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Chè in la mente m' è fitta, ed or m' accuora
La cara e buona imagine paterna
Di voi nel mondo, quando ad ora ad ora
M'insegnavate come l' uom s'eterna:

Primamente è da considerare che Dante non era un pinzochero, nè un frate che pregasse Dio per il prolungamento dell'altrui vita; secondamente il verso 58 con quello che qui si dice non ha la benchè minima connessione, e basta la più lieve attenzione per esserne chiaro. Se fosse pieno tutto il mio dimando è una locuzione deprecativa che vale: Così foss' io pienamente appagato di quello ch' io dimando; fosse compiuto il mio desiderio, cioè di giungere alla meta del mio viaggio: come voi vivereste ancora, se non foste stato anche cittadino di Fiorenza, in mezzo a quel popolo che tiene ancor del monte e del macigno, tra quella gente avara, invidiosa e superba la quale dite che per mio ben fare mi si farà nemica. Ed infatti anche Ser Brunetto esulò in Francia dopo la sconfitta de' Guelfi a Montaperti addì 4 settembre 1260, nè fu ribandito che verso il 1269. L'esiglio, il dolore di veder la sua patria qual'egli la descrive a Dante, la memoria de' torti ricevuti non gli poterono rendere più allegri gli altri ventinove anni che visse dipoi; e morì poco più che settuagenario st per tempo, rispetto sì a parecchi altri anni che avrebbe potuto campare (a).

Quando Dante scriveva era esule, e forse ne' momenti più tormentosi di sua vita; è quindi naturale che rispondesse

al suo Maestro: E ancora voi non sareste morto o non sareste morto ancora, sottintendendosi quante volte non fosle stato come me fiorentino: con che viene a di

(a) Brunetto nacque nel 1220 e probabilmente un pò prima: avendo il Biscioni trovato, che una figliuola di lui andò a marito nel 1248. Si tiene che venisse sbandeggiato poco dopo il 4 settembre dell'anno 1260 che avvenne la rotta de' Guelfi in Montaperti. Tornò in patria verso il 1269, quando il nostro Dante, che nacque il 14 maggio 1265, era bimbo di quattro anni. Il Latini visse dipoi altri 29 anni e potette bene al suo alunno insegnare come l'uom s'eterna. Sopra tali date abbiamo appoggiato il nostro computo.

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re che quel popolo era la cagione onde venissero agli onesti e valorosi uomini scorciati i loro giorni. Movevano dall'animo del poeta questi sfoghi contro la sua patria; ed hanno tanto di poetico, quanto d'inane tra la robustezza e gravità de' pensieri precedenti, uscirsene in mezzo e dire: Se Dio avesse accolti i miei prieghi, voi sareste ancor vivo. Giaculatorie e proferenze da femmine o da spigolistri!

Ad afforzare il già detto facciamo riflettere, che il costrutto stesso non comporta l'interpretazione contraria alla nostra. Imperciocchè trovandosi Brunetto già morto, Dante avrebbe dovuto dire non già: se fosse pieno... il mio dimando, ma, se fosse stato pieno il mio dimando; conciossiachè si tratti di cosa passata, non mica futura (b).

Dante non isgrammaticava e al proposito ne fa fede quell'altro luogo (Inf. V): Se fosse amico il re dell'universo

Noi pregheremmo lui per la tua pace dove non dice: se fosse stato... preghe

remmo.

Dippiù; che cosa era tutto il mio ditulla la mia preghiera! Tutto il dimanmando? Strano sarebbe intenderlo per do di Dante era di compire tutto il viaggio, non solo cioè quello dell'inferno ove già trovavasi; ma eziandio del Purgatorio e del Paradiso; tre viaggi parziali e distinti; ma che furono come parti d' un viaggio unico e solo; tre elementi che integravano la sintesi della sublime visione. Anche Francesco Ismera (1290): Ed io m'appago se Dio adempiessimi

La speranza, la quale io mecò ho sempro. V. Inf. X.

82. Simigliante locuzione a quella di Virgilio (En. IV, 4): haerent infixi pectore vultus ec.

(b) Non ignoriamo che talvolta fosse ec. imperf. soggiuntivo si trova usato per piuccheperfetto; cioè per fosse stato dal fuisset de' latini; ma alle arrecate ragioni, aggiungiamo che qualche eccezione non costituisce una regola, siccome un fiore non fa primavera.

E quant' io l'abbo in grado, mentre io vivo, Convien che nella mia lingua si scerna.

86. ABBO è da Abbere (Lat. Habere) che in antico si variò nelle sue regolari cadenze come gli altri verbi. Però si disse: abbo, abbi, abbe, abbemo, abbete, abbono, nel pres. indic.; e così secondo gli altri modi, tempi e persone. Si hanno esempi negli antichi scrittori, in poesia e in prosa; da farsi certo, che il nostro Poeta, usando abbo per ho, non abbia creduto dir meglio, nè più ornatamente; ma seguito l' indole nativa del proprio linguaggio. Fra Guitt.:

Com'eo faccio e fatt'abbo.
Meo Abbracciavacca:

Tanto mess'abbo nel tuo cor lo meo.
Ser Manno:

Però inver di voi abbo gran campo.
Montuccio Fiorentino:

Io spregio poi vincendo lo mal ch'abbo.
Brun. Latini, nel Tesoretto, Cap. X:

Io t'abbo ragionato

Sì ch'io t'abbo contato ec.

Folgore da S. Gemignano, son.:
Ecco prodezza che tosto lo spoglia
E dice: amico, e' convien che tu mudi
Perciò ch'i' vo' veder l'uomini nudi
E vo' che sappi non abbo altra voglia.

Nella vita di S. Zacch.: Or mi credi ch'io abbo veduto in lui opere, le quali eccedono ogni facoltà umana.

Ammaestr. ant.: Ripenso la sera a quello che io lo di' abbo detto.

Lucano Volgarizz. antic. Vo' sappiale bene com'io abbia avuto mercede (pietà) delle genti ch'io abbo conquise, quando io sono stato al di suso,ch'io potea tulle uccidere.

Non è dubbio che abbia, abbi, abbiamo ec. voci tuttavia in onore, si partano dalla stessa origine, onde viene abbo.

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pubblicandolo sodomita; ed interpreti le parole e gli atti di riverenza usatigli come la più amara ironia (a). Ma Dante si professa poeta della rettitudine: egli farebbe a sè più torto che a Brunetto, simulando atti e parole men che sincere. Il suo rispetto pel Maestro è profondamente sentito: ma, separando l'oro dalla scoria, non può fare che nol ponga tra' sodomiti; del qual vizio il Latini era lercio, come ognun sapeva ed egli stesso tal si confessa, quando entrato in Montpellier,e gittatosi ai piedi d'un Frate, dice avergli di motto in motto contato i suoi peccati, e seguita:

Ahi lasso che corrotto
Feci, quand'ebbi inteso
Com'io era compreso
Di smisurati mali

Oltre che criminali!
Ch'io pensava tal cosa

Che non fosse gravosa

Ch'era peccato forte

Più quasi che di morte. (Tesoretto) Questo peccato forte, dacchè dice egli medesimo di se:

Chè sai che siam tenuti

Un poco mondanetti.

cioè, era in fama di lascivo e corrotto;
non potè altro essere, se non quello, che
reputa di tutti il più grave tra quanti in
fatto di lussuria se ne commettano:
Ma tra questi peccati

Son vie più condannati
Que' che son sodomiti.
Deh come son periti
Que', che contra natura
Brigan cotal lussura!

Ti sembra un santo padre quando l'odi così parlare; ma sappiamo per infiniti esempi antichi e moderni che come Seneca e Sallustio cc. furono gli oratori di virtù che non ebbero; così molti vituperano i vizi di cui sono più sozzi. Dan

(a) Secondo verità credo, che mostrando Dante molto lodare Ser Brunetto lo vuol vituperare in perpetuo di tale infamia, che oscura ed ammorza ogni laude, e questo fa introducendolo mente parla Dante volendo essere inteso per lo tra i peccatori contro natura. E forse ironicacontrario di ciò che dice, perocchè forse avea Ser Brunetto sotto apparenza d'insegnargli scienza volutolo indurre in alcuna scelleranza. Così mi muovo a credere, attendendo Dante, il

qual promette rendergli premio secondo suoi meriti. Bargigi.

Ciò che narrate di mio corso, scrivo,
E serbolo a chiosar con altro testo
A Donna, che 'l saprà, s' a lei arrivo.
Tanto vogl' io che vi sia manifesto,

Pur che mia coscienza non mi garra,
Ch' alla Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova agli orecchi miei tale arra:

te prosegue la Monarchia di Dio; e non
lascia di percuotere il vizio dove che si
trovi; fosse anche ne' papi, ne' re e nel-
le persone a lui più care e congiunte di
parentela. Segue il consiglio di Caccia-
guida (Parad. XVII, 125-142). Il suo
grido percuote le più superbe cime. Se
così fatto non avesse per blandire agli
altrui vizi,ne sarebbe andata la sua fama:
E s'io al vero son timido amico
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico.
88. Corso, vita; nella quale l' uomo
non fa, se non correre continuatamente
al fine. È volgare la frase in tutto il
corso della vita. Dante disse pure:

Nel mezzo del cammin di nostra vita.
Ma e Virgilio (En. IV...) disse:
Vixi et, quem dederat cursum fortuna peregi,
e S. Paolo (Tim. II, IV, 7): Cursum
consummavi, fidem servavi ec.
Inf. X, 132. Virgilio dice a Dante:
quando sarai dinanzi a Beatrice:

Da lei saprai di tua vita il viaggio. Ed Orazio, pentitosi d'essere stato Epicureo, dice volere riformare la sua vita, con le parole (Lib. I, Od. XXXIV, 4):

iterare cursus.

SCRIVO. Ciò dice secondo l'insegna-
mento datogli dal suo Duca (Inf.X.127.):
La mente tua conservi quel che udito
Hai contra te.

é secondo che nella memoria le cose udi-
te o vedute quasi si notano per ricordar-
le come altrove (Inf. II, 8) il Nostro dice:
O mente che scrivesti ciò ch'io vidi.
E nel Paradiso (XVIII, 89 seg.):
ed io notai.

Le parti sì come mi parver dette.
89. CON ALTRO TESTO. Testo è pro-
priamente da texo e questo da tego, cuo-
pro. Il Poeta dice altrove (Inf. IV, 51):

E quei che intese il mio parlar coverto. Tale fu la tessitura delle parole di Messer Farinata (Inf. X, 79 segg.) allu

sive al duro esilio di Dante:

Ma non cinquanta volte fia raccesa

La faccia della donna che qui regge,
Che tu saprai quanto quell'arte pesa.

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Quel testo una con questo di Ser Brunetto (v. 61 e segg.):

Ma quell'ingrato popolo maligno

Ti si farà, per tuo ben far nemico. serba Dante a farlo chiosar cioè interpretare e dichiarare da Beatrice secondo che Virgilio (X,130 seg.) gli avea detto: Quando sarai dinanti al dolce raggio

Di quella il cui bell'occhio tutto vede Allor saprai di tua vita il viaggio. Epperò dice IL SAPRÀ chiosare. (v.90). 91. TANTO soltanto, solamente dal latino tantum in tale significanza. Ed in sentenza (dal v. 88 all'96) il Poeta dice: tengo a mente il vostro vaticinio e quel di Farinata ed è chi me gli dichiarerà: ma vo' solo sappiate ch'io starò saldo ai colpi della fortuna e de' vili.

92-93. Non mi garra ec. Son paralo a sostenere le avversità, ove non abbia di che rimordermi la coscienza. (V. Inf. XXVIII, 115 segg.). Egli si dice tetragono ai colpi di ventura, nel Paradiso (XVII, 19-24) alludendo proprio a queste predizioni fattegli da Brunetto e da Farinata. La sua vita onesta gli consente dice Orazio (Lib. I, od. XXII) da cui pala fortezza dell'animo, secondo quel che re imitata questa sentenza:

e

Integer vitae, scelerisque purus

Non eget Mauris jaculis neque arcu ec. quell'altro (Lib. III, Od. III): Justum et tenacem propositi virum Non civium ardor prava jubentium Non vullus instantis tyranni

. . ec.

Mente quatit solida. 94.ARRA.Mazzoni Toselli deriva questa voce dal Basco Arra in significato di palma, o da hara esiglio. Nelle Memorie celtiche, dic'egli, havvi herra, lo stesso che harra per odio, donde il francese che non era nuovo alle orecchie sue il hair, odiare. Sicchè Dante vuol qui dire: premio o la palma che Firenze dava ai benemeriti cittadini, o l'odio o l'esiglio che le persone virtuose si acquistavano. Altri prendono ARRA per predizione ch'è,

Però giri Fortuna la sua ruota Come le piace, e'l villan la sua marra. Lo mio maestro allora in su la gota

Destra si volse 'ndietro, e riguardommi; Poi disse: bene ascolta chi la nota. Nè per tanto di men parlando vommi Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni più noti e più sommi.

rispetto al fatto che doveagli incontrare, come un'anticipazione, una caparra o un pegno, qual suole darsi, ancora oggi, in conferma di voler divenire alla solennità d'un futuro contratto.

MARRA e VILLAN son parole con le quali allude il Poeta alle bestie fiesolane di cui (v. 62) dice che tengono ancor del monte e del macigno.

95. Nel VII, 96 di questa cantica dicesi della Fortuna:

Volve sua spera, e beata si gode. La frase: che la fortuna volva o giri sua rota o spera, dev' essere tanto antica, quanto il culto prestato alla volubile deità pagana; ma prima di Dante avea qià detto Lapo degli Uberti:

Ben potrai dir (tu,o Canto) ch'è la ventura data A farti più d'onore

Che facesse ad alcun poi (dappoi che) volse rota. Guido Cavalcanti (nota modo):

Trovar non posso a cui pietate chieggia, Mercè di quel Signore (Amore) Che gira la fortuna del dolore. 97-98. SULLA GOTA DESTRA ec. Virgilio in questo atto volse le spalle a Ser Brunetto. E poichè SI VOLSE ne dà ad intendere che sull'argine precedeva il nostro Poeta. (Inf.XVI.91). Quel volgersi a destra ben s' avvisò il Tommaseo essere atto di fausto augurio (Parte fausta). La voce riguardomm,ch'è il respexit de’latini,è anche solenne a tal uopo,e rincalza la nota dell'illustre comentatore.

99. BENE ASCOLTA CHI LA NOTA; Quasi dica fanne profitto a suo tempo; conciosiachè a molli, prima che provino il male, lor pare che molto pazienti sarebbero a sostenerlo; ma quando il tempo è venuto, allora più si lasciano atterrare che gli altri. Il Venturi, il Volpi, il Lombardi, il Bianchi, il Tommaseo ed altri intendono che Virgilio lodi il

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suo Alunno di aver tenuto bene a mente i suoi versi latini: Superanda omnis fortuna ferendo est (En. V.) e il Durale et vobis rebus servate secundis (En. I). A noi parrebbe poca modestia del Mantovano se così fosse; non opportunamente fatte le lodi a Dante di aver ricordato le sentenze de' savi per farne mostra con Ser Brunetto; ed oltracciò questi luoghi servire anzi a conforto di chi già si trovi involto nelle disavventure, che di colui al quale si fanno delle ingrate predizioni. Sta nel nostro pensiere che il proverbio BENE ASCOLTA chi la nota qui serva per avvertire il Fiorentino che stia ben sull'avviso per ciò che ha egli udito dirsi dal Latini. Così nel X canto (v. 127) gli è detto dallo stesso Virgilio:

La mente tua conservi quel che udito
Hai contra te.

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Ora che questi sente ripetere a Dante la stessa canzona, riassume nell' anzidetto proverbio quello stesso che prima aveagli detto con diverse parole. E tutto ciò par ch' ei faccia perchè il Fiorentino non dimentichi di consultarne Beatrice e provvedere alla sua pace. Ed egli ciò fa appunto (Parad. XVII,7) quando, incuorandolo Beatrice, recita quello che gl'incontrò d'udire copertamente di sua vita futura ed è Cacciaguida suo antenato che tutti glieli va esplicando. Dante ebbe desiderio di saperli (25):

Perchè la voglia mia saria contenta D'intender qual fortuna mi s'appressa; Chè saetta previsa vien più lenta. E per questo appunto quel che aveva già ascoltato ben tornavagli di tenerlo

a mente.

102. PIÙ SOMMI. Coi superlativi, e i latini, e i nostri antichi scrittori del secolo aureo della lingua non ischivaron congiugnere le particelle intensive.

Ed egli a me: saper d' alcuno è buono;
Degli altri fia laudabile tacerci,
Che 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci,

E letterati grandi e di gran fama,
D'un medesmo peccato al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,

E Francesco d' Accorso anco; e vedervi, S'avessi avuto di tal tigna brama, Colui potei, che dal Servo de' servi Fu trasmutato d' Arno in Bacchiglione,

105. A TANTO SUONO. A rispetto del lungo dire che si richiederebbe per contare di tutti. Dunque i sommi non son quelli solo, di cui si sa il nome; ve n'ebbe altri de' quali fu laudabil cosa tacersi.

106. CHERCI. Cherici i più intendono col Venturi e col Volpi per uomini di chiesa: il Vellutello ed il Rosa Morando pigliano la voce in sentimento di lellerati. I Francesi hanno clerch, e i nostri antichi usarono cherico per letterato, e laico per idiota. Altri dissero, per autorità del Du Fresne, clericus, essere stato un tempo preso in accezione di scolaro; ma Dante volea saper de' più sommi (v. 102). Il Biagioli è col Vellutello che piamente sforzossi purgare di questa macchia la chierisia. Al Poggiali non sembra che Dante abbia usata la voce in altro senso che di ecclesiastici, comunque deplori o l'atra bile del poeta contro il clero,o la depravazione di questo a quei tempi. La più erudita esposizione è quella di Mazzoni Toselli. Egli deriva la voce Cherco o Clerco dal Gallese Cler, che significa abile in qualunque arte, nella quale accettazione fu clerc nell'antico francese. Fu adoperata in lingua furbesca per professore dell'arte nefanda. Sicchè il

Sappi che tutti fur cherci non altro vuol dire, se non che:

Sappi che tutti fur sodomiti. L'Imolese rincalza l'opinione del Toselli; rifiutando al vocabolo le altre significanze di letterato, o di prete o di scolaro.

Ma questi valentuomini non si addan

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no di cader della padella nel fuoco; dappoichè a salvar l'onore de' chiesastici dicono di belle cose assai; ma fan concludere che i chercuti furon tanto di quel vizio insozzati, quanto che bastasse poi proferir quel nome per intendere antonomasticamente i violenti contro natura.

108. LERCI, Sozzi, maculati e corrotti.

109. PRISCIANO. Grammatico soprano, il quale essendo monaco professo, apostatò, uscendo del monastero ed abbandonando la religione. Barg. Fu di Cesarea di Cappodocia e visse nel VI secolo dell'Era cristiana.

110. Francesco d'Accorso Fiorentino, giurista di gran fama, e autore della Glossa alle Leggi di Giustiniano: Morì nel 1229.

111. TIGNA, è qui, a nostro credere, da prendersi anzichè per noia, come intende la Crusca, per cosa sozza e schifosa,

Poeta dice altrove (Inf. XI, 60): cioè uomini tignosi e immondi. Il

Ruffian, baratti e simile lordura. E TIGNA per tignosi par che dica a significare le croste, che la pioggia del fuoco facea sul capo de' sodomiti.

414, XXX, 110, XXXIII, 87). 112. POTEI, tu potevi (V. Inf. XXII,

IL SERVO DE' SERVI di Dio fu titolo di mentita umiltà che i papi si diedero in parole,salvo sempre che per Dio non cessassero di essere i domini dominorum.

113. TRASMUTATO D'ARNO IN BACCHIGLIONE (cioè dal vescovado di Fiorenza a quello di Vincenza) fu Monsignor Andrea de'Mozzi, anche egli rotto al vizio di Ser Brunetto. Dicono cotal traslocazione fat

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