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Che la vostra miseria non mi tange,
Nè fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.

Donna è gentil nel Ciel, che si compiange
Di questo 'mpedimento, ove io ti mando,
Sì che duro giudicio lassù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando,
E disse: or abbisogna il tuo fedele
Di te, ed io a te lo raccomando.

Lucia, nimica di ciascun crudele,
Si mosse, e venne al loco dov'io era,
Che mi sedea con l'antica Rachele:

la luce, della quale può schiararlo la dottrina de' padri della chiesa, di Aristotele, e di S. Tommaso: l'altra, che farà cosa grandemente utile alla retta intelligenza della Divina Commedia, chi nella Bibbia avrà spigolato e ricolti que' luoghi tutti, da'quali venne fatto all'Alighieri di attignere con la profondità dei concetti la bellezza e leggiadria delle forme.

2o Due negativi generalmente parlando affermano nel latino; il non col niente o nulla negano nella lingua nostra. In questo verso:

Nè fiamma d'esto incendio non m'assale. parrebbe che il non affermasse alla latina. E non sarebbe nulla da opporre, chi non sapesse per altri esempi che talvolta è questo una congiunzione che scusa e: val dire non una particella negativa, ma congiuntiva.

Bonaggiunta Urbiciani:
Che fa volere
Poco d'avere

Più che bontà pregio di persona.
Masarello da Todi:

Che se viene in ricchezza nè in potere. I Provenzali hanno identicamente il ni pere. Così l'antico Francese. (Vedi Nann, Anal. crit. Verb. it. pag. 111, (1)). II. Salvini interpreta cotesto per o, ovvero: malamente, a giudizio del citato Nannucci; poichè nel passo in lingua provenzale (e così forse in qualche altro) da lui allegato, mal si porrebbe la disgiuntiva, dove trovasi allogato il ni.

Molti altri esempi allegar potrebbonsi di antichi scrittori di prosa. Contentiamoci di notare solo questi: Albertano: << e per molte altre rascioni, le quali non si

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possono pensare così lievemente, nè non sarebbe convenevile di contarle ». (Nann. Man. di lett. it. Fir. 1858, Barb. ec. pag. 57). E ivi pag. 63: « Udite dottrina, e chi la guarderà, non perirà per sue paraule; nè non sarà iscandalizzato in malvasce opere ».

Brunetto Latini, Rettor. Lib. I: « Ed ancora in quello tempo la divina religione, nè umano ufficio non erano avuti in reverenzia ec.». Idem Oraz. di Jul. Ces. << Nè la sua sentenza non mi pare crudele, perciò che uomo non potrebbe fare crudeltà a cotal gente ».

Egidio Colonna, Govern. de' princ. Lib. I, cap. VII. « Insegna che i re nè i principi non debbono ec. »

Masarello da Todi (1250): « Che se (l'uomo) viene in ricchezza nè in potere ec.» Jacopo d'Aquino:

Cosi m' affina amore che m' ha tolto
Core e disio, e tutta la mia mente,
E d'altra donna amar non sono accorto,
Che tanto sia amorosa nè piacente.

94. Compiangersi d'una cosa ha perfettamente la stessa nozione del verbo latino Queri cioè Lamentarsi, dolersi, o simile.

Si trova costruito con due genitivi, uno di persona e l'altro di cosa: eccone un bell'esempio:

Antichiss. Versione ital. d'un Romanzo franc. « Quello Lelio sì gridò e disse: Cesare, grande duca e grande governatore degli onori di Roma, noi ci compiangiamo di te di ciò che tue attendi tanto, e di ciò che tu non mostri tosto il

tuo podere...».

102. Rachele moglie di Giacobbe moDisse: Beatrice, loda di Dio vera,

Chè non soccorri quei che t'amò tanto,
Ch' uscío per te della volgare schiera?
Non odi tu la pièta del suo pianto,
Non vedi tu la morte che 'l combatte
Su la fiumana, ove 'l mar non ha vanto?

Al mondo non fur mai persone ratte
A far lor pro, ed a fuggir lor danno,
Com'io, dopo cotai parole fatte,

rì sopra parto, e il nato ebbe nome Be-
niamino, che s'interpreta figlio di dolo-
re. (Genes. cap. XXXV v. 18). E da
vedere perchè Beatrice si sedesse con la
Rachele. Si trova la ragione, consideran-
do che Beatrice personifica la Teologia
speculativa, e che Rachele era simbolo
della vita contemplativa: ecco e perchè
la figlia di Folco Portinari apoteosizzata
si pone accanto all'antica donna, e per-
chè sedea. Il comun linguaggio fa sede-
re voce di sentimento opposto all'opera-
re. Il Poeta a questo allude anche nel
Purgatorio (XXVII, 100 segg.), dove
Lia, simbolo della vita attiva, parlando
di sè e di sua sorella, dice allegorica-

mente:

Sappia qualunque il mio nome dimanda,
Ch'io mi son Lia, e vo movendo intorno
Le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi allo specchio qui m'adorno;
Ma mia suora Rachel mai non si smaga
Dal suo miraglio, e SIEDE tutto giorno.
Ell'è de' suoi begli occhi veder vaga,
Com'io dell'adornarmi colle mani;
Lei lo vedere e me l'ovrare appaga.

Beatrice simboleggia la Rivelazione, la Fede, la Teologia che specola e con

templa Dio, suo nobilissimo obietto: ella perciò è detta (Purgat. VI, 45) lume tra il sommo Vero e l'intelletto creato. Da questo bel cominciamento Dante accenna il carattere simbolico della sua Donna amorosa; e sarebbe da cieco il non discernere di buon'ora, ond'è ch'ella s'assida accanto alla moglie di Giacobbe. Ciò stesso ne induce a credere che, se (v. 105) Lucia dice Dante uscito per Beatrice della volgare schiera, questo non è che a significare com' egli, per lo sommo studio posto nelle scienze teologiche, venisse onorato qual gran maestro in divinità: cosa statagli, a que'tempi, di maggior lode, che non le sue rime vol

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gari; le quali sole non lo avrebbero levato al di sopra della volgare schiera: imperocchè il volgar nostro non era in gran conto tenuto da' dotti, tanto che lo stesso Dante ne scrisse in latino, e in latini versi avea già sette canti forniti della Divina Commedia; poco mancando che, invece di esser questa eterno monumento dell'altezza a cui salse un ingegno italiano, non restasse polveroso poema latino, come l'Africa del Petrarca, negli scaffali di qualche biblioteca.

103. Per due ragioni è detta Beatrice vera lode di Dio: e perchè le sue virtù tornano a gloria di lui, e più, perchè simboleggia ella la Teologia rivelata, la quale discorre di Dio, argomentando da principî infallibili, senza tema d'incorrere in quegli errori, che tanti filosofi, troppo fidenti nella propria ragione, commisero attribuendo all'Ente infinito i difetti delle creature che son blasfemi e non lodi della divinità.

Chè accentuata, o no, è usitatissima ab antico nella lingua nostra in senso di perchè, particella interrogativa e dimo

strativa ec. Enzo Re:

Giorno non ho di posa,
Come nel mare l'onda:
Core, che non ti smembri?

107. Morte qui è la Lupa. Di questa
dicesi:
Finchè (il Veltro) l' avrà rimessa nell' Inferno
Là onde invidia prima dipartilla :
di quella: Invidia diaboli mors intravit
in universum mundum. La maledetta
combatte il Poeta sulla fiumana, e dal
cielo si provvede a lui di soccorso. Nel
Salm. LVI, 4: Misit de coelo el libera-
vit me; e nel XVII, 17: Misit de sum-
mo, et accepit me: et assumpsit me de
aquis mullis.

Venni quaggiù dal mio beato scanno,
Fidandomi nel tuo parlare onesto,
Ch'onora te, e quei ch' udito l'hanno.
Poscia che m' ebbe ragionato questo,
Gli occhi lucenti, lagrimando, volse;
Perchè mi fece del venir più presto:
E venni a te così, com'ella volse;
Dinanzi a quella fiera ti levai,
Che del bel monte il corto andar ti tolse.

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Dunque che è? perchè, perchè ristai?
Perchè tanta viltà nel core allette?
Perchè ardire e franchezza non hai,
Poscia che tai tre donne benedette
Curan di te nella corte del cielo,
E'l mio parlar tanto ben t'impromette?

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Quale i fioretti, dal notturno gielo
Chinati e chiusi, poi che 'l Sol gl' imbianca,
Si drizzan tutti aperti in loro stelo;
Tal mi fec' io di mia virtute stanca;
E tanto buono ardire al cor mi corse,
Ch'io cominciai, come persona franca:

O pietosa colei che mi soccorse,
E tu cortese, ch' ubbidisti tosto
Alle vere parole che ti porse !
Tu m'hai con desiderio il cor disposto
Si al venir, con le parole tue,
Ch'io son tornato nel primo proposto.

116. Venere appo Virgilio pone innanzi alla sua diceria l' argomento delle lagrime a commuovere Giove sui casi di Enea; Beatrice s'affida alla potenza persuasiva del suo angelico favellare; l'una cosa sa più d' arte donnesca; l'altra non desta sospetto d'artifizio, ed è segno indubitato di affetto. Dante seppe far parlare Beatrice da donna di virtù.

Æn. I, 228:

Tristior, et lacrimis oculos suffusa nitentes
Alloquitur Venus.

Il Guinicelli:

Viso di neve colorato in grana
Occhi lucenti, gai e pien d'amore.

Il Petrarca:

Come a forza di venti

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Stanco nocchier di notte alza la testa
A' duo lumi ch'ha sempre il nostro polo;
Cosi nella tempesta
Ch'i' sostengo d'amor, gli occhi lucenti
Sono il mio segno e 'l mio conforto solo.

Orazio:

Lucidum fulgentes oculos.

126. Ciullo d'Alcamo:

Chisso ben t'imprometto, e senza faglia
Tè la mia fede, che m'hai in tua baglia.

Promettere ed impromettere come promessa ed impromessa. Bono Giamb., Form. onest. vit. Prudenz. VII: La tua promessa sia con grande considerazione, e sia lo dono maggiore che la 'mpromessa.

Or va, ch'un sol volere è d'amendue: Tu Duca, tu Signore, e tu Maestro. Così gli dissi; e poichè mosso fue, Entrai per lo cammino alto e silvestro.

140. (Vedi Inf. IV, 95 sotto la fine).

I trovadori davano per galanteria questi medesimi titoli alle loro dame. Così Rustico di Filippo contemporaneo del Latini:

Mercè, madonna, non m'abbandonate,
E nón vi piaccia ch'io stesso m'uccida;
Poi che viene da voi quest'amistate,
Dovetemi esser donna, e parte e guida.

Duca è dal lat. Dux, Duce; ma non pochi nomi e comuni e propri, che originariamente tratto aveano la desinenza in e dalla terza de' latini, mutaronla in a come Prenza, aiera, antista, toraca, camaleonta, ereda, Licaona, Troa, Elicona ed altri, che primitivi furono Prenze o prence da principe; aere, antiste, torace ec. Dagli ablativi Duce, Horizonte, Flegetonte, Aronte, Pacane ec. derivarono i corrispondenti nomi italiani che furono ridotti alla terminazione in a, e così adoperaronsi ed in poesia ed in prosa. Onde il nostro Poeta Parad. XXII, 132: « Che lieto vien per questo etera tondo >> - Inf. XXXI, 116: « Che fece Che Scipion di gloria ereda >> -Inf. XI, 113: «Che i pesci guizzan su per l'Orizzonta» - Ivi XIV, 116: «Fanno Acheronte, Stige, e Flegetonta >> - Ivi XX, 110: «Augure (fu) e diede il punto con Calcanta ec.>>> -Ancora, 46: « Aronta è quei che al ventre gli si atterga >> - Parad. XIII, 25: <<Lì si cantò con Bacco non Peana ec.». Gli italiani imitarono con questa finale di sustantivi, la declinazion greca, che concesse ai latini la duplice desinenza in em ed in a nel quarto caso del singolare, in tutti que' nomi della terza declinazione che ci vennero da quella lingua: come aerem, aera; craterem, cratera; Hectorem, Hectora; Amaryllidem, Amaryllida ec. ec. Tanto lungi dal vero son iti quelli che annotarono esser coteste de

sinenze dovute alla rima!

142. Silvestro è uno degl' innumerevoli aggettivi maschili dalla terza declinazione latina, i quali, simigliantemente

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che notato abbiamo pe' sustantivi (Inf. XXI, 45 ec.), mutarono in o la primitiva desinenza in e. Da Silvester o Silvestris, Silvestre e Silvestro. Così di pari modo il nostro Poeta usò, come gli altri antichi, anteriori, contemporanei e posteriori a lui; cilestro (Purg. XXVI, 6), acro (ivi XXXI, 3); terrestro (ivi XXX, 126); declivo (Parad. XX, 61); leno (ivi XXVIII, 80) ec. per cilestre (o celeste che si fece anche celesto e cilesto); acre, terrestre, declive, lene ec. E avvegnacchè si trovassero questi in fine del verso negli esempi citati, non è punto per la rima che uscissero in o; dappoichè Dante medesimo (Inf. XII, 1) dice:

Era lo loco, ove a scender la riva
Venimmo, alpestro ec.

ed esempi d'altri scrittori produr potrebbonsi, che di tali nomi fuor della rima adoperarono. Nella prosa, Fra Giord. Pred. XXI, Genes.: « Ma vedi qui che sono due paradisi, uno terrestro, dove fu fatto l'uomo primo, ed uno celestro, dove furono fatti gli Angioli ». Il Vill. 11, 2, 1: « Gran parte delle cagioni fu per lo corpo celesto »; e in più altri luoghi. Il Caro Lett. 2, 232: «Ma per vaghezza farei una mantellina a Nettuno di celestro ». E così degli altri. Alla predetta regola appartiene eziandio pareglio che Dante usò (Parad. XXVI, 106). Da parilem, pari, uguale, si fece parile, parilo e pariglio, siccome da similem, simile, similo e simiglio che si legge nel B.Jacopone ed in altri. L'i mutatosi lievemente in e, ne venne pareglio. Franc. pareil, Provenz. Parelh.

Ancora è da notare che i latini ebbero

molti aggettivi medesimamente della seconda e della terza: come acrus, acclivus, sublimus, inermus ec. per acer, acclivis, sublimis, inermis ec., trasmutazioni simili nelle due lingue; perchè non sia chi tenga, il nostro poeta nulla essersi presa la licenza d'innovare nell'italiana favella o d' usare, che non fosse a lei dalle sue origini appartenuto.

CANTO III.

Ingresso nell' Inferno. - Il fiume Acheronte.

PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE:
PER ME SI VA NELL' ETERNO DOLORE :
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE 'L MIO ALTO FATTORE:
FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA, E 'L PRIMO AMORE.
DINANZI A ME NON FUR COSE CREATE,
SE NON ETERNE, ED IO ETERNA DURO:
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI, CHE 'NTRATE.

Queste parole di colore

Ci piace di qui riferire, come a suo proprio luogo, che per la stessa ragione di sopra arrecata, si disse Ciclopo, Etiopo ec. per Ciclope, Etiope ec. per il che Purgat. XXVI, 20:

Che tutti quanti n'hanno maggior sete Che d'acqua fredda Indo o Etiopo. Nel Dittam. Lib. V, cap. XVII: Ma sopra quanti ne noma il Numidio, O l'Etiopo, è reo il basilischio.

L'Ariosto (Orl.Fur. 33, 33) non schiva Etiopo. Anche Lucilio disse: « Rhinoceros velut Aethiopus » ed Orazio Delphinum per Delphinem nell' Arte poetica ec. ec. Il che spiega come Virgilio dicesse immitis Achilli, infelicis Ulyxi ec. per Achillis, Ulyxis; contro quanto i più fini grammatici siensi potuti arzigogolare per chiarire la cosa altrimenti.

9. Non discese mai in inferno niuno, che di qua stato fosse poscia esperto di

ritornare. Eneid. VI, 226:
Noctes atque dies patct atri janua Ditis:
Sed revocare gradum, superasque evadere ad
Hoc opus, hic labor est.

V. Inf. V, 19; qui, v. 14.

(auras,

10 seg. Parole di colore oscuro. Avvegnacchè quelle parole fossero scritte sulla porta d' inferno, onde par naturale che dovessene il colore esser oscuro; non intendiamo che il poeta abbia a farne gran caso dell' uno più che dell' altro colore; dappoichè più che oscuri, son neri gli stessi caratteri che scrivonsi da noi alle persone non infernali, nè meno spaventose eran quelle se

oscuro

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rosse, cilestre ed anche dorate fossero apparse agli occhi di Dante. Per la qual cosa pensiamo che il colore di quelle parole si dicesse oscuro in rapporto alle idee triste che portavano nella mente di lui. Nè fa maraviglia se in sentimento figurato dovrà, in questa ipotesi, prendersi la voce colore; essendo le parole segni e pittura de' pensieri. D'altronde chiarezza ed oscurità, chi legge gli antichi e i moderni, vede essere usitati per letizia e mestizia, ovvero allegrezza e tristezza; il che, non fosse per altro, si dimostrerebbe da ciò, che Dante stesso significa le varie gradazioni della celeste allegrezza e del riso ne' beati, per la maggiore o minore intensità di luce ond'essi risplendono, ovvero è più gioiosa quell'anima che più rifulge. Dar fuori esempi in pruova che fu comune usanza e direi necessità a tutt'i poeti di ricorrere al sole e alle stelle per lodare la beltà delle donne non fa mestieri. La luce è contento, gioia, bellezza, bene, verità, Dio stesso; l'oscurità è il contrario. Noi ricordiamo esserci avvenuti in mille luoghi d'ottimi antichi scrittori prima di Dante, che adoperano chiaro, clero e simili per contento, lieto, bello ec., nè vogliamo penarci di andarli ripescando, sicuri che chiunque ne dubitasse, potrebbe leggermente farsi certo per propria esperienza. Tenghiamo adunque che le parole di colore oscuro sono, ad intendimento del poeta parole che pingono

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