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Ove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma 'l venir e 'l sermone

Più lungo esser non può, però ch' io veggio
Là surger nuovo fummo dal sabbione.

Gente vien, con la quale esser non deggio:
Siati raccomandato 'l mio Tesoro,

Nel quale io vivo ancora, e più non cheggio.
Poi si rivolse, e parve di coloro

Che corrono a Verona 'l drappo verde
Per la campagna; e parve di costoro
Quegli che vince, e non colui che perde.

CANTO XVI.

Estremità del terzo girone e del settimo cerchio. Colloquio con Iacopo Rusticucci.

Già era in loco, ove s' udia 'l rimbombo
Dell' acqua, che cadea nell' altro giro,
Simile a quel, che l' arnie fanno, rombo;

ta da Bonifacio VIII, ad istanza del fra-
tello di sua E. R.ma, a fine di allonta-
nare dalla famiglia tanto vitupero.

114. LASCIO I MAL PROTESI NERVI. Intendono i comentatori: morì. Il Monti: «Penso che nervi mal protesi qui non significhi già tutto il corpo mal proteso, ma quella parte del corpo ch'è bello il tacere, e di cui quell'antico Monsignore fece tanto mal uso. Togli questa frase di dosso a quel personaggio e lasciare i nervi per lasciare il corpo, ossia morire diventerà frase di sciocco sapore e indegna di Dante» (Proposta). Oltre a questo, pare il Poeta ne dia ad intendere che quel cotale allora lasciò il vizio, quando morì. 119. Il Tesoro e il Tesoretto son due opere del Latini. La prima scritta in francese e poi volgarizzata da Bono Giamboni Fiorentino contemporaneo di Ser Brunetto; la seconda composta in versi toscani dall'autore. Notisi intanto che Dante fa parlare Messer Brunetto quasi con quelle stesse parole onde questi, dedicando il Tesoretto a Luigi IX re di Francia, gli dice:

To Brunetto Latini,
Che vostro in ogni guisa
Mi son senza divisa
A voi mi raccomando; (a)

(a) Vi saluto.

Poi vi presento e mando (b)
Questo ricco Tesoro,

Che vale argento ed oro;
Si ch'io non ho trovato
Uomo di carne nato,
Che sia degno d'avere,

Ne quasi di vedere,
Lo scritto ch'io vi mostro
In lettere d'inchiostro.
Ad ogn'altro lo nego,

Ed a voi faccio prego
Che lo tegnate caro.

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Dante, che seppe quanta stima il suo maestro facesse del proprio lavoro, lo induce a parlare, anche in Inferno, per modo, che addimostrisi geloso d'uno scritto che, a sua opinione, dovea rassicurargli l'immortalità del nome. A così fare è indotto il nostro Poeta dalle ragioni dell'arte, che vuole servato nella Čommedia il carattere delle persone.

1. GIÀ ERA IN Loco ec. I poeti son per discendere nell'ottavo giro, ch'è il II dei tre cerchietti dove van puniti i Fraudolenti, e ch'è scompartito in dieci bolge (V. Inf. XI, 17 nota). Dice era, per fare arguire che il dismontare in quel burrato non a Virgilio, ma solo a lui mettea paura.

3. ARNIE, i bugnoli, le cassette delle pecchie, gli alveari, fig. pel ronzìo, su

(b) Affido, consegno: latinismo.

Quando tre ombre insieme si partiro,
Correndo, d'una torma che passava
Sotto la pioggia dell' aspro martiro.
Venian ver noi; e ciascuna gridava:
Sostati tu, che all'abito ne sembri
Essere alcun di nostra terra prava.

Aimè, che piaghe vidi ne' lor membri

Recenti e vecchie dalle fiamme incese!

Ancor men duol, pur ch' io me ne rimembri.

Alle lor grida il mio Dottor s' attese,

Volse 'l viso ver me, e: ora aspetta,
Disse; a costor si vuole esser cortese:

surro, rombo o suono confuso, a cui è assomigliato lo scroscio delle acque di Flegetonte, che cadevan giù pel burrato del cerchio, ottavo di tutto l'inferno.

Son varianti d'antichi codici (V. il Cassin. ed. 1865) larne o l'arne, l'ape, l'api, e per sino arme che hanno tre del 1472, e quello della Bibl. real. di Berlino. Arnie è la lez. comune tratta dall'ediz. del Burgofranco, Ven. 1529 e del Rovellio, Lion. 1551. Il Bargigi dice che in alcuni libri ch' egli vide, il testo porta arvie, ch'è la lettera da lui accettata, e difesa dal Zacheroni: Io, dice questi, son d'avviso che la vera lezione sia quella del nostro testo (Bargigiano), ritenendo, che gli antichi scrivessero indistintamente arvie ed avie sinonime di pecchie... e credo che il mutamento della voce arnie in arvie sia stato occasionato dall' aver scambiato la v nella n, cosa facilissima ad accadere leggen do negli antichi codici manoscritti, nei quali quelle due lellere si rassomigliano tra loro. Il codice di Mantova 1472 che ha l'ape, e le lez. varior. del Witte che han le api, rendono più probabile la lettera tenuta per vera dal Zacheroni.

4. SI PARTIRO, si partirono, si separarono o divisero d'una lurma o torma. V. Inf. III, 89 not.

5. TORMA O TURMA, come si legge in antichissimi codici, val qui schiera, masnada, una di quelle compagnie che andavano sotto la pioggia del fuoco pel sabbione: ma turma è proprio squadra

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di soldati, e si prende per una moltitudine qualunque. Il Tasso (Ger. liber. IV,4): Tosto gli dei d'abisso in varie torme Concorron d'ogn'intorno all'alte porte ec. V. Inf. XV, 16. III, 120 note.

mente disser gli antichi offenso in vece 11. INCESE per incense,come inversadi offeso (Inf. V, 109). Non pare, come vorrebbe il Lombardi ec. venisse da in e caedere, ma da incendere, che ha incensus,fatto inceso per la detta ragione. InCESE attribuiscon taluni a PIAGHE, altri a Bianchi tra i secondi. Or come incendeFIAMME. I Tommasco è tra i primi, il re è infiammare, accendere, bruciare, sembra che il dir fiamme incese varrebbe fiamme infiammate, bruciale, accese; e le fiamme son per se stesse vive e non spente, e sarebbe un pleonasmo insopportabile di dirle infiammate ec. Al contrario LE PIAGHE incese è ben detto, si da diverse cagioni, Il son effetto delper significare che potendo esse produr

l'eternale ardore.

12. PUR CH' 10 ME NE RIMEMBRI, modo equivalente agli altri nel pensier rinnova la paura (Inf. I, 6.); ancor mi raccapriccia (Inf. XIV, 78): e, per tacer di molti che si trovano nella Divina Commedia, a questo:

Disperato dolor ch'il cor mi preme,
Già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
PUR, solo, soltanto ec.

15. SI VUOLE,si conviene. Si vuole,espresso così in modo assoluto, esprime la volontà di chicchessia, ed è

decreto e legge

Ciò che il consenso universale elegge.

E se non fosse il fuoco che saetta

La natura del luogo, i' dicerei

Che meglio stesse a te, ch' a lor, la fretta.
Ricominciar, come noi ristemmo, ei

L'antico verso; e quando a noi fur giunti,
Fenno una ruota di sè tutti e trei.
Qual suolen i campion far nudi ed unti,
Avvisando lor presa e lor vantaggio,
Prima che sien tra lor battuti e punti;

Ecco la ragione ideologica di questa fra-
se toscana bellissima, che dice si vuol fa-
re come il latino faciendum est,che im-
porta dovere e necessità di fare una cosa.
17. DICEREI, direi. V. Inf. III, 45 not.
18. Meglio stesse a te ec, s' appar-
tenesse, toccasse, convenisse più a te
CHE A LOR LA FRETTA. Questo STARE così
costruito ha la forza del latino decet,che
in Plauto regge anche il terzo caso, in
senso di convenit, honestum est ec. Gl'i-
taliani dicon delle vestimenta: questo ti
dice (decet), li sta bene ec. locuzione
che venne poi trasferita agli abiti morali.
FRETTA allude al si partiro correndo
(vv. 4, 5). La sentenza è: dovresti anzi
tu ire incontro a loro, dove non tel vie-
tasse la pioggia del fuoco. Fretta è
pro-
prio dell'andar con passo celere. Purga-
torio III, 10:

Quando li piedi suoi lasciar la fretta ec.

20. VERSO, il lamento e le voci che sotto il martirio del fuoco mandavano i miseri (Inf. III, 34 not.).

FUR GIUNTI... FENNO: nota corrispondenza di tempi.

21. TREI Senza usar nessuna licenza disse il Poeta per tre; siccome i Provenzali ebbero trei da' Latini, che dissero omneis per omnes, monteis ec. per monles ovvero omnis, montis ec. facendo prevalere ed allungando la seconda delle due vocali. Cotal finimento in eis era appo quelli massimamente ricevuto in que' nomi o adiettivi, i quali aveano al genitivo plurale la desinenza ium; laonde Tres che ha trium dovette in antico tenere al quarto caso (della 3a) treis, tris e tres; da cui venne certamente il trei di Dante e de' provenzali, il tri che vive

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ancora nella lingua de' nostri contadini, e il tre rimasto più favorito nella lingua comune. (Vedi il Nuovo Metodo vol. I, Decl. Reg. 44 e il Nann. Anal. crit. verb. pag. 148).

22. SUOLEN è tronco di suoleno, e questo regolarmente formato come tutte le terze persone plurali dalle singolari rispettive: poichè, anticamente, da ame, teme, sente con l'aggiunta del no si fece ameno, temeno, senteno; e così da suole,suoleno e suolen. Ancora, trovansi tra i primi scrittori e in quelli de'secoli susseguenti veden, creden, lucen, amen, seguen per vedon, credon, lucon, aman ec. e combatleno, nasceno, consenteno ec. in luogo di combattono ec. Diceno, esceno ec. vivono ancora nel vernacolo napolit. e calabrese. Varianti: Soleano ha il Bargigi. L'accettano col Venturi e col Volpi,il Biagioli,il Tommaseo ec. Solieno legge il Codic. Cassin. e il Filippino (sec. XIV). Suolen è della Nidob. e comune. Sogliono o soglion hanno anche le lez. del lo del De Romanis, Rom. 1822. Suoleno, Witte, il cod. Caet.Sermon.in Rom.e quelsogliono toglie la sconcordanza de' tempi: poichè si ha suoleno e sieno; non così standovi soleano... sieno. Il Biagioli vede nel solieno il tempo de' pugili e dei palestriti, e nel sieno la forma del presente che pone sotto gli occhi le loro lutte. Ai tempi di Dante i ludi atletici vigevano in Francia non già in Italia,dove il Papa vietavagli saviamente. Il Tommaseo, che questo nota, accetta soleano e non suolen. Noi vorremmo appigliarci alla lettera del cassinese solien che facilmente si potette mutare in suolen. Ma come allora sien battuti e punti si concorderà? Perocchè regolarmente sareb

Così, rotando, ciascuno il visaggio

Drizzava a me, sì che 'n contrario il collo.
Faceva ai piè continuo viaggio.

E, se miseria d' esto loco sollo
Rende in dispetto noi e nostri preghi,

besi dovuto allora porre non sien, ma
fossero, in corrispondenza di solieno
o soleano onde con tutta la studia-
ta ipotiposi Biagioliana noi accettia-
mo suolen per sogliono. Che poi i lu-
di atletici non fossero in Italia ma in
Francia, ciò non fa nulla, perchè il tem-
po presente non debb'essere solo per l'I-
talia che per la Francia non fosse: e il
Poeta fa di simil guisa de' paragoni con
cose lontane le mille miglia dalla sua
patria.

28. SOLLO vari variamente intendono. Contrario di sodo, denso, pigiato, calcalo,epperò cedevole, soffice, molle,qual suol esser la rena, l'interpretano il Venturi, il Volpi, il Lombardi, il Bianchi, il

Tommaseo ec.

SOLLA dicesi la neve caduta, prima che si comprima e s'induri, e sora per sola o solla è aggiunto che danno i Lombardi alla detta neve recente, e a simil

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cava, o che sia di altra materia che di marmo piena. Il loco sollo di Dante nulla osta che non possa significare luogo tutto quanto esso è non altro che rena, detto perciò sabbione. Potrebbe anco la neve dirsi solla per questo,che i suoi fiochi o falde cadute recenti sono ancor pure d'ogni altra mescolanza. Che se poi sol in brettone val basso, profondo,il vocabolo può essersi originato dall' osco sollus, da cui venne solidus, massiccio, duro; poichè la profondità è una dimensione delle tre che ha un solido. Non sarebbe special ragione di chiamar profondo il solo sabbione; e perchè l'inferno è detto tutto profondo, massime da Dite al foro del Cono; e sì ancora, perchè più profondo e più spaventevole di questo loco è il Burrato, dove cadono le acque di Flegetonte. Tuttavia la durezza fatta solla non si può intendere orgoglio umiliato come dice il sig. Mazzoni Toselli, ma una renilenza vinla, una volontà ritrosa divenuta arrendevole e cedevole: sicchè, quando il Poeta abbia ne' due luoghi adoperata la voce con identico significato, la comune degli espositori che dicon sollo, contrario di sodo pare che sia dalla parte del vero.

29. RENDE IN Dispetto ec. Senza dubbio è lo stesso che dire rende spregevoli ec. ma ciò è guardar grossamente la frase e cavarne alla meglio la sentenza

che ne viene insinuata comechessia da quel che più o meno si voglia dire lo scrittore. Rende in dispetto noi e nostri prieghi. Rende non pare possa venir qui in altra accettazione, che o di far diventare,ovvero di restituire e rigettare (Lat. reddere per rejicere ec.). Nel primo caso Rende in dispetto farebbe questa sentenza: LA MISERIA del luogo, cioè il luogo infelice, ove noi siamo, muta in disprezzo noi, cioè i nostri nomi,e le nostre preghiere, che in altro tempo eran tullo pregio ed onore. Nel secondo caso: Il luogo misero è cagione che i nostri

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Cominciò l'uno, e 'l tinto aspetto e brollo,

La fama nostra il tuo animo pieghi

A dirne chi tu se', che i vivi piedi
Così sicuro per lo 'nferno freghi.
Questi, l' orme di cui pestar mi vedi,

Tutto che nudo e dipelato vada,
Fu di grado maggior, che tu non credi:
Nepote fu della buona Gualdrada:
Guidoguerra ebbe nome, ed in sua vita

nomi (No) e le nostre preghiere si ribullino (IN DISPETTO) con dispregio. DiSPETTO, dispregio ec. V. Inf. X, 36. XIV, 71.

30. BROLLO, secondo il Bargigi vale bruciato e collo dal fuoco: analoga significazione al brûlè de' francesi. Spogliato, nudo, scorticato, impiagato son le nozioni che il Bianchi, il Volpi, il Lombardi ec. legano a questa voce. Il Tommaseo conforme a loro spone brollo per scorticato dal fuoco. Inf. XXXIV: La schiena

Rimanea della pelle tutta brulla. I contadini della mia terra natìa, Montepaone, che serbano ancor vive moltissime voci, quasi reliquie della Magna Grecia, dicono vruddu per vrullo o brullo al giunco, gr. Spacy, che i Latini chiamarono scirpus, ed ebbero il proverbio: Nodum in scirpo quaeris, sendo schietto il giunco, cioè senza nodi e liscio. Brollo è spiegato in sentimento di nudo e dipelato, nel verso 35; ove lo stesso Dante pare che faccia il comento di questo luogo.

33. Freghi i vivi pIEDI (v. 3) per l'inferno e ora su per gli argini di pietra. Fregare i piedi per un luogo val qual cosa dippiù del semplice passarvi che notano i lessiografi: è almanco stropic ciarli e consumarli alquanto in camminando.

Si dice PESTAR L'ORME (v. 34) e L'ARENA TRITA (v. 40). Si noti con quanta vaghezza,varietà e proprietà di espressione. Le anime che non hanno i piè che d'ombra e non vivi (33) pestano l'orme e tritano l'arena; ma non fregano, nè sono come que' di Dante, che muove ciò ch'ei tocca,e Chirone a tale indizio lo ricono

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sce vivo, e lo addita ai compagni (Inf. XII, 80).

34. Pesta val quasi pesta terra; ed è propriamente l'impressione del piede che la fiera, o bestia, lascia in camminando. Nota che qui si parla di uomini che peccarono di libidine contro natura. PESTAR LE ORME dice qui Dante, siccome poco appresso l'arena trita. La locuzione ritrae dal vestigia pressit di Virgilio (En. VI, 197); comecchè poi dica eziandio v. 331:

Constitit Anchisa satus, et vestigia pressit, Multa putans, sortemque animo miseratus iniche ti fa veder l'eroe ristar pensoso ri(quam. calcando, senza dar passo innanzi, le sue stesse pedale.

37. BUONA GUALDRADA. Gualdrada figlia di Bellincion Berti nobile fiorentino è detta buona perchè virtuosa, e perchè con franco valore, dicono dinanzi ad Ottone IV, che sperava dalle parole di Bellincione ottenerne un bacio da lei che bellissima era, si levasse in piedi e dicesse allri che suo marito non la bacevecchio (b) venuto in Italia con Ottone I, rebbe (a). Fu ella moglie di Guido il d'onde la casa de' Conti Guidi signori del Casentino ec. Di Gualdrada e Guido nacque un Ruggeri, e di questo fu figlio Guidoguerra, detto perciò nipote della

Gualdrada.

38. GuidoguerRA eccellentissimo nell'arte militare e di gran senno. Al suo

XVI, 99); se vera fosse l'inonesta promessa, ed (a) Bellincione è lodato nel Paradiso (XV, 13, egli sarebbe giù coi ruffiani nell' VIII cerchio (Inf. XVIII). Fu forse una novella sparsa tra la gente che fa di ogni laidezza capacii cortigiani, i quali non di rado sacrificano l'onestà al potere. (b) Guido il Vecchio morì nel 1213.

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