lettor diligente, che il secondo degli allegati versi Virgiliani ha due par ti; la prima: Si bene quid de te merui ; la seconda: fuit aut tibi quidquam dulce meum. Con che Didone accenna due cose distinte; che sono, e l'onorevole accoglienza fatta ai Troiani, e l'amore che ella pose al loro Duce (a).Dante, volendo

(a) Virg. En. IV, 373:

Eiectum litore, egentem
Excepi, et regni demens in parte locavi:
Amissam classem: socios a morte reduxi.

80

85

tenersi stretto al Poeta latino, non può altro fare, che una bellissima ripetizione, là dove in Virgilio le due proposizioni condizionali hanno due sensi differenti e la seconda (che in tutti e due i poeti ha più forza della prima) è preceduta dalla particola disgiuntiva. Così si può nonchè l'imitazione, ma e il modo e lo studio di chi l'ha fatta, cogliere nei grandi poeti!

82. ALTI VERSI: l'Eneide; o l'Odissea, se Virgilio finge (secondo che al Tasso parve di vedere) la persona di Omero, il quale fu Signore dell' altissimo canto. Virgilio toccando della sua Eneida, dice: L'alta mia Tragedia. V.C. XX, 113,not.

84. Dove ec. dove andò egli perduto a morire.

PER LUI... GISSI: locuzione simile di quell'altra (C. I, 126): per me si vegna cioè, da me si venga o io venga: dove i verbi sono adoperati in modo assoluto, come in Horat. Lib.I,sat. IX: Ventum erat ad Vestae; e così itur ad astra. Virg. Eu. IV, 151:... altos ventum in montes atque invia lustra. Ne' quali parlari va sottinteso il sesto caso richiesto dalla proposizione passiva, e che il Nostro vi esprime.

85. LO MAGGIOR CORNO. Vedi v. 52,nodalla forma flessuosa ed acuta delle due ta. Corna della fiamma. Metafora presa parti, nelle quali essa fiamma era divisa.

ANTICA; perchè Ulisse e Diomede,morti alquanti anni dopo la guerra di Troia, erano già da ben molti secoli posti in quella pena, quando Dante gli vide.

Il Metastasio, Didone Att. I:
Vil rifiuto dell'onde

Io l'accolgo dal lido: io lo ristoro
Dalle ingiurie del mar: le navi e l'armi
Già disperse gli rendo, e gli do loco

Nel mio cor, nel mio regno, e questo è poco ec.

Cominciò a crollarsi mormorando Pur come quella cui vento affatica. Indi la cima qua e là menando, Come fosse la lingua che parlasse, Gittò voce di fuori e disse: quando

87. COME QUELLA fiamma cui nel mondo di qua sogliamo vedere che IL VENTO AFFATICA, agita e fa che si crolli (C. XXV, 9. nota). Affatica ha forza del lat. fatigare, stancare, percuotere, perturbare, commuovere, eccitare; quasi affatim agere,di che la voce fu fatta. Dante stesso, Rim. Son. VIII:

Per forza del dolor che m'affatica.
Orazio Lib. II, Od. IX, 6:

Aquilonibus

Querceta Gargani laborant. 88-90. LA CIMA ec. Quel corno di fiamma dimenando la sua punta, come fosse la lingua di colui che v'era entro, in at to di parlare, Gittò voce di fuori: testè mormorava, come fiamma faticata dal vento; ora manda fuori voce d'umano spirito che ragiona e dice ec. Virg. Ecl. II, 5:

haec incondita solus
Montibus et silvis studio jactabat inani.
Ed Ecl. V, 62:

Ipsi laetitia voces ad sidera jactant Intonsi montes: ipsae jam carmina rupes. Jacopo da Lentino, Canz.: Madonna dir vi voglio ec.

Similemente eo gitto

A voi, bella, li miei sospiri e pianti. E il Nostro, Vit. Nuov. Son. Lasso ec. pag. 80:

Questi pensieri, e li sospir, ch' i' gitto ec. La lingua, che guizza gittando per la punta della fiamma cornuta le parole, è come quella, da cui nel Salmo 119 si dice che non v'è scampo. Quid detur tibi, aut quid apponatur tibi ad linguam dolosam? Sagittae potentis aculae, cum carbonibus desolatoriis: Alle calunnie malvage, e triste, Alle menzogne di lingua perfida Chi mai può reggere, chi mai resiste? Quelli, che mormora bugiardi accenti Son quai vibrati dardi acutissimi,

Son quai terribili carboni ardenti (a). 90. QUANDO ec. Rispondendo a quello che per Virgilio (v. 83-84) si domanda, narra Ulisse per tutto il restante di que

(a) Saverio Mattei, Libri Poetici della Bibbia.

90

sto canto la storia delle sue avventure dal tempo in poi, ch'ei si partì da Circe. Gli antichi scrittori dicono che tornato in Itaca trovò il padre Laerte, la moglie Penelope e il figlio Telemaco, e che quivi fu morto da Telegono suo figlio bastardo nato di Circe. Dante s'allontana da essi, e attenendosi alle opinioni di Plinio e Solino introduce Ulisse a contare com' egli capitato in casa di Circe vi dimorò più che un anno (v. 91 seg.): e che da lei partito, e messosi per mare, fu per fortuna di venti portato fino a Gibilterra. Qui confortati i compagni a grande impresa e valicato lo stretto, pisei mesi procedè tant'oltre, che venne in gliò sua navigazione per l'Oceano, ed in vista d'un'altissima montagna; da cui si sgroppò impetuoso vento che percosse la nave, e la sommerse con lui e con quanti vi erano entro (b).

(b) Non fu dunque solo Dante che alterasse la storia o favola d'Ulisse; nè pare che sia da fargliene carico di avere,siccome notò il Tasso, trasgredito il precetto d'Aristotele, che nella sua Poetica vieta di mutare le favole note e ricevute. Una volta che si è voluto spingere la navigazione dell'Itacense di là dallo stretto Gaditano ch'era il non plus ultra, il Poeta o dovea fare che quegli annegasse, ovvero che tornasse ad Itaca e lasciasse ab antico la tradizione del mondo nuovo; e allora qualche industre

navigante più sicuro e meno ardito di Colombo

si sarebbe messo molti secoli prima di lui alla ventura di andarvi. Ma innanzi al gran Genovese fu generalmente creduto cosa impossibile stino (De Civ. Dei, XVI): Nimis absurdum est di travalicare i segni posti da Ercole. S. Agout dicatur aliquos homines ex hac in illam partem, Oceani immensitate traiecta, navigasse ac pervenire potuisse. Valse adunque a Dante l'attenersi a questa opinione; la quale, a costo anche del naufragio di Ulisse, gli porse il destro di prevenire il lettore intorno all'esistenza d'un monte altissimo, che tra non molto vedremo essere il Purgatorio, il qual s'eleva sulla superficie dell'altro emisfero. E il Petrarca seguitando Dante che finge Ulisse affogato nell'Oceano per soverchia curiosità, Trionfo della Fama Cap. II, dice aver veduto: Nell'altro (groppo) Aiace, Diomede e Ulisse, Che desiò del mondo saper troppo.

La finzione Dantesca si fa ancor più verosi

« PreviousContinue »