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Si spesso vien chi vicenda consegue.

È dunque veloce perchè dee tener dietro alla Necessità che le corre innanzi. E questa Necessità è un idolo poctico così pel Venosino, come pel Fiorentino vate; salvo che quegli la identifica coll'inesorabile Fato e l'arma di aguti spannali, d' uncini, di cunei e di piombo; questi personifica in essa l'immutabile volere di Dio che per lei provvede, senza contrasto al reggimento delle cose umane.

Falso è dunque ciò che dice il Bianchi: Necessità di distribuire vuole che sia veloce: o, è di sua natura l'esser veloce, non mai ferma in un punto. Cose verissime per ciò che riguarda la fortuna; ma non attingono il concetto poeti co. Anche Orazio Lib. I, od. 34:

hinc apicem rapax

Fortuna cum stridore acuto Sustulit, hic posuisse gaudet. Anche Tacito Hist. IV, 47: Documenta mutabilis Fortunae summaque et

ima miscentis.

Ma a Dante, che caldeggiava l'idea cristiana, fu forza, delle due divinità pagane identificar l'una con la legge provvidenziale, e farne dell'altra la esecutrice. Così serve simultaneamente alla Religione e alla Poesia.

Il Conte Fm. Torricelli chiosa così:

Necessità ec. essendole stato ordinato di permutare i ben vani a tempo.

Con tutto il rispetto che professo a questo unico scopritore dell' allegoria dantesca, osservo che l'espressione a tempo non dice la ragione perchè la Fortuna debba esser veloce: imperocchè ne' versi 78 e 79 di questo canto:

Ordinò general ministra e duce Che permutasse a tempo li ben vani. non pare che a tempo vaglia prestamente o altro simile; ma sì temporaneamenle, o a tempo debito; come al contrario senza tempo (Inf. III, 29) significa eternamente. E infatti altro non può intendere il poeta, se non che le vicende della fortuna non durano eterne, ma sono a tempo, come or alto, or basso gira la ruota ch'ella volge.

90. Sì SPESSO VIEN CHI VICENDA CONSEGUE. Ecco ad un tratto dipinto il girar della rota volta dalla Fortuna!

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Questo passo saltano a piè pari i comentatori della Divina Commedia, ovvero imbottano nebbia e la spargono sì, che ottenebri l'intelligenza del lettore e la chiarezza, che il Poeta per sè non ha mancato di dare alla sentenza. Il Tommaseo non più felice degli altri dichiara ambiguo il costrutto; e pigliando quel chi o come soggetto o come oggetto non intende egli stesso, e meno fa intendere agli altri, ciò che Dante abbiasi voluto dire. Insomma bisogna dir di lui quel ch' egli nel verso antecedente disse di Cecco d' Ascoli; poichè Cecco e Niccolò in due luoghi distinti frantesero il Poeta; e il Tommaseo anche peggio; perchè appone a difetto di costrutto quel che si deve addebitare alla propria incapacità. Questo rimbrotto è ben poca cosa a chi avendo la cateratta agli occhi condanni d'oscurità il sole: e quando un Dante e tutt'i nostri più solenni scrittori debbono dall' altro mondo patire che una critica fiera ne sgraffi la fama e non possono alle difese levare dal sepolcro il capo: chi oserebbe ascriverci a tracotanza la leale franchezza onde ai vivi parliamo il vero,senza punto sognare di render loro pan per focaccia ?

A dichiarazione del verso premettiamo doversi quel chi prendere onninamente le vicende della fortuna, avvegnachè siea soggetto: doversi tener presente che no pur troppe, il Poeta qui non intende far motto che d'una sola, quella cioè d'uno stato felice: imperocchè dice a Virgilio:

Questa Fortuna, di che tu mi tocche

Che è, che i ben del mondo ha sì tra branche? e quegli risponde Lei essere stata ordinata ministra:

Che permutasse a tempo liben vani

Di gente in gente e d'uno in altro sangue. Il costrutto adunque non è niente ambiguo (a) e può prosasticamente ordinarsi.

(a) Ambiguo sarebbe se suscettibile di due diverse od opposte interpretazioni; ma o si voglia il Chi come soggetto, o come oggetto; la sentenza sarà la stessa sempre; epperò Dante non parlò ambiguamente; piuttosto, stando ai termini, incorse in equivoco il comentatore.

Ho detto doversi il chi prendere onninamente come subietto.

Quest' è colei, ch'è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.
Ma ella s'è beata, e ciò non ode:

Si chi consegue vicenda viene spesso. Sì, vale in questo passo: Così è che, per questa ragione, che ec. Sì SPESSO ec. sembra, ma non è, un Epifonema.

È

Chi consegue vicenda, è, in una parola, il fortunato, o colui, il quale si asside nel sommo della ruota e caccia l'altro, che vi stava innanzi. Or costui viene spesso, vale a dire che il primo fortunato è tolto di seggio da un secondo ch'è B, questo similmente da c, e c da D ec. ciascuno degli A, B, C, D ec. consegue od ottiene la vicenda, il suo turno, la sua volta; se в avesse soltanto egli conseguita la vicenda prosperosa di A, la Fortuna sarebbe stata mutevole una sola volta (semel); ma anche в subisce la stessa sorte per effetto di c che viene in suo luogo; adunque viene ormai un secondo che consegue la vicenda e così via via: dunque chi questa vicenda consegue per mutamento di fortuna viene non semel, ma bis, ter, quater; insomma saepe, cioè spesso, come Dante ce l'imbocca.

Ed è ad osservare che il subietto chi è in forza di alcuno il quale; rappresentando A, B, C, D ec. i molti cui la fortuna gira in alto,e poi gli abbassa con la sua rota. I romani ebbero due fortune, la prospera e l'avversa, e le intesero sotto un sol vocabolo. Fors fortuna significava sempre la propizia. Dante ne fa una sola, ministra de' beni terreni; i quali essa comparte ora a questo, ed ora a quello; nè cura che altri si dolga di non essere il favorito.

Ella non mi avvisa che sia buona ed equa dispensatrice de' beni che ha tra le

I latini dicevano: me sequetur tertia (Fedr.); gloriam Petrus consecutus est; e Petrum gloria consecuta est, e simiglianti; ma tornino pure le due locuzioni le stesse; non so se la nostra lingua sostenga l'una, come l'altra; e se l'illustre illustratore ammetta che, la proposizione Pietro consegue vicenda si possa invertire nell'altra la vicenda consegue Pietro. 11 molto che su questo potrebbe dirsi nol pigliano gli angusti termini d'una nota.

branche: ed io mi sarei un di coloro che la pongono in croce, se non pensassi ai fini inestricabili della Provvidenza.

CONSEGUE pare presente indicativo; ma, considerato bene ogni cosa, debb'essere del congiuntivo. Tal'è di fatto; perciocchè i verbi, nonchè della sola terza, ma di tutte a tre le congiugazioni, ne' primi tempi della lingua nostra, si fecero uscire in e al presente ec. del modo congiuntivo. Di che vedi quanto sta per noi notato, Inf. XXV, 6.

Pare che in questo discorso sulla FORTUNA Virgilio (cioè Dante) abbia delineato al Vico il disegno della Scienza nuova sul ricorso della civiltà delle nazioni; massime in que' versi 77 a 85.- Plinio: Vices temporum,le stagioni; Orazio: Mutat terra vices, subisce le annue mutazioni; ch'è il vicenda consegue, la qual frase altri intende: cangia condizione. (Lib. IV, od. VII, 3)

Quanto poi alle permutazioni della Fortuna, e l'esser ella lieta come le prime creature, e l' essersi beata senza curare che altri le dia mala voce; è pregio dell'opera di qui riferire i versi d'Orazio; da' quali fu evidentemente tolto e il concetto e la locuzione dantesca. (Lib.III,od. XXIX, 49 seg.)

Fortuna saevo laeta negotio, et
Ludum insolentem ludere pertinax,
Tansmutat incertos honores,
Nunc mihi, nunc alii benigna.
Vedi v. 95.

92. Coloro bestemmiano la fortuna, che più lodar di lei si dovrebbero. Bene il Bargigi: Dai ricchi e possenti nel tempo della prosperità è biasimata, perocchè non essendo mai sazi e contenti e sempre a lor parendo che più possan montare... la biasimano per quel che non hanno. Da quelli ancora... i quali si ricordano già essere stati felici, ed ora si vedono abbandonati da lei ec. Quelli che sempre furono in basso e vile stato e non posson riconoscere... da lei beneficio alcuno, manco la biasimano che tulli gli altri.

Con l'altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.

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Or discendiamo omai a maggior pièta:

Già ogni stella cade, che saliva

Quando mi mossi, e 'l troppo star si vieta.

Noi ricidemmo 'l cerchio all' altra riva,

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Sovr' una fonte, che bolle, e riversa
Per un fossato che da lei diriva.
L'acqua era buia molto più che persa;
E noi in compagnia dell' onde bige
Entrammo giù per una via diversa.
Una palude fa, ch' ha nome Stige,

Questo tristo ruscel, quando è disceso
Al piè delle maligne piagge grige.
Ed io, che di mirar mi stava inteso,

Vidi genti fangose in quel pantano,
Ignude tutte e con sembiante offeso.
Questi si percotean, non pur con mano,

Ma con la testa, e col petto, e co' piedi,
Troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon Maestro disse: figlio, or vedi
L'anime di color, cui vinse l'ira:
Ed anche vo' che tu per certo credi,
Che sotto l'acqua ha gente che sospira,
E fanno pullular quest' acqua al summo,
Come l'occhio ti dice, u' che s' aggira.
Fitti nel limo dicon: tristi fummo

95. CON L'ALTRE: Come le altre. Con per Come (Vedi ciò che si è per noi notato, Purg. XIII, 9 ec.).

La Fortuna è duce e ministra degli splendori mondani, come le prime creature (ovvero gli angeli, ed intelligenze) son condottieri de'cieli. (Vedi vv. 73-81): dunque la fortuna è in diverso ordine, epperò la particola con deve significar somiglianza, non compagnia. Ella volve sua spera come le prime creature, e non con essoloro; come frantendono altri. Cel dice anche il Poeta nel verso 85 e seg.:

Ella provvede, giudica e persegue Suo regno, come il loro gli altri Dei. LIETA. Vedi vv. 88, 89 e 90 in fine. 96. VOLVE SUA SPERA. La spera di questo mondo inferiore, secondo che

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(come) gli allri angeli volgono anch'es-
si le loro spere de' cieli. Bargigi.

106. Orazio, Lib. II, od. XIV, 7:
Qui (Pluto) ter amplum
Geryonem Tityumque tristi
Compescit unda.

121. Tristi fuMMO. Si è finora tenuto questi tristi essere gli accidiosi; pure cotestoro non qui, nel cerchio quinto, son posti dal Poeta; ma ne parla egli nel Purgatorio (XVIII, 106 ec.):

O gente, in cui fervore acuto adesso

Ricompie forse negligenza e indugio Da voi per tepidezza in ben far messo ec. Si dice (v. 123) che quei tristi vivendo di qua portaron dentro accidioso fummo. «Il Tristo che porta dentro accidioso fummo, è tanto un Accidioso, quanto uno Svizzero, che portasse dentro lo sto

Nell' aer dolce, che dal sol s'allegra,
Portando dentro accidioso fummo:
Or ci attristiam nella belletta negra.

Quest' inno si gorgoglian nella strozza,
Chè dir nol posson con parola integra.
Così girammo della lorda pozza

Grand' arco tra la ripa secca e 'l mezzo,
Con gli occhi volti a chi del fango ingozza:
Venimmo appiè d' una torre al dassezzo.

maco un litro di Sciampagna, sarebbe
uno Sciampagnese.» Fm. Torricelli. Qui
dunque portano lor pena gl'Incontinen-
ti dell'Ira, che sono, secondo Aristotile
e S. Tommaso, di due maniere: cioè I-
racondi e Tristi: quelli che d'ira legger-
mente s'accendono e la sfogano; questi
che altresì la concepiscono, ma la cova-
no nel cuore senza lasciarne di fuori di-
vampar fiamma. De' primi è l'ira acuta,
de' secondi l'ira manens, che dicono i
maestri in divinità. Dante cel dice egli me-
desimo per le parole (v.121): tristi fum-
mo e (v. 124): Or ci altristiam.

Ma se l'Accidia è uno de' sette vizi capitali; perchè non ha ella suo luogo in Inferno? Bisognerebbe dimandarlo a Dante. Certo chi gironzi per quelle bolge, non vi troverà accidiosi; tuttochè i comentatori ve gli abbiano piantali, contro le leggi della Monarchia di Dio; se pure non fossero mischiati e confusi nella calca de' callivi. Certissimo poi è che cotesti pigri e negghienti al bene operare, son più passivi a gravezza di materia, che a forza di mal volere; onde, a dispetto dell'infermità della carne, non pare difficile, che la prontezza del loro spirito accatti perdono da Dio, e si mandino al Purgatorio; acciocchè, in pena della loro accidia, si muovan poi colà pe' gironi

dell'alto monte.

122. Virg. En. VI, 363:

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che il sole sia sorto; del rende anche il de de' latini, e ha di meno che vi si dee supplire per cagione. Non vediamo adunque la ragione dell'accennata preferenza, che il Biagioli e il Bianchi accordano a del sole, meglio che a dal sole; nè come si potrebbe l'uno dir più gentile, più poetico ed elegante che l'altro; quando il proprio gusto della persona. non si costituisse ad arbitro o giudice della gentilezza, e dell'eleganza poetica.

127. Pozza per pozzo, gora; da puteum, come da trabalium, travaglio e travaglia (Vedi v. 20 not.).

128. ARCO DELLA POZZA dice il P. COme il geometra chiama arco una parte qualunque sia della circonferenza d' un cerchio.

130. AL DASSEZZO, da ullimo, all'ultimo ec. Gli antichi dicevano Sezzare per dividere; Sezzo, diviso; sezzaio, ultimo; forse da seco, divido; posciacchè per divisione si fa limite o confine o termine al tempo e allo spazio, e per questo si definiscono e distinguono le cose diverse; cioè che dove l'una finisce, l'altra comincia ed è diversa: onde pare originato il secius de' latini.

E forse ancora più immediatamente son voci derivate da Sector freq. di Sequor; quasi dicasi Sezzaio da sectarius, colui che seguita o vien dopo, alla coda; perocchè ct si convertiva in z scempia, come in actio, azione ec., e per alcuni veniva raddoppiata.

Or da sezzo vien sezzaio, come da primo, primaio ec.

Lucano: Mostrate qui tulta vostra forza e tutta la vostra vertude, chè voi siete venuti a' sezzai colpi.

Dante Parad. XVIII, 93:
Qui judicatis terram fur sezzai:

CANTO VIII.

Quinto cerchio - Passaggio di Stige.

Io dico seguitando, ch' assai prima
Che noi fussimo al piè dell' alta torre,
Gli occhi nostri n' andar suso alla cima
Per due fiammette che i vedemmo porre,
E un' altra da lungi render cenno,
Tanto, ch' appena 'l potea l'occhio torre.
Ed io rivolto al mar di tutto'l senno

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5. Render cenno, cioè all'altro segnale, già dato, delle due fiammette (v.4); poichè il rendere suppone il dare; l' un segno dice, l'altro risponde (v. 8). Da lungi render cenno, Tanto ec. Sinchisi. Ordina: render cenno tanto da lungi, che ec. Così il Poeta, Inf. XIV, 61 seg.: Allora il Duca mio parlò di forza Tanto ch'io non l'avea si forte udito.

Cioè: parlò tanto di forza, o tanto forte, che si forte io non più l'avea udito.

6. Questo si dice non indarno, per dinotare le distanze de' due punti. Di notte, i due telegrafi erano a fochi. Se nei tempi del viaggio Dantesco fossero stati

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gli elettrici; i diavoli potean meglio, non dando altrui menomo indizio, avere in custodia, senz'altra provvisione, la Città dolente.

7. Savissimo fu tenuto Virgilio come sommo poeta. Altrove il Nostro:

E quel savio gentil che tutto seppe. Qui detto mar di tutto senno; essendo in lui personificata l'umana ragione.

Senno, che per gli antichi valse senso, è preso dall' Alighieri per saviezza, come oggi s'intende. Dovea ciò fare chi teneva che:

Nostra natura da sensato apprende

Quel che fa poi dell'intelletto degno. e che l'anima con l'intelligenza sua non si addimostra se non che per effetto, come per verdi fronde la vita delle piante. Veggasi dai seguenti luoghi, come appo i primi nostri scrittori senno per senso s'adoperasse, e viceversa. Ser Brunetto, Tesoro Lib. Í, cap. XV: Noi avanziamo gli altri animali non per forza nè per senno, ma per ragione, e la ragione è nell'anima, ma senno e forza sono nel corpo; ed alle corporali cose basta bene lo senno della carne; ma alle cose non corporali è mestieri la ragione dell'anima. Dante chiama il suo Duca mar di tutto senno, come i Latini appellavano emunctae naris vir l'uomo per lunga sperienza degli anni fatto scorto, pratico ed esperto della vita; risolvendosi l'esperienza nell'esercizio de' sensi aiutati dal razionale discernimento. Laonde lo stesso Latini, analogamente a quel che nel

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