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Quando noi fummo là, dov' el vaneggia
Di sotto, per dar passo agli sferzati,
Lo Duca disse: attienti, e fa che feggia
Lo viso in te di quest' altri malnati,

chè cerchi elerni, che vale lo stesso. ETERNE, continove, chiosa il Daniello. Il Vellutello eterne come le altre superiori, sendo questa l'ultima che cerchia proprio dir si potesse; ed ETERNE per le pene. Il Venturi è col Vellutello quanto alle cerchie grandi, e col Daniello intende ETERNE non interrotte, continuate. Il P. Lombardi eterne riferisce al Burrato ed a queste cerchie, che girano appiè di quello, inteso per lo luogo eterno (Inf. I, 114 ec.). Così anche il Biagioli. Il Bianchi spone: cerchie eterne per lo cammin circolare che fino allora avean fatto, per andare in linea retla di ponte in ponte, dalla circonferenza al centro. Il Bargigi avea già scritto: CI PARTIMMO da QUELLE CERCHIE ETERNE, fuora di quell' argine perpetuo, che mai non mancherà... Il Tommaseo: CERCHIA

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eterna, non caduca come quella della

cillà di Firenze. Certo è che Dante dà l'aggiunto di eterno a tutto l' Inferno, e perfino alla PORTA, su cui sta scritto ed io eterno duro. Il Daniello vide l'inconveniente di attribuire l'eternità a queste sole cerchie; e noi non veggiamo che valer possa la sua chiosa di perpetue, come quella del Bargigi e di altri. Dimanderemmo al Lombardi e al Biagioli,

che monti la distinzione delle cerchie

grandi e piccole, per meritar questo epiteto alle une più che alle altre; quando Dante appella, come appellar debbe,tutto, e luoghi e pene, eterno dal primo lembo, sino all'ultimo foro del cono infernale. Se riducete l'eternità alla perpetuità, non saranno elleno le altre bolge, perpetue come la prima? E se col Tommaseo diciamo eterna questa cerchia in contrapposto a quella che cingeva Firenze de' tempi dell'Alighieri, sono anche eterne le mura di Dite, le quali più onorevolmente potevano rappresentare la Città del Poeta, che non questa bolgia schifosa, onde abborriamo dal credere che Dante abbia voluto ritrarre l'imagine della sua patria. Come uscirne da

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questo ginepraio? Noi sospettiamo che qui si debba leggere CERCHIE ESTERNE. La ragione vince questa volta l'autorità di tutt' i testi, per lo facile scambio di scrivere eterno per esterno. Il Poeta direbbe vero; e torrebbe il velo dalla mente degl' interpreti, che s' aggirano per istrane esposizioni ed inconseguenti. Di dieci bolge concentriche la prima dirassi più ragionevolmente esterna che non eterna; quando eterne son tutte, senza bisogno di dirlo. La Paleografia venga qui in soccorso del nostro sospetto, dove manoscritto autografo non abbiamo: sventura d'Italia, che lascia libera ai comentatori, in più luoghi della Div. Comm. la ricerca del lapis philosophorum.

75-76. FA CHE FEGGIA... Queste cose visibili (a)... vengono dentro l'occhio: lo mezzo diafano, non realmente, ma non dico le cose, ma la forma loro, per intenzionalmente, siccome quasi in vetro trasparente, e nell'acqua. Che nella pupilla dell'occhio questo discorso, che fa la forma visibile, per lo meno sì si compie, perchè quell'acqua è terminata nato con piombo; sicchè passar più non quasi come specchio, ch'è vetro termipuò ma quivi a modo d'una palla percossa si ferma; sicchè la forma che nel terminala: e questo è quello, perchè mezzo trasparente non pare lucida, è nel vetro piombato la immagine appare e non in altro. Di questa pupillu lo spirito visivo, che si continua da essa la sensibile virtù, siccome in principio alla parte del celabro, dinanzi dove sta fontale, subitamente sanza tempo lo ripresenta; e così vedemo... Veramente nostro vedere non era perchè il visibile Plato, e altri Filosofi dissero, che il visiva andava fuori al visibile. E quevenisse all' occhio ; ma perchè la virtù sta opinione è riprovata per falsa dal Filosofo in quello di Senso e Sensato.

(a) Dante Aligh. Convito. Ven. 1758, Zatta. Pag. 139 ec.

Ai quali ancor non vedesti la faccia,
Perocchè son con noi insieme andati.
Dal vecchio ponte guardavam la traccia
Che venia verso noi dall' altra banda,
E che la ferza similmente scaccia.
El buon Maestro, senza mia dimanda,

Queste parole di Dante fanno largo e
chiaro comento ai versi qui citati, e a-
gli altri 127-130 dove tocca i modi del-
la facoltà visiva; qui seguendo Aristotile,
li Platone, secondo che avvisò l'egregio
B. Bianchi. Osserviamo nondimeno che
altignere con gli occhi la faccia non è
rigorosamente un modo, da cui l'illustre
comentatore possa con certezza inferire
che il Poeta abbia tenuta l'opinione Pla-
tonica già da lui riprovata e avuta per
falsa, come fan chiaro le riferite parole.
FEGGIA, ferisca. Inf. XV, 39 nota.
Lo viso. Qui pare che sia Faccia co-
me nel v. 129. Non neghiamo però che
viso vaglia anche vista, come chiosa il
Tommaseo: anzi val bene l'occhio, come
senza dubbio debbe intendersi in quei
versi del Poeta, Rim. son. IX:

E quel che pare, e quel che mi traluce
M'abbaglia tanto l'uno e l'altro viso.

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Lombardi dopo il Venturi e il Volpi ec. l'accettò e chiosò per pesta, percuote. Al Biagioli parve scaccia un fiore inaridito, dopo i vv. 35-37; ma più freschi di questo non si trova nelle migliori edizioni moderne, che hanno scaccia, conforme a molti antichi testi veduti dal predetto Viviani; a quelli del Bartoliniano, ai codici Caetani e Frullani, a sei dei Pucciani, al Tempiano, a due Riccardiani 1024, 1027 (il 1026, legge caccia) al Magliabechiano, ai Patavini 2, 316 ed al Dante Antinori, al testo Bargigiano, del De Romanis, Rom. 1791, al cod. di Jesi 1472, al cod. Filippino (sec. XIV); ed è lez. prescelta dal Witte pel suo testo ed avuta tra le variorum da lui riferite a piè di pagina da edizioni o altri lavori critici anteriori. Il Tommaso accetta caccia, che pur si trova in antichi

testi, nè molto differisce da scaccia, che col Bianchi noi reputiamo la vera.

82. DIMANDA. Glielo mostra, son parole dell'illustre Tommaseo, perchè era un antico. Virgilio gl'insegna sempre i chiari uomini de secoli più remoli.— Di Capaneo non Virgilio a Dante, ma questi a quello dice:

Vero è che il v. 77 ha faccia, sicchè parrebbe si dicesse Fa che la faccia di questi malnati feggia in te, ai quali tu non ancor vedesti la faccia; ma chi ben riguarda si accorge che Dante dice in sentenza: fa che tu gli vegga di faccia, poichè non gli hai ancor veduti. Se viso e faccia non sia poi qui una cosa, si farebbe dire a Dante: fa che tu gli vegga Chi è quel grande che non par che curi ec. di viso, perchè non gli hai veduti di Sarebbe dunque a veder piuttosto perfaccia. chè qui parli il Maestro senza dimanda del discepolo, lì abbia questi bisogno di 79. TRACCIA, fila, schiera. Inf. XV, domandarlo. Se le due forme non sieno 33, XII, 55.

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state indifferentemente o per sola varietà usate dal nostro Poeta, noi crediamo questa esserne la ragione; che Capaneo giaceva immobile sotto la pioggia del fuoco, e Dante avea tutto l'agio di potervi attendere e sentirsi nascere il desiderio di dimandar della condizion di lui; ma qui senza esser prevenuto dalle parole del suo Duca, poteagli Giasone passare non visto e confuso tra la turba degli sferzati che correvano per la bolgia.

Mi disse: guarda quel grande che viene,
E per dolor non par lagrima spanda:
Quanto aspetto reale anco ritiene!

Quelli è Jason, che per cuore e per senno
Li Colchi del monton privati fene.
Egli passò per l'isola di Lenno,
Poi che l'ardite femmine spietate

83-84. QUEL GRANDE. Così di Capaneo (Inf. XIV, 46-48): Chi è quel grande ec. PER DOLOR ec. altri intende che qui di Giasone abbia Dante significato quel che di Conte Ugolino (Inf. XXXIII, 49):

Io non piangeva: sì dentro impietrai. Ma ciò può esser effetto di forte dolore ed a tempo. Non pare che Giasone stesse così impietrito per tutta l'eternità, chè sarebbe anzi d'uomo che si lascia vincere al dolore e non d'un grande (v. 83). Altri, secondo a noi pare, più ragionevolmente spone: Per dolor ec. Per quanto senta dolore. I grandi, diciam noi, possono piangere sotto la potenza di più nobili affetti, che non d'un dolore cagionato dalla punizione; il quale inchiude l'idea di una passività che non fa onore ai forti. E pare che questo voglia dir Dante; altrimente la sentenza serpit humi ed è tanto volgare quanto indegna di quella mente sovrumana. 86. QUELLI per Quegli, siccome Elli, dissero gli antichi, per Egli.

CUORE per coraggio, fortezza, valore. SENNO, saviezza, ingegno, prudenza. Le due qualità che debbe avere un duce, qual si fu Giasone, nella conquista del Vello d'oro fatto a capo degli Argonauti. Arma virumque sono anche i due principali caratteri di Enea sperto in armi e per fortezza d'animo chiaro. Goffredo: Molto... oprò col senno e con la mano nell' impresa delle crociate. Di Giasone tocca anche il Poeta là (Parad. II, 16) dove dice:

Que' gloriosi che passaro a Colco

Non s'ammiraron, come voi farete, Quando Jason vider fatto bifolco. alludendo al fatto de' tori spiranti fiamme dalle nari, e ch' egli domò, aggiogò all'aratolo, e, lavorato con essi la terra, seminovvi i denti del dragone ucciso da Cadmo, de' quali denti vennero su degli

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uomini armati. Orazio, lib. V, od. III:
Ut Argonautas praeter omnes candidum
Medea mirata est ducem
Ignota tauris illigaturum iugo
Perunxit hoc Jasonem.

E questa fu la cagion della maraviglia de' Colchi; veder appaiati all'aratro gl'indomabili tori, Giasone fatto aratore, la strana semina ed il più strano prodotto.

Inf. VIII, 7. SENNO spiegasi per queste Veggasi ciò che si è per noi annotato parole di Dante stesso, le quali adduciamo dal Convito: Bene si pone Prudenzia, cioè senno, per molti essere morale vertù; ma Aristotile dinumera

quella intra le 'ntellettuali, avvegnac

chè essa sia conducitrice delle morali

vertù, e mostri la via, perchè elle si compongono, e sanza quelle essere non

possono.

87. FENE, fe. È lo stesso che l'antico e primitivo fee interpostavi l'n; siccome troviamo di ee, hae, fae, vae fatto ene, hane, fane, vane per è, ha, fa, va ec. Pannuccio del Bagno.

Savèn di certo che alcuna cosa
Tanto gentil nostro signor non fene.
così Dante Parad. XXVII, 33:

E
Per la stessa ragione Purgat.XXV, 42:

Pure ascoltando timida si fane.

Che a farsi quelle per le vene vane.

Nè son forme soltanto della poesia ; chè si trova nelle scritture antiche in prosa non pochi esempi, che qui non curiamo allegare.

Erra dunque il Bianchi con altri che chiosano FENE, ne fe. Bene il Tommaseo: FENE, fece; male aver posto l'accento sulla voce fène; sendo fe voce intera e originale dalla configurazione fere, come temere; il quale fa temè per non confondersi con teme terza del presente dimostrativo. Al nome fè per fede diasi pure l'accento, non al verbo che da sè lo scaccia.

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Tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta,

Che prima l'altre avea tutte ingannate. Lasciolla quivi gravida e soletta:

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Tal colpa a tal martiro lui condanna;
Ed anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna:
E questo basti della prima valle
Sapere, e di color che in sè assanna.
Già eravam là 've lo stretto calle

Con l'argine secondo s' incrocicchia,
E fa di quello ad un altr' arco spalle.
Quindi sentimmo gente, che si nicchia

90. MASCHI, mariti, dal lat. mas.-A morte dienno perchè addimesticatisi con le donne de' vinti nemici. MASCHI qui per uomini in genere. FEMMINE e MASCHI dice Dante pensatamente, per dinotare la sola diversità del sesso tra coloro che non operarono per ragione.

91. CON SEGNI, con cenni, atti significativi di amore. Petrarca:

Così colei, ch'è tra le donne un sole,
In me movendo de' begli occhi i rai
Cria d'amor pensieri atti e parole.

Gli antichi latini distinguevano tre ragioni di segni: se faceansi col capo chiamavano nutare, se con gli occhi nictare, se poi colle labbra, con le nari, o con le sopracciglia annuere. Onde Plauto Asinar. IV, 1, 39:

Neque illa ulli homini nutet, nictet, annuat. Giasone pose in opera tutti e tre questi modi.

PAROLE ORNATE (Inf. II, 67).

93. CHE... L'ALTRE AVEA INGANNATE: E sopra queste femmine di Lenno regnava Isifile, figlia del re Toante, la quale mossa a pietà del padre non l'uccise, ma occultamente lo mandò via alla fortuna de' venti in una navicella, e finse ardere il corpo di lui come se ucciso l'avesse. Così il Bargigi, il quale raccolse il meglio che si potette circa l'impresa degli Argonauti e i fatti di Medea. V. Apoll. Rhod., Valer. Flacco e Ovid. Met. VII.

98. PRIMA VALLE. Valle, vallo (v. 9)

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bolgia (v. 24) usati come sinonimi dal Poeta. Così come vallo e valle troviamo lodo e lode adoperati da lui stesso. V. Iuf. III, 36. E collo per colle, Parad. IV, 132 ec.

99. ASSANNA, afferra. Inf. XXXI, 142 seg.:

al fondo, che divora Lucifero con Giuda, ci posò,

La chiesa canta: Ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum. V. Inf. III, 41 nota, in fine.

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ASSANNA, afflige e tormenta. Bargigi. Serra e tormenta. Lombardi. Che ritiene tra le sue zanne, tra i suoi tormenti. Venturi.-ASSANNARE figarat. per costringere, rinserrare. Volpi.- Qui per metafora chiudere in sè, a fine di lormentare. Bianchi.

103. GENTE CHE SI NICCHIA. Nicchiare è propr. fare il rammarichio delle gravide che son presso al partorire, Lat. parturire. La voce è fatta da' nicchi o gusci delle conchiglie, che vive nell'acqua gemono aprendoli e serrandoli di tratto in tratto; sicchè per traslato nicchio significa quella parte del sesso muliebre, che bello è tacere. L'accenniamo solo, nell'intento di far notare ai lettori, quanto bene il Poeta adoperi questa voce, a significare il dolore de' ruffiani, uomini molli, vili ed infemminiti. Nicchiare è n. ass., il si deve anzi reputarsi ripieno che affisso.

Nell' altra bolgia, e che col muso sbuffa,
E se medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d' una muffa,
Per l'alito di giù che vi s' appasta,
Che con gli occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta

L'occhio a veder senza montare al dosso
Dell'arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo, e quindi giù nel fosso
Vidi gente attuffata in uno sterco,
Che dagli uman privati parea mosso:
E mentre ch' io laggiù con l'occhio cerco,
Vidi un col capo sì di merda lordo,
Che non parea s' era laico o cherco.
Quei mi sgridò: perchè se' tu sì 'ngordo
Di riguardar più me che gli altri brutti?

106. GROMMATE, incrostate, come di gromma le botti; ma le ripe della bolgia intanfivano della grave muffa che vi si appastava od appiastricciava.

107. PER L'ALITO DI GIÙ. ALITO, peste; effluvio, o FIATO puzzolente. En. VI, 240 seg.:

talis sese halitus atris

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non sarà privajo (privato) al mondo sì puzzolente. E poco appresso: Si votano i privaj e le sozzure.

PAREA MOSSO, disceso laggiù, da' luoghi sotterranei del mondo, ne' quali si raccoglie e marcisce la fece umana. Barg. I delitti degli uomini corrono nello inferno come sozzure al ristagno del

Faucibus effundens supera ad convexa ferebat (a) la loro sentina. Dal nostro mondo si deS'APPASTA, s'appicchia. Barg.

108. CON GLI OCCHI... FACEA ZUFFA, faceva quistione con gli occhi e col naso, essendo essa orribile al vedere ed all'odorare. Barg.

110. Dosso, il sommo dell'arco del ponticello.- «Dosso, scoglio En. I: Dorsum immane mari summo. Significa forse che per bene osservare certi vizi e' bisogna allontanarsene; l' adulazione segnatamente cupa insieme e schifosa. Tommaseo »>.- E perchè i lusinghieri si hanno a guardar come cosa vile in basso luogo, dall' alto dove ha suo seggio la nobiltà della ragione, che non lasciasi contaminare dal tristo fiato.

114. PRIVATI. Privato, cesso, agiamento, destro. Fra Giord. Pred. XII: Ecco dunque costui pieno di puzza, che

(a) Uscia della sua bocca all'aura un fiato,
Anzi una peste.
Caro

riva Acheronte, Stige e Flegetonte, che se ne van giù fino allo stagno di Cocito (Inf. XIV): ma le colpe de' seduttori son significate per rivoli di cui sono schivi e l'occhio e il naso. Mosso. V. v. 17. ed Inf. II, 67.

117. L'INTERMINEI (v. 122) della stessa illustre famiglia di Castruccio. Cacciati da Lucca perchè tennero parte Bianca, e biasimati dal Vill. VIII, 45. ALESSIO. L' Antelminelli era cavaliere un che di mezzo tra chierico e laico. Tommaseo. Ma oltre il figurato della locuzione, Dante qui non si mostra troppo reverente alla cherica, e ne porge di poter sospettare che tra' seduttori e ruffiani vi fosse qualche chercuto coperto di quella pistolenza.

119. BRUTTI, bruttati, imbratlati, sudici. Così chiede il Poeta a Gaetano Argento anima ravvolta per superbia nel fango (Inf. VIII, 35):

Ma tu chi se', che si sei fatto brutto?

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