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Non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

tori.Bon.Giamb.Introd.alle virtù cap.III. Ma perchè, ponendoti la mano al petto, trovo che il cuore ti balte fortemente, veggio che hai male di paura, laonde se' fortemente isbigottito e ismagato. E ivi appresso: Sono si malamente isbigotlilo e ismagato che non mi giova nè di mangiare, nè di bere... e penso e piango e lamentomi die e notte, ed èmmi a noia la vila ec. Qui smagato vale perduto d'animo. Il Bembo già prima del Nannucci disse questa voce venutaci dal provenzale, e in contrario mal s'apposero il Castelvetro e il Menagio. E in quella lingua esmajar, esmagar, donde il nostro smagare, da esmai che valeva inquietudine, tristezza, apprensione, turbamento, forle impressione,sorpresa prodotta da cosa inaspettata,grande ec. Da cotesto esmai, e nella stessa accettazione, i nostri antichi fecero smai, e da esmag trassero smago in senso di spavento, smarrimento. Esempi a dovizia nel Dittamondo. Il Nostro e nelle rime e nella Divina Commedia usa non ra

do questa voce smagare ec. Talvolta invece di smagato si disse smago. Fazio nella cit. op. Lib. VI, Cap. XII:

E non fu gente smaga

Per morbo mai, o per rompere in mare. Dante nel Credo:

Io scrissi già d'amor più volte rime

Quanto più seppi dolci, belle e vaghe;
E in pulirle adoprai tutte mie lime.
Di ciò son fatte le mie voglie smaghe,
Perch'io conosco avere speso in vano
Le mie fatiche, ed aspettar mal paghe.
Dove il Quadrio intende smaghe per
mutate; e crede la voce fatta da Image,
e da Es, ch'è l' Ex de' Latini: onde Es-
magare, Smagare, cioè Trarre, o Uscir
d'Immagine, e Smagato, e Smago per
sincope, cioè Tratto d'Immagine, Can-
giato, e simil cosa. La scala Menagiana
poi è Exvagare, Svagare, Sbagare, Sma
gare. Anche in Spagn. desmayado vale
perduto, confuso, smarrito. Nella Canz.
Donna pietosa ec. (Vit. nuova):
Mentre io pensava la mia frail vita;

E vedea il suo durar, come è leggero;
Piansemi Amor nel cor, dove dimora.
Perchè l'anima mia fu si smarrita;
Che sospirando dicea nel pensiero:
Ben converrà che la mia donna mora.
Io presi tanto smarrimento allora,

Ch'io chiusi gli occhi vilmente gravati;
E furon si smagati

Gli spirti miei, che ciascun gia cercando:
E poscia immaginando,

Di conoscenza, e di verità fora,
Visi di donne m'apparver crucciati,
Che mi dicien: se' morto: pur morrati.

Adduciamo questi esempi perchè dal loro contesto meglio si veda in che sentimento questa voce venisse adoperata e da Dante e dagli altri scrittori. (V.Purg. III, 11).

147-150. POTER: potero, poterono, Lat. potuere. QUEI due ch'erano rimasti non potettero FUGGIRSI TANTO chiusi, occulti, nascosti, per non essere conosciuti, cn' IO NON SCORGESSI chiaramente l'un di loro essere Puccio Sciancato (Vedi v. 43, not. n. 3), e l'altro Guercio dei Cavalcanti (Ivi n. 5): il primo de' quali era rimasto dal principio in sua propria figura, l'altro di serpentello tornato in

umana sembianza.

turale conversione rettorica.- Guercio fu Che tu, GaVILLE, PIAGNI. Nota la namorto a Gaville terra in Val d'Arno; i parenti uccisero per vendetta assai di quel popolo: GAVILLE piange d'avere scontato la pena della morte del Ladro con la vita di molti suoi abitanti (a).

Le pitture che ci è dato ammirare in questo e nel precedente capitolo sono di alta importanza sì per la parte morale, come per la finezza dell'arte,e per la potenza della poetica fantasia. La settima bolgia ci apre lo spettacolo della frode ladra. Vedi l'uccisor di Gerione, che fa sotto la sua clava cessare le opere bieche di Caco. Gli antichi prestarono sacro culto all'Eroe della civiltà; tra le cui fatiche non fu l'ultima quella ch'ei pose contro la frode e i ladri, che sono i veri serpenti della comunanza umana; e che Dante caccia nell'arena infernale a trasmutarsi ad ora ad ora e attossicarsi a vicenda co' morsi. Il Poeta ci richiama alla mente le Maremme e la Libia, paludi infeconde ed arene sterili d'ogn'altra

(a) Guercio era pubblico ladrone, ma de' nobili. Questi cotali credevano che non dovessero morire altro che per extinctionem caloris. La prepotenza potè ammazzare molti per Guercio, ma non però aprire gli occhi a lui.

Ch' io non scorgessi ben Puccio Sciancato:
Ed era quei, che sol de' tre compagni,

cationem tuam: producam ergo ignem de medio tui qui comedat te, et dabo te in cinerem super terram in cospectu omnium videntium te. Omnes qui viderint obstupescent... nihili factus es. Dunque al Pistoiese, di tutti gli umani spiriti dannati superbissimo (v. 13 seg.), fu debita pena che tornasse nell' umiltà della cenere, cascando in quella distrutto dall'immaginata altezza, e disfatto non si rifacesse, nè rialzasse che per ricadere con perpetua vicenda finchè duri eternalmente l'infinita grandezza del creatore sulla vana alterigia della creatura. La pena del Fucci è un olocausto senza tempo e senza espiazione. Dante non fu più pinzochero di Orazio e di tanti, anche pagani, che alla irreverenza e profanazione del culto religioso recarono la cagione de' corrotti costumi e delle sventure de' popoli (a).

E questo è, considerando la cosa in rapporto all' obietto. Rispetto poi al subietto si può vedere che l'incitamento che mosse Vanni al sacrilegio fu LA SUPERBIA; onde il iaculo gli si lancia dove il collo si giunge alla cervice, e lo trafigge. Distrutto si rifà e fugge per tema dell'ira di Dio. Al Pistoiese, che fu ba

vita che di rettili schifosi e di bisce pestilenziali. Nessun gastigo più grave di questo Dio minaccia ai popoli per bocca di Geremia (IX, 11): arena e dragoni, cioè sterilità, miseria e desolazione, che fanno il covo dell'astuzia, della frode, e della prepotenza. Dabo Jerusalem in acervos arenae et cubilia draconum. E Dante che l'alto suo lavoro ordina alla civiltà, non può in queste tre orribili trasformazioni aver meno inteso ad un'allegoria, che nelle tre belve simboliche; nè qui men che altrove aver dinotato differenza di colpa per differenza di pena. Così pare indubitato significarsi nelle tre metamorfosi tre maniere di furto frodolento. A determinarle non mancarono di porre il loro ingegno gli antichi espositori; e noi già l'abbiamo qua e là in queste note accennato. La distinzione de' ladri qui fatta dall' Anonimo e da Pietro non può, a detta del Tommaseo, essere tutta di loro fantasia. Ladri che rubano di elezione alcuna cosa, l'altre non toccano come il Fucci: ladri che hanno sempre l'animo al furto, ma non sempre lo tentano: ladri che rubano non sempre, ma colto il momento. Queste con le altre distinzioni de' ladri complici e mezzo pentiti paiono all'illustre co-stardo, incolse dell' indomita sua supermentatore troppo sottili; e noi le reputiamo anche insufficienti a spiegare le trasformazioni che il Poeta descrive. La complicità, l'intenzione, l'abito e la ripetizione degli atti criminosi, il tempo, il luogo, e le cose in cui si perpetrano concorrono a determinare la gravezza della colpa; ma Dante a non porre il piede nel ginepraio di queste accidentali cagioni, misura l'intensità del vizio dal termine a cui mira l'offesa ed il danno: Dio, la società, l'individuo. Quindi furto sacrilego, furto pubblico, furto privato. Vanni Fucci è ladro alla sagrestia: quest'empio al morso d'un serpe arde, casca in cenere, e torna subitamente qual'era. Ciò pare immaginato secondo che dice Ezechiele (XXVIII, 18 seg.): In multitudine iniquitatum tuarum, et iniquitate negotiationis tuae polluisti sanctifi

bia la pena accennata nella Sapient. III, 26: Filii autem adulterorum in consummalione erunt. E il Poeta vorrebbe che la patria di lui s'incenerisse, secondo che nel santo libro si legge (v. 18): Nationes enim iniquae dirae sunt consummationis. Ed ivi v. 14: In malignitate autem nostra consumpti sumus.

Passiamo alla seconda trasformazione. Vanni fu ladro alla sagrestia; Agnello al fisco: è reo di concussione e di peculato. Perciò lo assale il Dragone: Forlio

(a) Horat. Lib. III, Od. VI:

Delicta Maiorum immeritus lues,
Romane, donec templa refeceris,
Edesque labentes deorum, et

Foeda nigro simulacra fumo.
Diis te minorem quod geris, imperas:
Hinc omne principium, huc refer exitum.
Dii multa neglecti dederunt
Hesperiae mala luctuosae.

Che venner prima, non era mutato:
L'altro era quel che tu, Gaville, piagni.

ribus aulem fortior instat cruciatio.
Sapient. VI, 9. Dicono essere questo
serpente di acuta vista, e i poeti lo fin-
sero deputato alla guardia de' tesori. Il
Drago era presso gli Egiziani anche sim-
bolo degli eroi, e qui in Inferno fa le
vendette della giustizia, come fec' Erco-
le contro il ladro dell' Aventino. Assale
Agnello, lo abbranca, gli s' abbarbica,
lo addenta alle guance, e, peggio che
per mordere, lo stringe a sè con la coda
ritesagli dietro alle reni, di cui dicono
tanta essere la forza, che niuno animale
è sì forte nè sì grande, quando con essa
lo stringe, che non l'uccida. Nemico del
Liofante è il Drago e intra loro è odio
mortale. Nella persona di Agnello s' in-
vengono i caratteri del Leonfante. Que-
sti è simbolo di grandezza e di animo
altero; e quegli fu de' ragguardevoli di
Firenze: l'elefante non caccia a topi (a)
e Agnello pon le mani nelle casse del
pubblico denaro: l'uno ha naturalmente
dura la cute e non cura il morso della
zanzara e scuote da sè le frecce lanciate:
l'altro incallito nel vituperio non sente
le punture del volgo, e disprezza con
improntitudine le saette della pubblica
maledizione.

Al tocco l'un dell'altro Cianfa e Agnello, l'umana forma e la ferina, s'appiccano e fanno di due un nuovo mostro, come simulacro della confusione orribile e del disordine, in cui cadono gli stati sotto i governi delle ladre consorterie. L'imagine perversa sen gìa con lento passo (v. 77-78) (e, se il luogo era da ciò, avrebbe potuto andare in cocchio mostrandosi fieramente autorevole e grave) perchè ai gran ladri il timore non impenna le ali ai piedi. Subiettivamente, l'incentivo alla seconda specie del furare è la cura o voglia ambiziosa e avara; che rende l'uomo in tutto mostruoso, lo perverte e lo danna come drago alla guardia dell'oro furato (b).

(a) Proverbio: Elephantus non capit murem: idest generosus, et excelsus animus negligit praedas viles.

(b) Agnèl Brunelleschi, Buoso degli Abati e Puccio Sciancato de' Galigai, tre cittadini rag

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Da ultimo, la forma umana e la serpentina si mutane simultaneamente l'una nell'altra, pigliando figura ed atto della trasmutata natura. Buoso morsicato dal Serpentello si converte in esso, e fugge serpendo, come ladro che teme la vendetta del dirubato. Subiettivamente, pare che la trafitta data nell'ombelico a Buoso, dinoti la cupidità e la LUSSURIA essere l'incentivo della terza specie di ladri.

Così vediamo cinque ladri, tuttochè di vario genere, consorti alla colpa e alla pena: la Superbia, l'Avarizia e la Lussuria, simboleggiate nel Leone, nella Lupa, e nella Lonza, essere anche fomento della frode ladra.

La triplice partizione del furto, alla quale ci avvisa aver mirato il Poeta, è conforme eziandio alla dottrina del Dritto Romano; che, considerando le cose in quanto all'altrui proprietà, stabiliva per sommi generi la differenza tra le cose divine e le umane, suddividendo poi queste in pubbliche e private: Summa rerum divisio in duos articulos deducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani (c). Quaedam naturali iure communia sunt omnium, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum (d). Quella, che intercede tra le cose pubbliche e le private, si fonda non pure sulla differenza razionale tra lo Stato e l'individuo, ma ancora sull'elemento storico del Dritto Romano. Passandosi delle svariate modalità e qualificazioni, che quel reato può assumere in tali e tali altre condizioni di sua esi

ladri non per furti privati e vili, ma perchè po-
guardevoli di Firenze; i quali son dannati tra i
sti nei primi carichi della Repubblica ne dis-
trassero a loro pro le rendite, e si arricchiro-
no a danno pubblico. Vedete che bricconi! Que-
giorni. Così l' egregio B. Bianchi nel suo co-
ste cose, grazie a Dio, non si sentono ai nostri
mento stampato a Firenze il 1857. In quei gior-
ni non si sentivano di questi bricconi;oggi 1867
neppure si sentono: dunque il quadro delle a-
nime dannate dipinte dall'Alighieri non era pel
secolo d'oro in cui noi viviamo!
(c) L. 1, pr. ff. rer. div. qual.
(d) Ibid. L. 2.

CANTO XXVI.

Ottava bolgia: I Consiglieri fraudolenti.

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande,
Che per mare e per terra batti l'ali,
E per lo Inferno il tuo nome si spande.

stenza, Dante pare lo abbia riguardato per quegli aspetti soltanto, che la diversa natura delle cose poteva improntargli in modo caratteristico e definitivo.

di furto visti da lui nella settima bolgia. Questa nota d'ignominia nessuno potea cancellare dalla fronte del ladro. L. LXV, Digest. De furtis: Non potest Praeses provinciae efficere, ut furti damnatum non sequatur infamia. (C. XI, 49, nota).

2. PER MARE E PER TERRA ec. La fama de' buoni non si striscia su per la terra e pel mare con volo d' uccello palustre; ma leva al cielo le ali. Orazio (Lib. II, Od. 20):

Non usitata, nec tenui ferar

Penna biformis per liquidum aethera Vates: neque in terris morabor ec. Virgilio (Egl. V, 43) di Dafni dice: hinc usque ad sidera notus. Firenze avea rea fama de' traffici che fece per di qua e di là dal mare.

1. GODI, FIORENZA ec. Apostrofe piena d'amara ironia! Dello ingenerarsi tanti ladri nel suo seno, aveva anzi ragione di tribolarsi l'inclita delle toscane città. Fuori di traslati Guitton d' Arezzo così ai Fiorentini: Vedete voi se vostra terra è città, e se voi cittadini uomini siete. E dovete savere che non città fan già palagi nè rughe belle, nè uomo persona bella nè drappi ricchi; ma legge naturale, ordinala giustizia e pace e gaudio intendo che fa città; e uomo ragione e sapienzia e costumi onesti e retli bene. Oh che non più sembrasse vostra terra deserto che città sembra, e voi dragoni e orsi che cittadini! Certo, siccome voi non rimaso è che membra e fazione d'uomo, chè tutto l'altro è bestiale e ragion fallita, non è vostra terra che figura di città e case: giustizia violata e pace. Chè, come da uomo a bestia non è già che ragione e sapienzia, non da città a bosco che giustizia e pace. Come città si può dire, ove ladroni fanno legge, e pubbrichi (a) istanze (c). Ciacco tra i golosi; Filippo Arno, che mercatanti? ove signoreggiano genti tra gl'iracondi; Farinata e il Cavalcanti fra gli eretici; Rainieri Pazzo tra i micidiali, e non pena, ma merto ricerubatori di strada; un innominato che vono de' micidj? ove sono uomini divos' impicca; sodomiti a bizeffe sol fiorenrali e denudati e morti come in deserto?

lichino battè anche l'ali, ma sopra la BATTI L'ALI. V. C. XXII, 145 nota. Apece.

3. E PER LO INFERNO IL TUO NOME SI SPANDE. Il Tasso:

fama ne vola e grande

Per le lingue degli uomini si spande. Dante dice che trovò de' fiorentini per tutt' i cerchi infernali, onde paia non

esser vizio che non s'annidasse a Firen

SEI SÌ GRANDE: Drance appo Virgilio ini; di tre usurai che vide due erano di (XI 124) così ad Enea:

O fama ingens, ingentior armis (b). Nota che pel Poeta Firenze si vuol detta grande, non di buona fama, anzi dell'infamia che accompagna i condannati

(a) Pubblici in sentimento di pubblicani o usurai, contrapposti qui agli onesti mercanti. (b) O di fama e più d'arine eccelso e grande.

sua terra ed altri vi si aspettavano; e or qui ben cinque rei di sacrilegio, di peculato e di furti privati.

(c) Egli si fa perciò dire (C. XV, 69) da Ser Brunetto:

Da' lor costumi fa che tu ti forbi.

e dice espressamente egli stesso nello indrizzo della lettera a Can della Scala: Dantes Allaghe. rius Florentinus natione, non moribus ec.

Tra li ladron trovai cinque cotali

Tuoi cittadini, onde mi vien vergogna,
E tu in grande onranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,

4-5. CINQUE... TUOI CITTADINI: nominati nel canto precedente: cioè Cianfa, Agnello, Buoso, Puccio e Guercio, gentiluomini fiorentini pubblicati gran ladri dal Poeta, C. XXV, 43, nota.

COTALI, cioè ladroni.

Cotale si trova per semplice tale; ma per lo più con significato d' un non so che di grandezza, distinzione, maraviglia, onde par giusta la chiosa del Venturi, il quale per essa voce intende che il Poeta abbia voluto già dire, che quei cinque ladroni fossero: Non mica plebei, ma primari barbassori della Repubblica. Il Petrarca, son. 83:

Credete voi, che Cesare, o Marcello,

O Paolo, od Affrican fossin cotali Per incude giammai, nè per martello? dove cotali vale uomini di fama immortale. Lo spiritoso Tassoni vi fa su questa nota: Non erano cotali questi valentuomini: ma questi versi li colaleggiano

bene.

Nel C. VI, 31,in correlazione di Quale: Cotai si fecer quelle facce lorde ec. ONDE ec. de' quali io prendo vergogna,e a te non torna grande onore; anzi ne ricevi gran biasimo, essendo tuoi cittadini. Nota il mi particola pronominale dove i grammatici richiedono il pronome a me, in corrispondenza del tu.

6. ONRANZA, orranza, onoranza, C. IV, 74 cc.

SALI. Il Poeta nelle Rim. son. XVI:
Ch'ella non pare umana, anzi divina
E sempre sempre montá la sua fama.
Il Petrarca, son. 89:

Dammi, Signor, che 'l mio dir giunga al segno
Delle sue lode, ove per se non sale.
Nel son. 86:

Senza levarmi a volo, avend'io l'ale
Per dar forse di me non bassi esempi.
E nel son. 83:

Però mi dice 'l cor, ch'io in carte scriva Cosa onde 'l vostro nome in pregio saglia. Orazio:

Sublimi feriam sidera vertice ec.

7. MA SE PRESSO AL MATTIN ec. Se i miei presentimenti non m'ingannano. Dante sognava continuo la pena della

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5

- Il Lom

parte nemica. Tommaseo.
bardi e i più intendono che Dante siasi
delle cose ch'è per dire sognato circa il
nascer dell' aurora, nel qual tempo, se-
condo l'antica superstizione, avevansi i
sogni per veritieri. Il Biagioli crede Dan-
te aver detto che il disordinato vivere di
Firenze faceva antivedere i disastri ch'e-
rano per sopravvenirle, con la certezza
che si ha dell'avvenimento di quelle co-
se che si mostrano ne' sogni del matti-
certa che il sogno che si fa sull' auro-
no. Ti fo una profezia più vera e più
ra. Bianchi. Se i sogni che l'uomo
fa presso al giorno sono veri, se le
congetture ch' io faccio di te son ve-
re ec. Bargigi. Ma il concetto del
Poeta dee raccogliersi dalle sue parole,
le quali pare sieno state bene intese dal
Lombardi. Ai sogni antelucani attribui-
sce il Poeta grande efficacia, come mo-
stra nel Purgatorio (IX, 10-33), arre-
candone a ragione, che in quell' ora la
nostra mente soggetta meno agl' incep-
pamenti della materia e meno da' pen-
sieri distratta:

Alle sue vision quasi è divina.

Ed egli non potea con migliore linquaggio parlare all' intelligenza delle moltitudini ancor dominate da quell'antichissimo pregiudizio (a). Provide con questo che non paresse voler vaticinare con certezza le cose future, nè attribuirsi la visione d'un santo profeta dove i fatti cui accenna eran di già accaduti.— Per colorire il suo pensiero più al naturale non dice: IL VER SI SOGNA, ma DEL VER; che, secondo ne pare, vorrebbe significare alcuna cosa di vero, o simile al vero.

(a) Ovidio, Heroidum Epistola XIX: Namque sub aurora jam dormitante lucerna, Tempore quo cerni somnia vera solent ec. 11 Tasso dice che l'Angelo apparve a Goffredo quando

Sorgeva il nuovo sol da' lidi Eoi

Parte già fuor ma il più nell'onde chiuso. Quel duce però stava in orazione in quell'ora: dunque sognava in veglia.

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