Laggiù cascherò io altresì, quando Verrà colui, ch' io credea che tu fossi, Di ver ponente un Pastor senza legge, Ne' Maccabei; e come a quel fu molle un pertugio. Nuova che sia questa nostra interpretazione, ha se non altro la caldezza dello spirito aligheriano; dove le altre ti fanno sentire l'inerzia del gelo, di cui mai non intormentì l'anima del gran Ghibellino. 79-81. Nicolao III visse men che due anni papa, e morì nel mese di agosto 1280. Da questa data al 1300, epoca della visione dantesca, erano già 20 anni passati, che questo S. Padre stava commesso nel foro di dannazione. Ora dic' egli che Bonifazio verrà in suo luogo, ma non vi starà sì lungo tempo; poiche dopo dieci anni circa andrebbe Clemente V (a) a cacciarlo giù per piantar visi esso. che per favore d'Antioco, re di Siria, usurpasse la dignità di sommo sacerdote, spogliasse il tempio di Gerusalemme e vi introducesse il falso culto. Clemente rende viva in gran parte l'imagine di Jasone. 86. MOLLE, pieghevole. Quest' epiteto va col soprannome il Bello preso nel senso volgare di debole, arrendevole ec. che Chiesero, non tanto che chiese sta 94. TOLSERO crediamo legger meglio nel v. 93, quanto perchè TOLSERO col codice Cassin. hanno le quattro ediz. del 1472 del Vernon; il testo Filippino (XIV sec.), l' ediz. del De Romanis e le variorum del Witte. Ed oltracciò di Cristo non si sarebbe potuto dir tolse, come di Pietro e degli altri, dove avessero simoneggiato. MATTIA eletto apostolo in luogo di Giuda (Act. Apost. I). 95. FU SORTITO: Dederunt sorles eis (Joseph et Mathiae) et cecidit sors super Mathiam, et annumeratus est cum undecim Apostolis (Act. Ap. I, 26). Però ti sta, chè tu se' ben punito, Chè la vostra avarizia il mondo attrista, Quando colei, che siede sovra l' acque, 99. CONTRA CARLO ARDITO. Nicolao fatto Papa e ricco fece richiedere Re Carlo I d'Angiò d'imparentarsi con lui: Volendo dare una sua nipote a uno nepote del Re,il quale parentado lo Re Carlo non volle assentire.G.Vill.-Procida trovò il Papa dispostissimo d'entrare a favorire l'impresa. Costanzo.-Ei Vespri poi domarono (1282) l'Angioino, e fecero vendetta ad un tempo de' Siciliani e del Beatissimo Padre. 103. PIÙ GRAVI. Bastano anche queste. Le altre appresso colmano lo stajo. 104. LA VOSTRA AVARIZIA. Ecco la Lu- Pietosa mia Canzone, or va piangendo: A cui le tue sorelle Erano usate di portar letizia; E tu, che sei figliuola di tristizia, Piangendo uscivan fuori del mio petto Ma vien tristizia e doglia Di sospirare e di morir di pianto. 108.A LUI.DA LUI. A per da non solo accompagna il terzo pel sesto caso, secondo la costruzione greca; ma in altri modi ancora. 100 105 110 109-117. I comentatori credono che il Poeta intenda qui l'Evangelista diversamente che nel Purgatorio (XXXII, 149 segg.); ma forse ei sono in errore (a) e il non saper conciliare i due luoghi è indizio di non averli bene intesi. L'Apocalisse, secondo che a noi pare, è il quadro in cui si rileva il combattimento tra il secolo e l'eternità. La Città di Dio è l'ideale perfetto della beatitudine. Ella ha sue fondamenta ornate di tutte pietre preziose; dodici porte son dodici margherite e dodici angeli stannovi a custodia; oro mondo come purissimo cristallo son le piazze; la chiarità di Dio le fa di sole e di luna; sua lucerna è l'Agnello immacolato; a questo lume camminano le genti e le porte non si serrano, chè mai non vi annotta: Dio onnipotente e l'Agno son suo tempio ed altare. La Chiesa militante costituita sulle fondamenta degli Apostoli, con Cristo a pietra angolare in questa valle fu quella che vide Giovanni (XXI). Jerusalem novam descendentem de coelo, a Deo paratam, sicut sponsam ornatam viro suo: taber (a) Nella Vita Nuova, Dante dice: Ed acciocchè non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico, che nè i poeti parlano così sanza ragione, nè quegli che rimano, deono parlare cosi, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; perocchè gran vergogna sarebbe a colui, che rimasse cosa sotto vesta di figura, o di colore rettorico: e domandato non sapesse denudare le sue parole da cotal vesta, in guisa che avessero verace intendimento. Fin che virtute al suo marito piacque. nacolo dove Dio compiacevasi di abitare con gli uomini, tergere le loro lacrime, mitigare gli antichi dolori. Ecco la sposa e la Donna del Cristo (ivi 10 e segg.): ecco il fiume (XXII) e l'albero simbolico della vita che rinfronzisce e fiora e frutta sulle sue sponde, e di cui fin le foglie son medicina alla salute delle nazioni. Dappoi che il Dragone infernale, il Serpente antico, non restò d'insidiare alla Chiesa nascente come fatto aveva alla nostra Progenitrice, ed ella prevaricò; la rete di Pietro si volse a pescar monete nel fango; il Vicario di Dio divenne servo alla gleba e per poca terra benedisse ai tiranni santificando il dritto della forza. Per disonesto amore di mondano potere le nazioni, e l'Italia più di tutte, vanno ancora per via di continui lutti trascinate all'ignominia di un nuovo calvario, per opera de' pastori della Chiesa diventati croce più amara della croce del Cristo. Questa Idra così tenace del servaggio è il dragone dalle sette teste coi nomi della blasfemia e con le dieci corna circondate d'altrettanti diademi (Apoc. cap. XIII): mostro avente simiglianza di pardo co' piè d'orso e la bocca di leone, e che forma quasi un tutto delle tre belve che tolsero all' Alighieri il corto andare per la via della gloria: il drago che insidia la Donna di sole vestita, che ha sotto i piedi la luna ed una corona di stelle fiammeggianti in sul capo (ivi cap. XII). In tutta la sublime visione dell' estatico di Patmos vedete i prodigi della potenza divina operarsi nel gigante conflitto con questa fiera infernale, e in mezzo la Chiesa pura nel suo nascere, traviata nel suo progresso. Dante la vede con Giovanni (ivi cap. XVII) star sulle acque (a) meretrice de' re, sedente sulla infame bestia porporata della tirannia, dalle sette teste che simboleggiano sette monti e sette re (b), e dalle dieci corna, che sono altrettanti principi (a) S. Giov. stesso spiega ivi v. 15: Aquae quas vidisti, ubi meretrix sedet: populi sunt, et Gentes, et linguae. (b) Ivi v. 9: Septem capita septem montes sunt, super quos mulier sedet, et reges septem sunt. con regia potestà seguaci del mostro ferale (c). Questi combatteranno l'Agnello e quando che sia fien vinti (ivi v. 14 seg.); ma Dio permetterà, nella sua sapienza, che quelle dieci corna si voltino poi come infeste punte a desolare la prostituta, a spogliarla e a divorarne le carni o gittarle al fuoco (ivi v. 16 segg.). Di che abbiamo veduto alcun indizio nel nuovo governo d'Italia, avvegnacchè siam certi che le ire dell' antico drudo tornino a rinnovazioni d'amore. Veniamo ora alla sposizione. QUELLA CHE CON LE SETTE TESTE NACQUE. Qui il Poeta allude alla Chiesa nascente, la quale prima della sua diffusione avea sette pastori, sette capi o sette angeli, come S. Giovanni gli appella, che reggevano le sette chiese primitive, ed ai quali l'Evangelista volge le sue parole di conforto e di ammaestramento fin dalle prime pagine dell' Apocalisse. Questi sette capi o pastori oppone Dante alle sette teste del Dragone, poichè erano essi i sette candelabri di oro, nel mezzo de'quali stava il Figliuol dell'uomo in sua potestà precinto di aurea zona, bianco i capelli come di lana candida più che la neve e con occhi di viva fiamma (Apoc. I, 13 segg.) (d). E DALLE DIECE CORNA EBBE ARGOMENTO (e). Se le corna si attribuiscono alla Bestia, come mai Dante le avrebbe date alla Chiesa? e come possiamo pensare che intendess'egli rappresentare per corna i precetti della legge divina? Qui Dante vorrà dire che infino a quando i Pastori (c) Ivi v. 12: Et decem cornua quae vidisti: runt, sed potestatem tanquam reges una hora decem reges sunt, qui regnum nondum accepeaccipient post bestiam. (d) Tutt'i comentatori intendono per le sette teste i sette sagramenti, le sette virtù morali e teologiche, o i sette doni dello Spirito Santo. Ma io non saprei che relazione potesse trovarsi tra un sagramento, o una virtù, o un dono di Spirito Santo ed una testa. Oltre di che la Chiesa, considerata nella sua impersonalità, non mancherà mai di queste cose; e la colpa della corruzione pesa sugli omeri de suoi pastori, come Dante pare che voglia dire. (e) Può intendersi: si difese contro la Bestia cornuta; chè argomento vale e arma e difesa: il nome difesa terrebbe la costruzione del verbo ; cosa rara, ma non assurda. Fatto v' avete Dio d'oro e d'argento: della Chiesa seguitarono le virtù cristia- E la Chiesa non ruppe fede al suo Sposo, se cessate non furono queste colJuttazioni tra la carne e lo spirito, tra l'empietà e la fede, tra l'arbitrio e la ragione, tra la barbarie e l'umanità, tra l'uomo decaduto e Dio. Allora cessarono quando la Lupa dell' avarizia penetrò e fece il suo covo nell'anima de'Pontefici, e i re della terra lor diedero e mantennero sostanze ed onori profani, in prezzo degli anatemi o delle benedizioni di cui doveasi spaventare od appagare il popolo soggetto allo scettro (a). Vieni, dice uno de' sette angeli a S. Giovanni, e ti mostrerò la condanna della gran meretrice con cui fornicarono i re (cap.XVII): e sapete come apparve ella all'Evangelista? Mulier erat circumdata purpura et coccino; et inaurata auro, et lapide pretioso, el margaritis, habens poculum aureum in manu sua plenum abominatione et immunditia fornicationis eius. Et in fronte eius nomen scriptum MYSTERIUM (b). V. Inf. XIII, 64, nota. (a) O pastor sommi, Farsi ludibrio delle sorti umane Il gran manto spiegate, e tutto è notte. 112. L'avaro non conosce, fuorchè l'oro, altro dio cui adori. Bon. Giamb. Della miseria dell'uomo, Tratt. III, Cap. VI: Ed Orazio dice: La pecunia raunala o ella signoreggia, o ella serve. E però è agguagliato l'avaro a colui, che coltiva le idole; il quale porta loro grandissima riverenza, e fae loro grandissimo onore, e mettevi grandissima speranza, e da sezzo non riceve da loro neuno beneficio, siccome da quelle che non hanno potenza. Nè si dica trattarsi qui della simonia; poichè l'avarizia è quella Lupa, della quale dice il Poeta: Molti son gli animali a cui s'ammoglia. Oltre di che ai papi simoniaci (v.104) è detto: Chè la vostra avarizia il mondo attrista. 113. Esser da uno ad un altro, dinota, in senso proprio, distanza, intervallo, onde sogliamo dire: da uno ad allro corre gran differenza. Forma bellissima presa dal latino Distare ec.per differire. Catull.: Lydus Dulichio non distat Chresus ab Iro. tri plurale cotesto nome idolatre. Il BarIDOLATRE. Alcuni voglion singolare, algigi è tra i primi, il Buti tra i secondi. che hanno idolatre per singolare son faCon quale delle due parti tenere? Quelli voriti dal pronome egli che è nel secondo verso; e da ciò che v'ha di molti nomi, per es., Omicide, Celicole, Risiarche, Protoplaste, Totile, Attile ec. che nelle origini di nostra lingua tolsero anzi e che a per loro terminazione del singolare; come oggidì dicono i franc. heresiarque,prophete, idolâtre,géomètre ec. Voce dall'Occidente, Voce dall'eco de' sepolcri aperti, E nella fronte sua scrisse: Mistero. G. B. Nicc. Arnal. Att. I, sc. III. Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, e noi ancora Ecclesiaste, autocrate ec. Ma questi argomenti non sono saldi abbastanza avverso l'opinione contraria, la qual tiene che idolatre sia nettamente del più; imperocchè de' nomi mascolini usciti in e al plurale ve n'ha a dovizia usati dagli antichi, non solo in poesia e per la rima, ma e in prosa, e fuori della rima. E così, ad es. Vangeliste, Profete, Poete, Apostate, Tetrarche, Patriarche, Idolatre ec. Dante stesso ne cava d'impaccio, dicendo. Inf. IX, 127: Ed egli a me: qui son gli eresiarche. Non vide mai sì gran fallo Nettuno Onde omicide, e ciascun che mal fiere, Guastatori e predon tutti tormenta Lo giron primo per diverse schiere. Questa controversia agitata tra' dotti filologi, oggi par decisa in questo secondo sentimento. (V. Il Nannucci Teoric. de'Nomi, Le Mon. Fir. 1858, Cap. VI e XI). Quanto a Egli plurale ci dispensiamo dell'addurne esempi; che ne ha innumeri, chi legge negli scrittori antichi: e non solo come ripieno, ma come pronome dimostrativo che risponde al lat. illi; d'onde ne venne ed igli e gli, ed egli: sicchè nel passo di Dante qui arrecato egli, rigorosamente parlando, non istà in luogo di eglino, ma di quelli. SE NON, ha forza di Tranne, Eccetto, Salvo, Fuori ec. (Lat. praeter ec.) Brun. Latini Tes. V, 60: La Pantera... è ami ca di tutti animali, salvo del drago ne... addormentasi e dorme tre dì, e poi si lieva, e apre la sua bocca e fia ta si dolcemente, che le bestie tutte che sentono quell' odore, traggono dinanzi a lei,se non il dragone-Se non che Nisi quod. Praeter hoc ec. 115 seg. MATRE e PATRE ai tempi di Dante e prima e poi furono adoperati in verso e in prosa per Madre, Padre. Fra Guittone, Lett. 39: Ma certo non patre, non frate, non amico l'atlienno che ti promettono. Ne' Framm. di stor. rom. Lib. III, 115 Capit. XI: Patre e signore mio,piacciate che così fatta donna ec. Dicono dunque non bene quelli che annotano, Patre e Matre esser qui per antitesi o altra licenza. Senza che, sono questi nomi gli stessi ablativi latini di pater e mater, che noi oggi usiamo col d in luogo del t che gli è affine. Non è poi nostro proposito entrare in ciò che s'attiene al potere temporale del papato; perciò ce ne passiamo. Osserviamo solo che qui Patre è identificato con Papa, Abba ebr., Babbo de' toscani, Vavo de' napolitani ec. Pater de' senatori romani, i quali sive aetate, sive curae similitudine furono con quel nome appellati. Dante insiste sulla simiglianza d'un connubio tra il Papa e la potestà civile che quasi figliuola o pulcella dell'Imperator Costantino si maritasse al santo padre, portandogli in dote con gli stati e le possessioni, la superbia, l'orgoglio e tutti gli altri vizi che sogliono esser figliate dalle ricchezze del mondo. Al contrario il Poeta (Parad. XI) fa che Beatrice lodi S. Francesco d'Assisi, per aver disposata la povertà: la quale già donna di Gesù, poi vedova del primo marito, restò negletta ed oscura per ben mille e cento anni sino a quel santo frate, da cui ebbe invito alle seconde nozze,non mai poscia seguite dalle terze. Il Papa secondo Dante dovea dunque disposare la povertà senza dote, seguicui salì in sulla croce (Parad. XI, 64-72). tando Cristo, a cui fu Ella diletta e con Cosa comandata, nonchè consigliata cosemplare di G. Č., e che oltre del Vangestantemente dagli oracoli e dalla vita elio (S. Matt. cap. II, ec. ec.) anche la morale filosofia commenda. Lasciando gli altri scrittori moltissimi del gentilesimo, rechiamo un luogo di Orazio (Lib. III, od. XXIX); il quale dice, che ove la fortuna gli sia propizia e costante, egli se ne compiace; quando poi si parta via battendo l'ali lungi da lui, ed egli rassegna i beni conferitigli e virtuosamente segue l'onesta povertà: Laudo manentem; si celeres quatit |