Oh quanto tarda a me, ch'altri qui giunga ! Lo cominciar con l'altro che poi venne, Forse a peggior sentenza, ch' e' non tenne. Già il chiosat. del codic. Cassinese avea detto: SE NON... Tal ec.cioè, SI TALIS (Beatrix) NON sustulit nos frustra venire, quod non credo, quia promisit mihi tulum iter, quod si non esset, ipsa esset mendax. Il Rosa Morando: Pure ci converrà vincere questa pugna se mi fu promesso il vero; ma tosto interrompe il sentimento, perchè ogni menomo dubbio è troppo ingiurioso a Beatrice; e soggiunge: NON può essere che non mi s'abbia promesso il vero, NON lice dubitarne ; tal ne s'offersE; cioè, ne s'offerse in aiuto quel personaggio così verace. Quel TAL NE S' OFFERSE pare, come vuole il Bianchi, realmente riferirsi a colui che s'accenna alla fine dell'ottavo canto; e allora varia la esposizione. Ciò mostra che le reticenze sono quanto elastiche, tanto pericolose. Dante non le usa di frequente, e fuori di questa qui, appena due altre se ne trovano in tutto il Poema (Inf. XXIII, 109. Purg. XXVII, 22.). 9. OH QUANTO TARDA A ME ec. Il Rossetti allegoricamente intende per quel messo celeste Arrigo, che doveva aprire al P. le porte di Fiorenza; altri dicono voler significare, che la Ragione senza virtù soprannaturale non penetra la giustizia sempiterna. Non disaggrada al Tommaseo la politica e la morale interpretazione. (V. Alleg. in fin. del IX canto). Noi crediamo che Arrigo mal rappresentasse il messo di Dio; e che quando Firenze fosse raffigurata nella città di Dite, il Poeta volentieri si sarebbe dovuto rimanere in bando per non rientrarvi. TARDA A ME sembra, ma non è galli 10 15 cismo. Piuttosto ne pare un provenzalismo legittimato da' Francesi e dagl' Italiani. È come dire: mi sembra un' ora mille anni; o,come il chiosatore del cod. cassin. Videtur mihi nimis tardare. Così Virgilio (Inf. II, 80) a Beatrice: Tanto m'aggrada il tuo comandamento, Che l'ubbidir, se già fosse, m'è tardi. 14. Dante interpreta la parola tronca del SE NON... (V. 8) TAL NE S' OFFERSE, non secondo la mente del suo Duca (Vedi v. 8); ma credendo lui aver voluto dire: SE NON mi è vietato l'entrare; TAL NE S'OFFERSE stuol di demoni che nol ci consentono. POI VENNE. Il Cassinese: Quia primo dixerat oportet vincere pugnam, 2o ponit spem in alio. 16. IN QUESTO FONDO ec. Questa dimanda fa il Poeta al suo Duca con lo stesso accorgimento che disse altrove (Inf. II, 35): Temo che la venuta non sia folle: e, come fu innanzi alla Porta infernale (Inf. III, 12): Maestro il senso lor m'è duro. Tenendo a mente gli avvisi di Minosse (Inf. V, 19): Guarda com'entri e di cui tu ti fidi: ad assicurarsi della sua guida, chiede da Virgilio se alcuno del cerchio de' sospesi fosse mai disceso nell'imo fondo infernale. Il Dottor di Dante risponde mirabilmente a tutte le quistioni; ma qui più che mai, dal verso 19 al 30. Consideri il lettore l'ultima terzina del tratto accennato, quanto venga al proposito, per mostrare il Mantovano pratico del luogo, e per rinfrancare il nostro poeta da' suoi tormentosi sospetti. Incontra, mi rispose, che di nui Faccia 'l cammino alcun, pel quale io vado. Ch' ella mi fece 'ntrar dentro a quel muro, El più lontan dal ciel che tutto gira: 21. VADO è da vadere antico. Furono a questo verbo le sue regolari inflessioni vado, vadi, vade ec. II Barberino Docum. X, sotto Prudenza: Ma se pur corri e cadi Vien teco, ancor se vadi Per te voler seguire. Ammaestr. ant. Gli uditori ne vado no voti. Noi abbiamo ritenuto pel pres. dim. la voce vado; comecchè si trovino appo gli antichi nella 2a del meno vadi; nella 3a vade; e nella 3a plur. vadono. Nel congiuntivo tutte e tre le pers. sing. furon vadi; poi si disse nel sing. io vada, tu vada o vadi, colui vada o vadia plur. coloro vadino o vadano. Le varie uscite e cadenze di questo verbo dipendono dalle configurazioni Andare, vare, vadere ec., e le diverse voci che ne provengono regolatamente, sono come elementi eterogenei approvati dall'uso e riuniti a formare un verbo (Andare), che da' grammatici si appella irregolare. Ciò va detto, perchè, stando i giovani alle grammatiche, non tengano queste Voci venute dal verbo andare. V. Inf. IV, 33 nota. 23. ERITONE Congiurò lo spirito di Virgilio e lo mandò giù a trarre Didone dalla Giudecca, dove Minos aveala dannata come colei che tradì e ruppe fede al cener di Sicheo. Il Poeta, non tenendo conto delle date cronologiche (poichè la famosa Maga di Tessaglia morì prima del Mantovano) (a); finge tutto questo per non contraddire all'autorità del suo Duca; il quale (En. VI, 442) colloca quell'infelice reina tra coloro: U jeo suleje mun ami veir. Nell'antico Spagn., poema d'Alessandro, cob. 2342: Luego viò per u podria aver meior passada: (a) Veramente,senza ricorrere ad anacronismi, Dante potè benissimo intendere sotto nome d'Eritone, non già quella di Tessaglia consultata da Sesto Pompeo a fin di sapere qual sarebbe per essere il fine delle guerre civili tra suo padre e Cesare; ma una qualunque venefica o maga o negromantessa. Ovidio: Illuc mentis inops, ut quam furialis Erichtho Dove Daniel Crispino: ERICHTHO. Veneficiis famosa fuit Thessala mulier; cujus nomen hic pro qualibet venefica positum. E ovvia sineddoche l'usare un nome proprio per un appellativo. Il volgo chiama Ciceroni i grandi dicitori, Megere le donne brutte e furiose ec. Ed altro disse, ma non l'ho a mente; Perocchè l'occhio m' avea tutto tratto Il Tasso, Gerus. liber.: U l'arte in bando, u già la forza è morta Dove invece d'entrambi il furor pugna! Oggi non si concede che solo al poeta. POTEMO. La prima persona plurale del presente indicativo, che ora in tutte a tre le congiugazioni ha la cadenza in iamo, terminò nelle origini della lingua in amo pe' verbi della prima, come amamo, trovamo, conquistamo, pregamo ec.; in emo per quelli della seconda, come vedemo, avemo, semo, volemo, sapemo, gaudemo, polemo ec.; e in imo della terza, come gimo, udimo, fuggimo, venimo, seguimo, ubbidimo, rapimo, sentimo, ec.: tutte desinenze conformi a quelle de' verbi latini amamus, timemus, sentimus ec. Anzi la cadenza in emo ebbero nella predetta persona tutt'i verbi, quale che fosse la loro coniuga zione; dicendosi indistintamente amemo, tememo, sentemo ec.: conformità che poi non ebbe durata ; ma non è a dubitare che per la seconda non fosse regolarissima tal desinenza; dicendo perfino lo schiffiltoso Mastrofini: Tale è il progresso delle cose,che dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone allri men proprj, che poscia il tempo carat terizza come legittimi! Il Cavalc. Med. cuor. 192: E questa (pazienza) è sì necessaria, che senza essa salvare non ci potemo. Ammaestr. ant.: Non dovemo dire ogni cosa che dire potèmo. È desinenza regolare, ma che ora non si userebbe che assai raramente anche dal poeta. V. Inf. XXVIII, 40 not. SENZ' IRA. Poichè i buoni modi non bastano. Così un comentatore. Neanche i mali, poichè a vincer quella pruova Virgilio sapea far mestieri del messo celeste. Inf. VIII, 130. L'egregio Conte Fr.M.Torricelli chiosa più sottilmente: perchè gli avevan chiusa la porta in faccia. E veramente la cagione che mosse ad ira Virgilio fu la tracotanza, onde que' diavoli gli chiusero nel petto le porte di Dite. Virgilio è simbolo della ragione non turbata dalle passioni; epperò tranquilla sempre. L'ira ch'è un furor breve la con 35 turba come vento l'onde, e male convenivasi al carattere di colui che tolse a guidare il suo alunno pe' gradi della sapienza. Dinanzi a Dite ove hanno albergo Megera, Aletto e Tesifone, furie infernapianto, la Ragione non può essere accolli che corteggiano la reina dell' eterno ta,nè starsene in calma. Le furie turbano la Ragione. Dunque: Non potemo entrare... senz'ira. in cosa che faccia contra di lei, ed essa Così è che dove la Ragione s' avviene non se ne passa. Qui Virgilio si volge contro l'enfiata labbia di Pluto, e colà a Capaneo parla di tanta forza che Dante non l'avea mai più udito. E fu giusto ; poichè Plutone rappresenta chi solo è dato all' amore dell' oro, e Capaneo era ve. Cose entrambe che urtano e fanno a un indegno beffardo e spregiator di Giocalci con la retta ragione. Con tutto ciò, parendo a Virgilio che sione nell' animo di Dante; dice queste potesse cotesta sua ira far mala impresparole come per dimostrare la necessità dell'essersi adirato, e farne in certo modo una scusa. Nel canto antecedente (VIII, 121) ebbe anche rivolte al nostro Poeta queste parole: Tu, perch'io m'adiri, È dunque un'ira ragionevole, non mica folle. Respicit Eneas subito, et sub rupe sinistra 35. Virg. En. VI, 548: Moenia lata videt triplici circumdata muro; Quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis Tartareus Phlegethon,torquetque sonantia saxa. Porta adversa ingens, solidoque adamante co(lumnae, Vis ut nulla virûm, non ipsi excindere ferro Coelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras; Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta, Vestibulum exsomnis servat noctesque diesque. Ecco onde trasse Dante l'idea della resistenza fatta a lui e a Virgilio sulla porta di Dite, e della potenza superiore del messo celeste che al solo tocco d'una verghetta l' ebbe spalancata. Cotesta resistenza torna ad onore di Dante, come il rifiuto di Caronte che nol ricevette nella sua scafa; imperocchè (loc. cit. 563): Nulli fas casto sceleratum insistere limen. Ver l'alta torre alla cima rovente, Tre Furie infernal di sangue tinte, Serpentelli e ceraste avean per crine, Quella, che piange dal destro, è Aletto: Si può egli intendere Dante, se non si studia in Virgilio con quanto studio vi pose Dante ad intenderlo ed imitarlo? 36. ALLA CIMA ROVENTE. Alcuno intende qui alla messovi invece di dalla; ma vi starebbe fuori luogo. Il costrutto dinota per la voce ver la direzione, ed alla esprime proprio la parte obiettiva o il punto, al quale erano attesi gli occhi del Poeta. Questa parte era la cima rovente cioè rubente, rosseggiante, affocata, nulla meglio che una luce più viva potendo a sè naturalmente attirare la vista. Il Codice Cassin. ha ruente; come se l'alta cima della torre paresse minacciar ruina; ma non par la vera cotesta lezione. 40. CON IDRE... ERAN CINTE. Degna zona o cintura delle furie! 41. Virgilio Georg. IV, 482: Eumenides. caeruleosque implexae crinibus angues Quanto al troncamento dell'agg. plur. infernali in infernal v. Purg. III, 121. 43. MESCHINE, ancelle ec. 45. ERINE da Erina, Lat. Erinnys, d'onde Erini, siccome da apocalypsis, apocalissi (oggi apocalisse); e mutato l'i nell'a Erina, Apocalissa. Dittam. Lib. VI, cap. VI: Com'uom che legge nell'apocalissa. Dipoi raddoppiata l'n (poichè dapprima gli antichi schivarono le consonanti raddoppiate) fu fatto Erinna; quindi Erinni che tien più della voce originale. Altri nomi simiglianti presero l'a nel fine:come poesia, palingenesia, eresia ec. da poesi, palingenesi, eresi ec.; alcun di essi ritiene ancora tutte a due le desinenze, come paralisi e paralisia ec. Che infatti gli antichi dicessero poesi ec. ne fa certi il Buti nel com. Inf. 9, 2: Questa non è buona poesi ec. I latini, conforme a ciò ch'è detto, ebbero Perseis e Persea, Trinacris e Trinacria ec. I Provenz. Diocezi e diocesa ee. Dante non fece dunque nulla che fosse contrario alla natura del nostro linguaggio, nè vuolsi giudicare secondo le meschine regole de' pedanti. Nel basso lat. Erinys; ed Erinis nell'italiano. Erina ed Erinna anche in prosa. Ovid. Pist. 2, Giason.: Ma ERINA trista furia infernale vi fu. Arrig. Settimel. Lib. II: O santo padre ricevi l'anima ec. la quale l' ERINNA colli cavalli di Stige ora trita. Dante non esce do Erine, al numero maggiore, le tre di regola, nè usa licenze poetiche dicenfurie Aletto, Tesifone e Megera. 49. Virg. IV, 673. Come Didone si ebbe data la morte, Anna a quell' atroce vista: Unguibus ora soror foedans, et pectora pugnis Venga Medusa, sì 'l farem di smalto, Gridavan tutte, riguardando in giuso: 52. Sì 'L ec. Questo sì per alcuni è un riempitivo; ma non codesto quel sì che tale dir si possa, e che incontra sovente negli scrittori del buon secolo di nostra lingua: altri meglio l'intendono per così. Noi, ultimi tra tutti, non dubiteremmo dire che in questo luogo il si fosse una particola, più che affermativa, riconfermativa; parendoci che le Furie, dopo aver detto venga Medusa, al fine ch'elle ben si sapevano, si rafforzasse più sempre la volontà maligna d'impietrare altrui, e replicassero si'l farem di smalto. Nel Cod. Cassin. su questo verso è la postilla chel cioè chè il; sel, se 'l; e per farem si legge in altri testi faren (tutt'uno), e farà. SMALTO. Il Cassinese chiosa: di smalto cioè de saxo, vel calcina. Il Petrarca, Canz. Vergine bella ec. IX: Può quello in me, che nel gran vecchio Mauro, Medusa si prende per l'appetito carna- Sotto il velame degli versi strani. 54. MAL NON VENGIAMMO ec. Vengiare per vendicare. Così, Inf. XXVI, 34: 55 ne sieno messe al fuoco, impercioe ch'elle l'hanno bene servito (meritato) d' essere arse, e voglio che vengianza ne sia. Poi si svolse, e disse: Non voglio fare vendetta. -In Provenz. Venjansa, Franc. Vengeance, Portogh. vingança. I nostri antichi dissero anche vendicanza. Bon. Giamb. Form. onest. vit., Magnan. I: Onde sappiate che tranobile vendicanza è perdonare quando l'uomo puole far sua vendicanza. Mal non vengiammo ec. il Venturi è quasi il solo che interpreti la sentenza per: Ben vendicammo ec.;i più spongono: mal facemmo a non vendicare ec. Quegli appoggia la sua opinione su quel luogo di Virgilio, En. VI, 617: Sedet, aeternumque sedebit d'onde pare che di Teseo abbiano gl'infernali già fatta la loro vendetta. Quelli poi che son di contrario parere, dicono non essere stato quell'eroe punito secondo la misura della propria colpa. Dante che seppe le ragioni degli uni e degli altri, pare abbia voluto, con un costrutto quasi delfico, lasciar che ciascuno l'intendesse a suo modo. Vero è, che Teseo non venne ucciso come Piritoo; ma restato captivo, fu poi liberato da Ercole: sicchè ne sembra più probabile l'opinione contraria a quella che tenne il Venturi. Virgilio tocca della pena che Teseo porta, da poi che passato di questa vita cadde nel Tartaro. E qual colui che si vengiò con gli orsi. 57. Non v'à dubbio che questa sentenTav. rot. E Lamoratio vedendo suo cuscino a terra del cavallo disse infra rebbe la tornata al mondo; ma quelza valga quanto l'altra: Impossibile sasuo cuore che bene lo vengerae egli sedlo poi che si dice, del dovervisi supegli potrae. Provenz. Vengiar-Franc. Venger. Quindi vengianza per vendetta. Il re Marco della tavola rotonda avendo, alla pruova del corno incantato, conosciuta la slealtà della donna sua, e di 364 altre, nemmanco fedeli ai lor mariti, dice: Io voglio che tutte queste don plire speranza o possibilità, come que- Rustico di Filippo, anteriore a Dante ed amico di Ser Brunetto, dice: Due cavalier valenti d'un paraggio |