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Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi:
Ben dovrebb' esser la tua man più pia,
Se stati fossim' anime di serpi.
Come d'un stizzo verde, ch' arso sia
Dall' un de' capi, che dall' altro geme,
E cigola per vento che va via;
Così di quella scheggia usciva insieme

vera carpens. Al v. 44 Dante illustra
questo scerpi: lasciai la cima cadere.
Era quella appunto che avea scerpata:
al v. 32 dice: colsi un ramoscello.

36. SPIRTO per senso. Nol troviamo avvertito da quanti abbiam letto comentatori. Il Tommaseo arreca solo un esempio del Boccaccio, il quale non fece che ripetere la frase dantesca.

39. SE, sottintendi pure: come tutto per tutto che ec.

40 segg. Di questa, come delle altre similitudini fatte dal nostro Poeta, quanto al fino magistero dell' Arte, ci avvisa che porti il pregio di qui addurre le savie parole di G. B. Niccolini, da una lezione detta nell' Accademia della Crusca il 14 settembre 1830; intorno alla universalità e nazionalità della Divina Commedia: In Dante, come ne' lodati scrittori dell'antichità, non mai la lunghezza de' paragoni indebolisce il collegarsi delle idee, non mai amplifica quelle che la mente compie facilmente, é dov'essa intende o immagina più di quello che può dirsi. Fu detto per un antico, esser più facile di togliere la clava ad Ercole, che ad Omero un verso, senza che perda dignità e vigore. Io credo che lo stesso possa affermarsi dell'Alighieri, e che lo provi l'esempio di due grandissimi poeli, l'Ariosto e il Tasso. Bella è la comparazione che fa il primo, quando nel giardino di Alcina parla d'Astolfo cangiato in mirto:

Come ceppo talor che le midolle

Rare e vote abbia, e posto al foco sia,
Poichè per gran calor quell'aria molle
Resta consunta che in mezzo l'empia,
Dentro risona, e con strepito bolle,
Tanto che quel furor trovi la via:
Cosi mormora, stride, e si corruccia
Quel mirto offeso, e alfin apre la buccia.
E facile l'accorgersi quanto sia mag-

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giore la precisione e l'evidenza in questa terzina di Dante, che l'Ariosto volle imitare:

Come di stizzo verde che arso sia

Dall'un de' capi, che dall'altro geme,
E cigola per vento che va via;
Così da quella scheggia uscian insieme
Parole e sangue.

E il gran Torquato (non mi crediate tra quelli che collo straniero congiurano contro la sua fama, che vorrebbero, se vivesse, crescergli il dolore della carcere, e insultare alle sue sventure come alle ruine d'un tempio), e il gran Torquato guastò l'immagine di Dante: A guisa di leon quando si posa, aggiungendovi:

Torcendo gli occhi e non movendo il passo; dimenticando, come ho detto di sopra, che il poeta deve lasciare qualche cosa da fare all'immaginazione del lettore. Il perpetuo studio d'un'inliera e particolareggiata realtà in ogni descrizione (mi sia concesso il ripeterlo) non è nella natura dell'arli e delle lettere italiane, e può darci col tempo una poesia la quale saprà d'inventario, e inesatto, perchè in un oggetto vi ha più di quello che sia dato di osservare a umana diligenza, ed una imperfezione inseparabile dalla natura del nostro intelletto, dalla quale deriva l'error de' nostri giudizi; come da un insigne filosofo venne avvertito. Dante con poche parole guida l'immaginazione ad accrescere la magnificenza e la novità della natura, innalza mirabilmente il parlarc colle metafore ch'esprimono il discorso della ragione, e s'impadronisce ad un tempo della fantasia, dell'intelletto e del cuore.

41. GEME, sgotta fuora acqua. Barg. 43 seg. USCIVA... PAROLE E SANGUE. Varianti uscian, uscieno, usciro. Ma chi

Parole e sangue; ond' io lasciai la cima
Cadere, e stetti come l' uom che teme.
S'egli avesse potuto creder prima,
Rispose 'l Savio mio, anima lesa,

Ciò ch' ha veduto, pur con la mia rima,
Non averebbe in te la man distesa;

Ma la cosa incredibile mi fece
Indurlo ad ovra, ch' a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece

D' alcuna ammenda, tua fama rinfreschi
Nel mondo su, dove tornar gli lece.
El tronco: sì col dolce dir m' adeschi,

Ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
Perch' io un poco a ragionar m' inveschi.
Io son colui, che tenni ambo le chiavi

non vede il grande accordo delle parole e sangue insieme, che sono una cosa,col verbo sing. usciva? Oltre a questo,usciva esprime l'atto percepito un istante prima che il subietto fosse distintamente appreso. Ma di queste sconcordanze, a cui arricciano il naso i grammaticuzzi di fava, è detto nel Purgatorio (XV, 137).

46-51. Virgilio dice: mi duole della tua lesione; ma io non poteva in altro modo dare a Dante una pruova di ciò che narrai di Polidoro nel III della Eneide. Pier delle Vigne si scorda d'essere un gran giurista: e IL DOLCE DIR (v. 55) di Virgilio lo adesca. Dante poi avea ragione di non credere (v. 45) alle parole d'un poeta; dovea vedere (v. 48) e toccare (v. 49). Nisi videro et tetigero ec. Le sante parole furono innanzi alla mente dell'Alighieri, quando questi versi scriveva. Nota la fina e mirabile arte, ond'egli appaga la fantasia, instituendo la sperienza d'un fatto che le fa perer vera la cosa incredibile. Eppure la narrazione del poeta Fiorentino non è più vera che quella del Mantovano!

47. LO SAVIO MIO. V. Inf. XII, 16 not. 49. AVEREBBE, inflessione primitiva del verbo Avere, come temerebbe da temere. Così vederai (Inf. I, 118); potcrebbe (Inf. VII, 66) e molti altri.

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53. AMMENDA, restaurazione all'ANIMA LESA, V. 47. Il Bargigi legge emenda anche nel medesimo sentimento.

56. VOI NON GRAVI, Voi, taciuto il segnacaso a. (Vedi Inf. I, 81 not.). GRAVI (Inf. III, 80 not.).

58. I' SON COLUI (a) che TENNI AMBO LE CHIAVI ec. Tenere, portare;aver le chiavi del core è modo preso dal Provenzale; e vale: Esserne padrone, disporne a suo modo. Arnaldo da Marveglia:

Que no ni puesc partir ni aus
C'Amors a pres de mi las claus.
Che non mi posso partire nè oso,
Chè Amore ha di me preso le chiavi.

(a) Pier delle Vigne fu di Capua, e,secondo i più, figliuolo d'un vignaiuolo.E chi lo fa di non basso lignaggio. Vuolsi che di limosina si vivesse egli in Bologna mentre colà attendeva ai suoi studi. Notaio, Protonotario e poi Giudice della Gran Curia appresso Federigo II re di Sito civile venne da ultimo innalzato al grado di cilia, per la sua perizia nelle lettere e nel dritDittatore o, che dir si voglia, Gran Cancelliere o Segretario di Stato. Il Principe lo ebbe dapprima intimo e caro; nè pren teva partito o cosa Ma poi gl'invidiosi cortigiani che lo calunnianiuna reggeva, che non fosse a consiglio di lui. rono come traditore de' segreti alla Corte di Roma: il grave dolore ch'ebbe Federigo per la morte del suo primogenito Errico, contro cui Pietro avea ingenerato nell' animo del padre vani sospetti di fellonia: le false imputazioni politiche appiccategli dal geloso marito di quella Florimonda cui egli celebrò nelle rime amorose; furon causa che venisse abbacinato e gittato in prigione: dove annoiatosi d'una vita misera tra le reminiscenze del tempo felice, diede

51. A ME... PESA, è grave (V. Inf. III, del capo contra il muro con quanta più forza 80 not.).

ebbe, e dopo brev'istanti mori nel 1219.

Del cuor di Federigo, e che le volsi
Serrando e disserrando si soavi,

Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi:
Fede portai al glorioso ufizio,

Tanto ch' io ne perdei li sonni e i polsi.

Volger le chiavi del core; vale muoverlo a suo arbitrio ad amore o a odio.sì SOAVI, dice, per significare il bel modo e l'arte dolce di sapersegli insinuare nell'animo.

È stato avvertito che il Petrarca usò troppo frequentemente questa figura da renderla quasi triviale, perchè spesseggita, nè variata di forma.

Il Nannucci osservò che i Provenzali adoperarono la locuzione:

estreinar e deysserrar las claus
serrare e disserrare le chiavi.

Il nostro poeta usa più ragionevolmente Volgere; il cui effetto è d'aprire e di chiudere.

Di due forosette canta Guido Caval

canti:

Era la vista lor tanto soave
Tanto quieta, cortese ed umile,
Ch'io dissi lor: voi portate la chiave
Di ciascuna vertute alta e gentile.
Ponzio da Capodoglio:

E sobre totz portatz la claus d'amar. E sopra tutte portate la chiave d'amare che è tanto, quanto dire: Tirate i cuori ad amarvi come vi è in grado.

Il Berbezill. De totas beutatz claus La chiave di tutte bellezze, cioè: la signora, la reina della bellà, e simili.

Dino Frescobaldi contemporaneo di Dante, parlando d'Amore dice:

Questi ha d'ogni mio spirito la chiave. Intanto l'Alighieri ne dà due a Pier delle Vigne, ed il Petrarca non ne mette talvolta men che tante nel materozzolo di Laura; dicendo:

Del mio cuor, donna, l'una e l'altra chiave
Avete in mano.

I Provenzali o dissero d'una chiave sola, o di molte indeterminatamente (a).

(a) Folgore da San Gemignano, l' Ennio di Dante; in un sonetto in cui fa parlare l'umiltà a novello cavaliere:

Umiltà dolcemente il riceve

E dice: punto non vo che ti gravi:
Che pur conven ch'io ti rimondi e lavi,
E farotti più bianco che la neve.
Entendi quel ched io ti dico breve:
Ch'i' vo' portar de lo tuo cor le chiavi;

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Questo duale de' due nostri più valenti poeti non debbevi esser posto a casaccio. Io non ho letto che altri si sia data la cura di rintracciarne la ragione, o che almanco v'abbia posto mente (b).

61. DAL SEGRETO. Esse alicui a secretis Essere il segretario d'alcuno. Nessuno fu messo a parte de' segreti di Federigo, fuorchè Pier delle Vigne. Aver egli tolto ogn' altro dalla confidenza ed intimità di lui fu certo la prima cagione della sua rovina.

63. Ne perdei Li SONNI E I POLSI. Così ne sembra dover leggere conforme al codice Cassinese, agli undici della Riccardiana, del Dante Antinori, del Tempiano, secondo la lettera di parecchi MSS. veduti dal Vellutello e di moltissimi altri testi. La lez. della Nidobeatina e della Vindeliniana è lo sonno e i polsi: e sì tutte le altre, salvo quella di due codici Pucciani 3, 7, che hanno le vene e i polsi. Pochi testi antichi: li sensi e i

E a mio modo converrà che navi (navighi) E io ti guiderò siccome meve (me) ec. A Dante piacque dire anzi che portare, tenere le chiavi; che ha più forza di significare possesso, arbitrio e potestà.

(b) Delle chiavi che Cristo diède a S. Pietro, l'una, che dicono bianca o d'argento, vogliono significasse la potestà dell'ordine onde il sacerdote proscioglie dal peccato; l'altra gialla o di oro (Purg. IX,118 seg.) la virtù divina che impartisce il perdono e la grazia. Quindi le due chiavi pare dinotino la pienezza del potere sulle cose umane e divine che i Papi credonsi avere redato dal principe degli apostoli. Le lingue romanze, e più la nostra, usaron dunque ambo le chiavi per assoluta signoria. D'altronde tra due non si han due chiavi ad uno stesso serrame, che una per cadauno, acciocchè non vi apra l'uno ove l'altro non voglia: ora averle un solo tutte a due significa che l'uno rimette il suo arbitrio nelle mani dell' altro; sicchè una sia in entrambi la volontà, nè quello disvoglia ciò che da questo si vuole.

TENNI AMBO LE CHIAVI, chiosa il Bargigi, la chiave del volere, e la del non volere, perocchè egli voleva ciò che io gli consigliava, e non altro.

La meretrice, che mai dall' ospizio

Di Cesare non torse gli occhi putti,
Morte comune, e delle corti vizio,
Infiammò contra me gli animi tutti,

E gl' infiammati infiammar si Augusto,
Che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
Credendo col morir fuggir disdegno,
Ingiusto fece me contra me giusto.

polsi. Il Biagioli rifiuta la lezione il son-
no e i polsi credendola scipita, come se
si dicesse: ho perduto due lire e cento
milioni. Non si è da tutti veduto ciò
ch' è evidente, pei sonni volere il Poeta
significare le veglie durate dall' uom di
stato, e per i polsi perduti il collasso
de' nervi, lo sfinimento e la spossatezza,
com' effetto delle mentali fatiche soste-

nute a portare fedelmente il glorioso ufizio.

Chi legge:

Tanto ch'io ne perdei le vene e i polsi, ed intende che queste parole significhi no: io ne perdei la vita; rifletta: 1o Essere strana la frase: perder le vene e i polsi, per morire; 2° Se pure tale non fosse; esser potuto bastare il dire l'un de' due, o perder le vene, ovvero perdere i polsi soltanto; 3° Il glorioso ufizio non essere stato cagione della morte di colui che uccise sè stesso; il quale poteva vivere, anzi da forte, in mezzo alle stesse sventure; 4° Che se Pietro facesse qui molto di sua morte, mal replicherebbe poi la stessa cosa, dove (v. 70 segg.) dice ch'ei troncò lo stame di sua vita per disdegnoso gusto e per ischivare disprezzo. S'egli fu l'ingiusto e tal si riconosce: perchè di sua morte, direttamente o indirettamente che fosse, incolparne il glorioso uffizio? 5° Se ad altri paiono troppo difformi le due idee di sonno e di polsi; bisognerà vedere in che relazione gli abbia messe il Poeta, prima di tenere il nostro parere. Bisognerà dimandare al medico il rapporto tra il riposo e le forze dell'individuo; 6° Se il Biagioli avesse durate più veglie sul sacrato Poema, non gli sarebbe fornato difficile a comprendere che tra il sonno e i polsi è assai più grande ragio

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ne, che non tra due lire e un milione, e che dalla perdita di due notti a quella de' polsi si va più presto che dalle due lire al milione; 7o Non vale che altrove (Inf. I, 90) il Poeta dica eziandio:

Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi. perocchè se bene sta si dica tremar le venè e i polsi per significar forte paura, non è che stia pur bene che altri adoperi le parole: perdei le vene e i polsi per

dir solo io morii.

64. LA MERETRICE significa, secondo noi evidentemente, la Corte di Roma. Oltre che questo dicono le parole degli altri versi, che s'intenderebb' egli mai per una invidia meretrice? Ma Roma fu presignata con questo nome da S. Giovanni Evangelista. E diciam dippiù, che cotesta meretrice è la lupa o la morte venuta nel mondo per l'invidia del diavolo (Inf. II, 107). La qual morte è comune di quanti stanno sotto l'ombra del papale ammanlo; ed è ben detta vizio DELLE CORTI; perchè dov'essa è intrata in quelle, ha reso ibrida la potestà politica, ed inetta al buon reggimento degli stati: ibridismo e inettitudine, vizio e tarlo che delibita i principi e corrode i troni.

65. CESARE, Federigo II.

66. Delle corti vizio; perchè con la spada congiunto il pastorale è unione tenuta radicalmente viziosa dal nostro Poeta.

67-68. INFIAMMÒ... INFIAMMATI INFIAMMAR. Vedi il fuoco e la continuata propagazione delle sue fiamme!

AUGUSTO, titolo dato da Piero a Federigo. 71. DISDEGNO, dispregio o bassa stima 88. che uno fa degli altri. V. Inf. IX, 72. Reo di nessun'altra colpa che del suicidio.

Per le nuove radici d' esto legno

Vi giuro che giammai non ruppi fede
Al mio signor, che fu d' onor si degno:
E se di voi alcun nel mondo riede,

Conforti la memoria mia, che giace
Ancor del colpo che 'nvidia le diede.
Un poco attese, e poi: da ch'ei si tace,
Disse 'l Poeta a me, non perder l' ora;
Ma parla, e chiedi a lui se più ti piace.
Ond' io a lui: dimandal tu ancora

Di quel che credi ch' a me soddisfaccia;
Ch' io non potrei, tanta pietà m' accora.
Però ricominciò: se l' uom ti faccia

Liberamente ciò che 'l tuo dir prega,
Spirito 'ncarcerato, ancor ti piaccia
Di dirne come l'anima si lega

In questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
S'alcuna mai da tai membra si spiega.
Allor soffiò lo tronco forte, e poi

Si converti quel vento in cotal voce:
Brevemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l'anima feroce

Dal corpo, ond' ella stessa s' è disvelta,
Minos la manda alla settima foce.
Cade in la selva, e non l'è parte scelta,
Ma là, dove fortuna la balestra:
Quivi germoglia come gran di spelta.
73. Giuro per questa mia vita.-NUOVE
RADICI. Il pruno informato dall'anima di
Piero era fatto già Grande (v. 32): attec-
chito da circa 50 anni quando Dante ne
divelse il ramoscello; pure eran quasi
NUOVE le sue RADICI, rispetto agli alberi
che da più secoli lì si trovavano.

80. ORA,tempo,opportunità, occasione propizia.

85. Uомo, come l'on de' Francesi per si; o in contrapposto a Virgilio, che lì uomo non era (Inf. I, 67).

89. Nocchi per alberi dai NODOSI RAMI (v. 5).

94. SI PARTE,si divide per forza violenta, si divelle, come dicesi nel verso appresso. Virgilio parlando de' suicidi ha

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loro più riguardi del Nostro, che gli appella anime feroci. Pel poeta latino son de' mesti, de' melancolici, ch'ebbero in odio la luce, e che però gittaron la vita; ma dipoi pentiti si contenterebbero ricuperarla e sostenerne volentieri la povertà e i travagli. Basta leggere le pene, a cui Dante gli assoggetta, per giudicare e la gravezza del suicidio, e il morale progresso che la Filosofia e la Religione fecero da' tempi del Mantovano a quelli del Fiorentino poeta. Ecco il testo di Virgilio. En. VI, 434:

Proxima deinde tenent moesti loca, qui sibi
(letum

Insontes peperere manu, lucemque perosi
Projecere animas. Quam vellent aethere in alio
Nunc et pauperiem et duros perferre labores!

95. S'È DISVELTA. Al. lez. si disvelta. Bargigi.

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