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Che qui staranno come porci in brago, Di sè lasciando orribili dispregi! Ed io: Maestro, molto sarei vago

Di vederlo attuffare in questa broda, Prima che noi uscissimo del lago. Ed egli a me: avanti che la proda Ti si lasci veder, tu sarai sazio: Di tal disio converrà che tu goda. Dopo ciò poco, vidi quello strazio Far di costui alle fangose genti, Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: a Filippo Argenti: Lo Fiorentino spirito bizzarro

In se medesmo si volgea co' denti. Quivi l lasciammo, che più non ne narro: Ma negli orecchi mi percosse un duolo, Perch' io avanti intento l'occhio sbarro.

50. BRAGO. Gr. ężyn (brahe), acque basse: quindi non solo braco e brago per fango e bruttura, dove i porci si ravvoltolano; ma eziandio l'it. abrocato cioè rauco, affiocato: quasi abbragalo e imbragato o imbrahatu come dicono i calabri, e abbrucato i napolitani. I nostri chiaman Brahu la fiocaggine o raucedine; la quale avviene come spiega il Boccaccio (Lez. 2a sopra Dante, alla voce fioco): 0 perchè da alcuna secchezza intrinseca è sì rasciutta la via del polmone, del quale la prolazione si muove, che le parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in quella via è alquanta d'umidità rivocata:o è talvolta, che il lungo silenzio, per alcun difetto intrinseco dell'uomo, provoca tanta umidità viscosa in questa via, che similmente rende l'uomo meno espeditamente parlante, infintantochè o rasciulta o sputata non è. Ma è pox, strideo, ec.

53. ATTUFFARE, sommergere, sottopozzare (a). Non crediamo necessario intendere attuffare nel senso intr. pass. per essere attuffato; poichè il dire: molto sarei vago di vederlo attuffare, val

(a) SOTTOPOZZARE. Il Bargigi usa questo vocabolo, il quale ritrae molto dal sumbozzare, ch'è del dialetto calabrese e del napolitano, nel sentimento di attuffare att. e neutr.

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senz'altro: sarei vago di veder che altri lo attuffassero, lo sommergessero.

55. PRODA, ripa o riva, alla qual si naviga; quindi APPRODARE, cioè giugnere a proda o a riva, arrivare. Lat. appellere.

59. ALLE qui per dalle, siccome a per da. Vedi Inf. V, not. 118 seg.

61. A FILIPPO ARGENTI, cioè Date, correte addosso o sopra Filippo ec.

62. BIZZARRO, orgoglioso, iracondo, arrabbiato. Da bizza, stizza, ira. Dicesi: montare in bizza; gli è sallata la bizza ec. Onde bizzarro è proprio slizzoso, iroso. Ma oggi, diceva il Salvini, bizzarro si prende per capriccioso, ingegnoso, spiritoso. I calabri Vizzarru per stizzoso e stravagante; qual'era Filippo Agenti che faceva ferrare d'argento un suo cavallo.

64. IL LASCIAMмO CHE PIÙ еc. pare voglia dire: il lasciammo si mal concio, che puoi pensarlo da te, ovvero sì male, che Dio tel dica. Che in senso di per il che non tornerebbe assai bene interpretato in questo luogo.

65. MA,particola qui bene inserviente al passaggio di una in altra parte della narrazione, e che ha forza di significare

E'l buon Maestro disse: omai, figliuolo,
S' appressa la città c' ha nome Dite,
Coi gravi cittadin, col grande stuolo.
Ed io: Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di foco uscite
Fossero. Ed ei mi disse: il foco eterno,
Ch' entro l'affoca, le dimostra rosse,
Come tu vedi in questo basso 'nferno.
Noi pur giugnemmo dentro all' alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata:
Le mura mi parean che ferro fosse.

sospensione, e di far gli uditori attenti.
Lat. At. Ved. Forcell. ec.

DUOLO, grido dolente. Metonimia della causa per l'effetto.

69. Co' GRAVI CITTADIN.... Gravi in sentimento di autorevoli, quali furono e doveano essere i capiscuola degli eretici, per essere seguitati ne' loro traviamenti. Così Dante stesso (Inf. IV) vide nel limbo luminoso che:

Genti v'eran con occhi tardi e gravi Di grande autorità ne' lor sembianti. Nè pare da accettare la chiosa del Bianchi, che confonde questi gravi cittadini co' diavoli molesti ai dannati.

Nel canto IX, 128 ec. di questa cantica si dice:

Qui son gli eresiarche Co'lor seguaci d'ogni setta, e molto Più che non credi son le tombe carche; e quest' ultimo verso rende ragione del GRANDE STUOLO, cui accenna il poeta. Questo stuolo si compone d' innumeri eretici, di cui furon capi gli eresiarchi, i quali tutto entro gl'infuocati avelli, non dimettono punto della loro alterezza. Così della gravità de' moderni pastori spirituali.

Parad. XXI, 30:

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi Li moderni pastori, e chi li meni, Tanto son GRAVI, e chi dirietro gli alzi. Ma forse meglio gravi cittadini son detti dalla maggiore reità della colpa che gli grava al fondo (Inf. VI, 86): gravi perchè in Dite son quelli, i quali peccarono non già per fragilità e incontinenza, ma per malizia. Il Torricelli : «Co’gravi cittadin,— coi diavoli mole

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sti a' dannati, hanno chiosato il Ponta ed il Bianchi: Con gli eresiarche, chiosiamo noi con Dante, Canto IX, v. 127. »

71. CERTO... CERNO. L'una e l'altra voce essendo da CERNERE, vedere, scorgere; il certo... cerno ne par di vedere che significhi chiaro veggo, e che il modo sia quasi a somiglianza dell'idiotismo ebraico desiderio desideravi, ec. forte, ardentemente desiderai ec. Già il Poggiali riconobbe in certo il valore di chiaramente, distintamente.

72. VERMIGLIE COME SE ec. Virgilio En. VI, 630:

Cyclopum educta caminis
Moenia conspicio.

75. BASSO INFERNO. Alto Inferno i primi cinque cerchi degl'INCONTINENTI; basso Inferno il cerchio sesto de' BESTIALI (a); profondo Inferno i cerchi, settimo, ottavo, e nono de' Maliziosi: Torricelli. La città di Dite si estenderebbe, secondo avvisa il Lombardi, infino al centro del Cono infernale.

78. LE MURA MI PAREA CHE ferro fosSE. Aveasi a dire nel modo comune: Le mura mi parea che fosser ferro o mi pareano che fosser ec.; ma vedi qui un ellenismo o allrazion greca, per cui il verbo accordasi col nome più vicino; quanto bella figura ognun vede.

Molto forte la città di Dite! mura che parean di ferro, profonde fosse che la

(a) BESTIALI s'intendono quelli che per prava consuetudine, o per prava natura peccano contro l'eterna Ragione: i quali uomini dall'umana società passano nel novero delle bestie.

Non senza prima far grande aggirata,
Venimmo in parte, dove 'l nocchier, forte,
Uscite, ci gridò, qui è l'entrata.

Io vidi più di mille in su le porte

Dal Ciel piovuti, che stizzosamente
Dicean: chi è costui, che senza morte
Va per lo regno della morta gente?
El savio mio Maestro fece segno
Di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
E disser: vien tu solo, e quei sen vada,
Che si ardito entrò per questo regno:
Sol si ritorni per la folle strada:

Pruovi, se sa; chè tu qui rimarrai,
Che scorto l' hai per sì buia contrada.
Pensa, Lettore, s' io mi sconfortai
Nel suon delle parole maledette;
Chè non credetti ritornarci mai.
O caro Duca mio, che più di sette
Volte m' hai sicurtà renduta, e tratto
D'alto periglio che 'ncontra mi stette,
Non mi lasciar, diss' io, così disfatto:

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3° Lo difende da Caronte. Inf. III, 94 ec.

4o Da Minos. Inf. V, 24 ec.
5o Da Cerbero. Inf. VI, 22 ec.
6o Da Pluto. Inf. VII, 8 ec.
7° Da Flegiàs. Inf. VIII, 19 ec.

8° Da Gaetano Argenti. Inf. VIII, 41 ec.
Così il Vellut. e il Rosa Morando. Altri

prendono il sette per un numero indeterminato (sinecdoche), e dicono ben più che pericoli il suo alunno. (V. Illustr. Tomsette e otto volte aver Virgilio francato da' masco).

100. I comentatori: così disfatto; così smarrito e senza aiuto.

Il Poeta usò il verbo disfare nel senso proprio quando (Inf. VI, 42) si fa dir da Ciacco:

Tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto: poichè siccome fatto qui vale venuto al mondo per nascimento, nato; così disfatto vale passato di questa vita per morte, che scioglie e disfà la compage mortale.

E se l'andar più oltre c' è negato,
Ritroviam l' orme nostre insieme ratto.
E quel Signor, che li m' avea menato,

Mi disse: non temer, chè 'l nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n'è dato.
Ma qui m' attendi, e lo spirito lasso
Conforta, e ciba di speranza buona,
Ch' io non ti lascerò nel mondo basso.
Così sen va, e quivi m' abbandona

Lo dolce Padre, ed io rimango in forse;
Che 'l no el si nel capo mi tenzona.
Udir non pote' quello ch' a lor porse:
Ma ei non stette là con essi guari,
Chè ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte quei nostri avversari

Nel petto al mio Signor, che fuor rimase,
E rivolsesi a me con passi rari.
Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase

Quindi Disfare un esercito ec. non solamente può significare metterlo in rolta o sconfiggerlo; ma ancora Disorganizzarlo, Discioglierlo come s'intende in Dino Compagni: I Neri temerono e non assalirono. Il Marchese disfece l'armata ec.

Dante, anche in senso proprio usa disfare, quando nei seguenti versi fa che Forese gli predica la infelice morte di Corso Donati (Purgat. XXIV, 82 segg.): Or va, diss'ei, che quei che più n'ha colpa Vegg'io a coda d'una bestia tratto Verso la valle ove mai non si scolpa. La bestia ad ogni passo va più ratta Crescendo sempre, infin ch'ella il percuote, E lascia il corpo vilmente disfatto. Dopo questi e simiglianti esempi qual sentimento traslato potrebbe darsi alla voce disfatto che valesse smarrito e senza aiuto? Disfatto significa, in questo verso, rovinato, perduto, come notò il Nannucci; dal verbo Disfaire che in provenzale ha forza di perdere o rovinare. Ed è come se il Poeta dicesse a Virgilio: Se tu mi abbandoni ec. io son rovinato, io son perduto, io son morto; o, come dicevano i Latini, actum est de me. Tuttavolta non pare improbabile che disfatto qui non valga nè smarrito o senza aiulo e nè perduto o rovinalo;

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112. Se porger prieghi, voli, suppliche può ben dirsi, non sapremmo perchè il Poggiali inferisca la povertà della lingua Toscana dacchè usi ella porger deili, parole, sentimenti. Noi al contrario pensiamo che se i Latini poterono usitar dare per dire, e accipere per udire; il vocabolo porgere ben s'adoperò figuratamente e meglio nella detta accettazione: perciocchè venendo essa voce da porrigere, o che questo verbo si faccia di porro agere, o che di per regere, nulla significherà più appropriatamente l'attenzione, onde chi parla manda e dirige di lontano le sue parole agli ascoltanti. Il Nostro dice altrove (Inf. V, 108): Queste parole da lor ci fur porte: nè ci fur date crâ frase all'uopo.

D'ogni baldanza, e dicea ne' sospiri:
Chi m' ha negate le dolenti case?
Ed a me disse: tu, perch' io m' adiri,
Non sbigottir, ch' io vincerò la pruova,
Qual ch' alla difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non è nuova,

Chè già l'usaro a men segreta porta,
La qual senza serrame ancor si trova.
Sovr' essa vedestù la scritta morta:

E già di qua da lei discende l' erta,
Passando per li cerchi senza scorta,
Tal, che per lui ne fia la terra aperta.

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Quel color che viltà di fuor mi pinse,
Veggendol Duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.
Attento si fermò, com' uom ch'ascolta;

Chè l'occhio nol potea menare a lunga
Per l'aer nero, e per la nebbia folta.
Pure a noi converrà vincer la punga,
Cominciò ei: se non . . . tal ne s' offerse.

119. DICEA NEI SOSPIRI, chiosa il Lombardi, dicea sospirando; ma i sospiri di Virgilio tutto dicevano e meglio, in quel caso, che con parole. Il Biagioli dice più consentanea questa interpretazione alla bellezza poetica, e, ne pare, con assennatezza.

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sincopi di amasti-tu, temesli-tu, ec.; ma al Nannucci paion forme derivate dal provenzale amast, temest, sentist ec. con l'affisso tu scemo del t nella composizione delle due voci.

7. PUNGA, pugna, come spunga e spugna ec. Anche innanzi ad altra voca124. TRACOTANZA. (Vedi Inf. IX, 93). le si traspongono per metatesi le lettere Il Barg. Stranezza.

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ng: quindi vegno e vengo, giugna e giunga ec.; ma non se ne faccia, indipendentemente dall'uso, una regola generale.

8. SE NON... TAL NE S'OFFERSE. Questa sospensione,o reticenza, che dir si voglia, ha torturato i cervelli de' comentatori, e noi in cosa, dove il pensiero Dantesco non si può penetrar con chiarezza, non crediamo torturare i lettori. Pure le più plausibili sposizioni qui riferiamo.

Il Tommaseo compie: SE NON errai, ma TAL NE S'OFFERSE ad aiuto che ingannare non può.

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