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In una borsa gialla vidi azzurro,
Che di lione avea faccia e contegno.
Poi procedendo di mio sguardo il curro,
Vidine un' altra più che sangue rossa,
Mostrare un' oca bianca più che burro.
Ed un, che d' una scrofa azzurra e grossa
Segnato avea lo suo sacchetto bianco,
Mi disse: che fai tu in questa fossa?
Or te ne va e perchè se' vivo anco,
Sappi che 'l mio vicin Vitaliano
Sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son Padovano;

Spesse fiate m' intronan gli orecchi,
Gridando: vegna il cavalier sovrano,

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pendenti dal collo degli usurai. Nota quel RIGUARDANDO esprimente ripetizion dell'atto,e quel VEGNO che vale vado,vo (come il lat. venire per ire) e congiunto al verbo lo rende frequentativo.

59 seg. La prima borsa era l'arme dei Gianfigliazzi, fiorentini usurai, e avea in campo giallo o d'oro, un lione azzurro. FACCIA e CONTEGNO, cioè apparenza ed alto del generoso e forte animale, che mal rappresentava la spilorcia e misera natura di que' cotali.

61. PROCEDENDO significa che il Poela notava l'una cosa dopo l'altra diligen

temente.

CURRO, discorrimento, bene il Bargigi. Scorrere dell'occhio, il Bianchi ec. Al Tommaseo piace notare che curro vale così cocchio come corso: speriamo ch'ei non voglia farci intendere che lo SGUARDO del Poeta venisse tratto in carretta. Divisiamo che corso intenda arcibenissimo; e ne aggiungiamo la ragione, che gli antichi presero non di rado la prima persona singolare del presente indicativo per nome della stessa nozione del verbo (Par. XV, 111) ed erro, comando, lodo ec. dissero invece di errore, comandamento, lode ec. Così da currere antico, per correre, si fece curro per corso, e nulla corre più veloce dello sguardo.

62. Un'altra borsa avea in campo rosso un'oca bianca: arma degli Ubbriachi di Fiorenza.

Alcuni leggono come sangue rossa; chè dir: più che sangue rossa non pare iperbole che si conceda al Poeta, come non dicesse egli altrove (Inf. II, 55):

Lucevan gli occhi suoi più che la stella. e simiglianti. Alla ripetizione più rossa, più bianca torcano il grifo a lor posta i pedantucoli. Come hanno molti testi.

64 seg. Quest' altro sacchetto era segnato d'un' azzurra scrofa grossa (pregna) in campo bianco. Arme della Famiglia degli Scrovigni, padovani.

66. FOSSA. Inf. XXIII, 53 e 56. V. Inf. III, 41 not. in fine.

68. VICIN di casa da Vicus. VITALIANO

del Dente, Padovano che vivea a'tempi del Poeta. E vicin, concittadino.

SEDERÀ V. v. 45. AL SINISTRO fianco, come più reo.

72. CAVALIER SOVRANO. Pietro di Dante chiosa: Ille a tribus hircis fuil Dominus Ioannes Buiamonte de Biccis de Florentia ladro usuraio il più famoso nel 1300. Detto SOVRANO Come Frate Gomita, vasel d'ogni frode, (Inf. XXII, 87) è notato con le parole:

Barattier fu non piccol, ma sovrano. cioè usuraio c baralliere in supremo grado.

Che recherà la tasca con tre becchi.

Qui distorse la bocca, e di fuor trasse
La lingua, come bue che 'l naso lecchi.
Ed io, temendo no 'l più star crucciasse

Lui, che di poco star m' avea ammonito,
Torna'mi indietro dall' anime lasse.
Trovai lo Duca mio, ch' era salito

Già su la groppa del fiero animale,
E disse a me: or sie forte ed ardito.
Omai si scende per sì fatte scale:

Monta dinanzi, ch' io voglio esser mezzo,
Si che la coda non possa far male.
Qual è colui, ch' ha sì presso 'l riprezzo

74-75. L'atto di storcer la bocca e trarre la lingua significa il dispregio in che tenuto era codesto cavalier sovrano. L'atto villano che si fa da mariuoli ed alle spalle di cui fintamente abbiano lodato, si chiama in nostra lingua Far bocchi. Il Macchiavelli ne' Canti carnascialeschi:

Le ci volgon le reni e fanci bocchi.

Si uccella altrui per altri due modi detti l'uno il collo della Cicogna e l'altro le orecchie dell'asino. Il Varchi nell'Ercolano 90: Dare il pepe... è un modo per uccellare e sbeffare alcuno, e si faceva... in questo modo: chi voleva uccellare alcuno se gli arrecava di dietro... e accozzati insieme tutti e cinque i polpastrelli (il che si chiama fiorentinamente far pepe ec.) faceva della mano come un becco di gru o vero di cicogna, poi li dimenava il gomito con quel becco sopra il capo... E questo i latini dicevano Pinsere ciconiam.

L'altro modo si faceva ponendo il pollice curvato accosto alla tempia, e distendendo la palma della mano per guisa, che s'imitasse le orecchia dell'asino: atto allusivo a Mida. Persio tocca di tutti a tre (Sat. I, 58 seg.):

0 Jane, a tergo quem nulla ciconia pinsit
Nec manus auriculas imitata est mobilis albas,
Nec linguae, quantum sitiat canis Appula tan-

tum (a)..

(a) Il Monti reca in italiano questi versi così: Te felice, o Giano,

A cui le terga non beccò cicogna, Nè del ciuco imitò mobile mano L'orecchie, nè la lingua siziente D'Apula cagna beffator villano.

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Si vede che quell'anima dannata potè solo far bocchi al Cavalier sovrano.

Is., LVII, 4: Super quem lusistis? Super quem dilalastis os, et ejecistis linguam? nunquid non vos filii scelesti,

semen mendax?

76. TEMENDO no'l più star ec. V. Inf. III, 80. Il testo del Bargigi ha: temendo che il più star crucciasse.

77. LUI CHE, colui che. M'AVEA AMMONITO, con le parole del v. 40:

Li tuoi ragionamenti sien là corti. 81. SIE si disse in tutte a tre le persone singolari del pres. cong. Quindi sieno, come da sia, siano che si rifiuta. In e si chiusero le voci sing. di quel tempo e modo; e sie si disse con ispezialità dal siem, sies, siet degli antichi latini. Albertano, cap. 2. Sia la tua mano sopra la tua bocca, acciò non sie ripreso a parola stolta. E cap. 38: Lo cuor tuo in tal guisa costrigni... che tu sie contento di te medesimo.

83 seg. Mezzo, medio, di mezzo. Da medius si fece mezzo, come da radius, razzo; rudis, rozzo ec. La Ragione ha suo luogo d'onore tra le armi della frode e l'Umanità:

Sicchè la coda non possa far male.

85-87. Bene acconcio paragone. La febbre della paura sembra veramente che tornasse per periodi ad assalire l'animo del Poeta. Riprezzo e ribrezzo è il brivido e la tremerella che si ha nell'accesso della quartana.

Della quartana, ch' ha già l' unghie smorte,
E triema tutto pur guardando il rezzo;
Tal divenn' io alle parole porte:

Ma vergogna mi fer le sue minacce,
Che innanzi a buon signor fa servo forte.

PUR GUARDANDO il rezzo, solo a guardare, nonchè stare all'ombra. Varianti sono: Che ha si presso il riprezzo; Che s'appressa al riprezzo.

Il Venturi spiega Pur guardando il rezzo: continuando pur lo stare all' ombra, non risolvendosi per pigrizia di levarsi da essa. Chiosa la vera secondo il Biagioli, ma che non istà secondo ciò che vuol dirsi nel testo: ed anche perchè sappiamo gli affetti da periodiche preferire i luoghi solatii ai bacii, e non esser sì matti, ch' ei si facciano sotto l'ombra sopraggiugnere dalla quartana.

86. Unghia smorte hanno molte stampe e così legge la Crusca: altre edizioni leggono unghie smorte. Il Marchetti,

Lucrez. Lib. V:

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O per l'adunche

Lor ugna i già tremendi arcadi augelli
Di Stínfalo abitanti.

E il Bellini, l'Ariosto, il Ricciardetto,
il Mauro, il Lippi, non ne furono schivi.
Il Buonarr. Fier. G. IV, Att. V, sc. XVII:
Gli orecchi pagonazzi e l'ugna livide.
G. V. Introd. sc. III:

Anch'io l'ugna ho che graffiano. e in più altri luoghi.

I grammatici ci recano esempi di vestigia, peccala, ed altri nomi provenutici da' neutri della seconda de' latini; ma altresì coppia, zona, orecchia, polpa, balestra, guancia, minugia, pera, unghia e ugna, fiumana, mina, tempia, fica, punta, sorba, cerasa, maglia, mascella, ora, saetta, via, fiata, persona, terra, giuntura, ruina, vista, pecorella, pecora, litania, boia, verba, legna, frutta, chiostra, briglia, mela, mora, guisa, pina, alia, gesta, nata, vigna ec. tutto che della prima declinazione e femminili, al numero del meno, si adoperarono fra gli antichi e da scrittori assai posteriori a Dante, anche colla stessa desinenza e genere, al numero del più.

i

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25:

Così il nostro Poeta, Inf. XXVIII, Tra le gambe pendevan le minugia. Ragione della identica uscita in ambi numeri è l'aver gli antichi tratte le desinenze de' nomi dagli accusativi latini onde da sagittam e sagittas, ungulam e ungulas ec. ne' primordi di nostra lingua si fece la saetta e le saetta; la unghia e le unghia ec. Il simigliante avvenne a' nomi della seconda, terza, quarta e quinta declinazione, i quali ritennero al plurale la stessa terminazione del singolare; dicendosi il servo, i servo; il padre, i padre; la mano, i mano ec. che non voglionsi più imitare. L'usanza ha fatto non pertanto buon viso a quelli che ci vennero dalla quinta: ed oggi diciamo la specie, la effigie, la superficie ec. e le specie, le effigie, le superficie ec. Nè mancano ancor di grazia alquanti della prima. Di unghia o Ugna, e Minugia usate da Dante, ecco esempi nella prosa: Il Salvini Disc. Accad. V,III, 196: Aggiunse alla definizione sopradetta (dell' uomo data da Platone) con l'ugna larghe - Il Varchi Ercol. Dubit. VI: Tratto da buoi e dagli altri animali, i quali avendo l'ugna fesse ruminano. Vit. S. Ant. E questo miscredente provoe lo sdegnamento di messer Domeneddio, perchè nello gire a zambra, uscittero a lui le minugia.

Nel contado s'odono tuttora dalla bocca de' calabresi adoperate al plurale pera, fica, sorba, legna, mora ec. il che ne fa fede che il dialetto calabro redò con gli altri alcune proprietà del materno linguaggio.

88. PORTE, dette (V. Inf. VIII, 112 nota).

LE PAROLE PORTE: vv. 81-84.

89-90. Qui Dante, parole d' un illustre comentatore, vuole fare intendere che da Virgilio in quel punto era rimproverato del preso timore, e che di ciò

I'm' assettai in su quelle spallacce:
Si volli dir, ma la voce non venne
Com' io credetti: fa che tu m' abbracce.
Ma esso ch' altra volta mi sovvenne

Ad alto, forte, tosto ch' io montai,

Con le braccia m' avvinse e mi sostenne;

E disse: Gerion, moviti omai:

Le ruote larghe, e lo scender sia poco: Pensa la nuova soma che tu hai. Come la navicella esce di loco

ebbe quella vergogna che suol render forte il servo innanzi a franco e valoroso signore. Primamente minaccia non è rimprovero: dipoi non è ragionevole rimproverar chi teme. Dante non appalesò il suo timore, ma si mostrò forte a Virgilio, come servo in cui la vergogna di esser tenuto vigliacco vince la paura, e lo fa parere animoso innanzi a valente signore. Le minacce è voce che vuol qui prendersi nel suo primitivo significato tratto dal lat. minare o minari che,giusta il Vossio,è pellere, pecus agere, onde menare per condurre, e minae la voce dell'aratore che guida i buoi al lavoro. E quindi fatto eminente per chi sta sopra e minore per chi è soggetto. MiNACCE intendansi adunque le parole di Virgilio:

Or sie forte ed ardito, Omai si scende per sì fatte scale: parole che furono di forte stimolo al nostro Poeta, e di gran vanto pel suo duca; il quale,come l'eroe della Gerusalemme:

Ciò che alma generosa alletta e punge, Ciò che può risvegliar virtù sopita, Tutto par che ritrovi, e in efficace Modo l'adorna si, che sforza e piace. 94-96. Questa terzina dà luogo a diverse sentenze, secondo la varia interpunzione e il significato differente, in cui tolgonsi le parole:

Ma esso che altra volta mi sovvenne
Ad alto, forte, tosto ch'io montai,

Con le braccia m'avvinse e mi sostenne. È la lezione della Crusca confermata dalla più parte de' MSS. esaminati da G. B. Nicolini ec. Anche il cod. Cassinese ha AD ALTO FORTE, come leggono il Lombardi e il Costa; intendendo AD ALTo, in più alto luogo, come verbigrazia nel V cerchio, Inf. IX, 58 ec. e dando

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FORTE Come avverbio ad AVVINSE e soSTENNE. Al Cesari piacque AD ALTRO FORTE, come al Torelli e al Tommaseo: lettera approvata dal Bartoliniano, dal Patavino 316, e da alcuno de' testi esaminati dagli Accademici. Il Venturi chiosa: Fortemente m' abbracciò e mi sostenne allo, ond'io non cadessi nè traballassi. Il Volpi: AD ALTO: nel luogo di sopra. Il Bianchi: AD ALTRO: ad altro bisogno; e FORTE dà ad avvinse e sOSTENNE. La lezione prescelta dal Witte pel suo testo è AD ALTRO FORSE. Il Codice di Berlino (Bibl. Reale) ha: Tosтo cп'10 Forte, e similmente l'edizione di Mantova 1472: TOSTO FORTE CH'IO. Quelli che accettano la lettera: AD ALTRO FORTE O AD ALTO FORTE prendono la voce FORTE sustantivamente per difficoltà, periglio cc. Il Bargigi tien la lezione della Crusca; ma il FORTE prende o come aggiunto al PoeVINSE; così chiosa: Tosto ch'io fatto forta io forte, o dàllo come avverbio ad AVte ed ardito montai ad allo, tosto ch'io fui montato sopra questa bestia, ei m'avvinse, mi abbracciò e mi sostenne con le sue braccia. Possiamo ancora in altro modo dire, tosto ch'io montai ad alto, ei mi avvinse forte con le braccia e mi sostenne. Noi diciamo a tutti questi egregi:

Non nostrum inter vos tantas componere lites: Et vitula tu dignus, et hic.

(Virg. Ecl. III, 108 seg.)

100. ESCE DI LOCO. E può mai la navicella uscir d'onde che sia, ch'ella non si trovi in alcun loco? Questo loco non curarono d'intendere gli espositori. Loco dissero i nostri antichi dove per noi si dice quivi e di quel luogo, quasi in illo

In dietro in dietro, sì quindi si tolse;
E poi ch' al tutto si sentì a giuoco,
Là 'v' era 'l petto, la coda rivolse,

E quella tesa, come anguilla, mosse,
E con le branche l'aere a sè raccolse.
Maggior paura non credo che fosse,

Quando Fetonte abbandonò li freni,
Perchè l ciel, come appare ancor, si cosse;
Nè quando Icaro misero le reni

Senti spennar per la scaldata cera,
Gridando il padre a lui: mala via tieni;
Che fu la mia, quando vidi ch'io era
Nell' aer d'ogni parte, e vidi spenta
Ogni veduta, fuor che della fiera.
Ella sen va notando lenta lenta;

Ruota e discende, ma non me n' accorgo,
Se non ch' al viso e di sotto mi venta.
I' sentia già dalla man destra il gorgo

o de illo loco.Il Poeta si riferisce al v.19:
Come talvolta stanno a riva i burchi.
dunque di loco, qui vale di là, di riva.
Loco avverbio locale in sentimento di
là, colà, quivi ec. dal lat. illuc, come
l'antico franc. ilec, iluec, iloec, usarono
Brunetto Latini nel Tesoretto, Cap. VII:

Li fatti e le favelle
Rapportano alle celle,
Ch'io v'aggio nominate,
E loco son pensate.

E Cap. XI:

Che loco sia finata

La terra e terminata.

Fra Guittone, Lett. XXIII: Che non può già desiderio d'amore loco abitare, ove piacer non trova. Angeluccio Stor. Aquil. n. 36: Loco faciano consiglio. E molti altri esempi che trasandiamo.

102. SI SENTÌ A GIUOCO, si sentì libera a giuocare e muovere senza opposizione il remigio delle branche, della coda ec. per far la voltata e le sue ruote. Giuoco per ispazio ove si può giocare. Non gio

ca si dice da' contadini a che che sia impedito di fare il suo movimento; alle braccia p. es. strette in maniche troppo misere. Dicesi l'uccello esser a giuoco, quando è in luogo sì aperto, che possa, ove che si voglia, liberamente volgersi e spaziare.

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106. MAGGIOR ec. Lega questo comparativo al CHE del v. 112. La favola di Fetonte ti fia ricordata da Ovidio (Metamorph. II, 47-324). Il Nostro allude spezialmente a que' versi (178-180): Ut vero summo despexit ab aethere terras Infelix Phaeton, penitus penitusque jacentes Palluit, et subito genua intremuère timore. D'Icaro V. ivi VIII, 183-235.

109. Orazio Lib. IV, Od. II. Dice che farebbe il volo d'Icaro chi emulasse Pindaro:

Pindarum quisquis studet aemulari,

Jule, ceratis ope Dedalea
Nititur pennis vitreo daturus
Nomina ponto.

113-114. VIDI SPENTA OGNI VEDUTA, fuor che della FIERA. Per ragion fisica. La luce nel vacuo non riflettea d'altron

de. Questa luce già pur tenuissima non vi potea essere che debolmente riflessa,

emanando dalle fiammelle cadenti sul sabbione. La proda neppur vedevasi: dunque immenso era il vano del burrato.

117. Magistralmente qui il Tommaseo: VENTA: pel moto dell'animale sente vento AL Viso, pel moto dello scendere lo sente sorto.

118. GORGO dal lat. gurges, tonfano, luogo dove ne' fiumi è più profonda l'acqua. V. Inf. XIV, 115-449.

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