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De' ben, che son commessi alla Fortuna, Per che l'umana gente si rabbuffa; Chè tutto l' oro ch'è sotto la luna,

rò sì tronfi e vani; ma che quel vento prospero ha breve durata. Al Poeta corse per la fantasia l'idea di cotesta inane gonfiezza che sogliono male ingenerare i favori della fortuna; ma poco innanzi avendo toccato dell'enfiata labbia di Pluto, e detto:

Quali dal vento le gonfiate vele Caggiono avvolte poi che l'alber fiacca. tale essere a terra caduta la bestia crudele ch'è il superbo dio delle ricchezze; a non dipingere con gli stessi colori la simigliante imagine del suo pensiere relativa all'enfiata labbia dell' uomo secondato dalla ventura, ricorre ad un'altra locuzione figurata, che ha un grado di valore estetico trascendente, chi consideri la varietà, cui serve il poeta, come ad elemento della bellezza; gli obbietti on de son tratte le similitudini, e, senz' altro, l'opportuna proporzione ai subbietti: poichè per la prima vien paragonata la superbia di Pluto (nume infernale) alla vela gonfia; e per la seconda quella dell'uomo a un pallone di vento.

Noi dunque, infino a che per punta di ragioni, non sarem convinti del contrario, teniamo la sentenza degli addotti versi esser questa: Or puoi, figliuol, vedere quanto breve duri l'aura della fortuna, onde si gonfiano i pelli umani: concetto variamente ribadito negli altri versi, ov'è detto di lei:

Che permutasse a tempo li ben vani: e che:

Le sue permutazion non hanno tregue. Per la qual cosa ci maravigliamo che uomini di tanto merito, dopo aver preso Buffa per soffio, vanità, gioco, passino all'accapigliarsi e alle zuffe delle umane genti; come se l' Alighieri abbia voluto che si abolissero i tribunali e i piati; anzi che levarsi dal mondo l'orgoglio che mettono nell' animo le fugaci ricchezze.

Agli argomenti estetici, e filosofici aggiungiamo quelli che vengono in nostro favore dalla Filologia e dalla Etimologia. Bufo dissero i Latini la botla, animale ch'è tutto in gonfiezza di brutta forma,

e con proprietà di vocabolo Fedro disse della rana: Rugosam inflavit pellem. Buf è pe' provenzali voce imitativa del gonfiamento delle gote, che si fa nel soffiare (insufflatio). (Grassi, voc. Schernire e Beffare); e quindi Buffa per vento impetuoso e corto; onde il Caro (En. I): Così dicea; quand'ecco d'Aquilone Una buffa a rincontro, che stridendo Squarciò le vele e'l mar spinse alle stelle. Buffare dovette dunque, quando che sia, valer tanto, quanto Soffiare; altrimente non si avrebbero i derivati e composti: cioè rabbuffare (nel senso che detto è), sbuffare, buffettare, bufèra, buffata, buffo, che son tutti nati di soffio, nè si spiegano senza intendervisi l'elementare costitutivo del vento. Dirò dippiù, col Grassi, che dal bisavolo Buf nacque la beffarda genìa delle beffe, del beffare, del beffeggiare e del beffeggiatorio, beffabile, beffeggiamento; giacchè poi non si pone in dubbio la legittimità della buffoneria, buffonata e bufferia, che discesero per linea diretta dal soffiare e gonfiar le gote; atto ridicolo e villano, ma senza di cui i proto-buffoni non avrebber potuto nè incominciare, nè seguire il loro buffonesco metro del buffonare e del buffoneggiare.

64 segg. CHÈ TUTTO L'ORO ec. La terzina che comincia per queste parole è stata sino ad ora male intesa nel costrutto,e peggio frantesa quanto al concetto. Perciocchè il verbo sustantivo vi si adopera dal Poeta le ben due volte, non già con la generica sua nozione di esistenza, ma dippiù con quella di appartenenza; e le parole: di queste anime stanche non esprimono un genitivo partitivo, ma di possesso, retto non mica dal numerale una, ma da' verbi fu ed è nel sentimento ch'è delto. Quindi è un grossolano errore porre il comma dopo luna e dopo fu, che fa attribuire all'autore una sentenza, ch'egli non ebbe in animo di significare con quelle parole.

Chi vuole insinuarsi nella mente dell'Alighieri e pigliar il vero suo intendimento in questa terzina, leghi ad oro,

O che già fu, di quest' anime stanche

ch'è il soggetto, le due incidenti che sono nella seconda metà del primo verso e in tutto intero il secondo; e si legga con la seguente interpunzione la detta terzina:

Chè tutto l'oro, ch'è sotto la luna

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passati di gente in gente per effetto delle permutazioni perenni dell' instabile Dea; il che par che sia un altro acuto pungello che gli martora. L' è poi vi sta molto acconcio, ed ha risguardo all' oro che ancora persiste nelle case di quelle anime stanche, e che perciò è di esse, ma senza pro. L'Alighieri, chè mira al perfezionamento morale, religioso e civile dell'umanità, trova per questo argomento come insinuarsi nel cuore di chi legge ed ispegnere ogni favilla di cupidigia.

Non han qui luogo i passi allegati dell'illustre Tommaseo: e vediamolo: « Luna. Dan. IX, 12: Male qual mai non fu sotto tutto il cielo ». Si può ben dire: Male qual mai non fu sotto tutto il cielo; imperocchè o che s'intenda morale o fisico cotesto male, può esso crescere o scemare a seconda che più o men si corrompa l'animo umano, più o meno procedano ordinate al suo fine le cause seconde: ma dire poi tutto l'oro... che fu sotto la luna è dire un impossibile, qual sarebbe che potesse uscir fuora dai confini della terra, dove, anche a detta del Poeta, l'oro e le ricchezze si permutano: Di gente in gente e d'uno in altro sangue. le ha tra le branche la Fortuna, da cui non trapassano agli altri pianeti.

E che già fu di queste anime stanche, Non poterebbe farne posar una. La sola forma grammaticale del deltato, se i dotti comentatori vi avessero più sottilmente atteso, potea da sè sola farli scorti, come il secondo caso richiesto dall' addiettivo partitivo numerale una v'è chiuso nel pronominale ne affisso al verbo nella parola farne; la qual particola pronominale vi starebbe oziosa alla presenza del primo genitivo; ovvero farebbe un ripieno non addimandato, sia dalla evidenza ed efficacia, sia dal numero od armonia del periodo. Sappiamo, di questi pleonasmi esservene in buondato ne' più egregi scrittori, e che in questo luogo l'affigere la particella pronominale al verbo rende il verso più pieno, ed evita lo scontro spiacevole di due indefiniti che hanno la stessa cadenza: ma oltre che Dante è sì regolato scrittore e sì ricco di ripieghi e di modi, che lieve gli sarebbe stato provvedere altrimente alla sua locuzione, e di vivez-e za e di armonia; sta il fatto però, ch'egli consegue l'uno e l'altro pregio, senz'uopo delle figure che la grammatica gli avrebbe anche accordato; perchè il ne di farne per costruzion regolare vi sta come pronome riferito alle anime stanche. Intende dire il Poeta: tutte le ricchezze che sulla terra furono e sono di questi avari, se si riunissero insieme, non varrebbero a farne posare un solo dalla zuffa, a cui furon posti per irrevocabile giudizio di Dio. Con che si vuol dinotare il vano studio che posero que' miseri in accumular tant'oro di nessun giovamento nell' altra vita; e questo concetto lega la terzina alla precedente, ed esprime la ragione della corta buffa de' beni commessi alla Forluna, che oltre la tomba non dura. Ed è notevole quel fu postovi a bello studio per significare le ricchezze che di presente non erano più d'alcuni tra quelli avari, ma

Altra chiosa: «(F) Posar. In una canzone dice che le ricchezze raccolte: Non possono quietar, ma dan più cura ». Ma qui il nostro poeta parla delle sollicitudini che nella vita presente si durano ad accumular le ricchezze e a mantenerle ; nella terzina in esame si dice delle ricchezze già acquistate e che non hanno forza di alleggiare, nonchè redimer dalla pena, le anime dannate di avarizia. Nel primo caso non si ha quiete per effetto della viziosa passione; nel secondo per difetto ed inefficacia del mezzo: due cause, l'una subiettiva, l'altra obiettiva; epperò il paragone non regge; e Dante della canzone non chiarisce Dante della Divina Commedia. Dicasi lo stesso del restante. Sicchè le autorità addotte dal valentuomo, belle che fossero, son fuori luogo, ed anzichè illustrare oscurano il sublime concetto dell'immortale Alighieri.

Non poterebbe farne posar una. Maestro, dissi lui, or mi dì anche:

Questa Fortuna, di che tu mi tocche,

Che è, che i ben del mondo ha si tra branche?

E quegli a me: o creature sciocche,

Quanta ignoranza è quella che v' offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne imbocche.

Se questi ci avesse detto (come da sei secoli gli han fatto dire i chiosatori) che tutto l'oro del mondo non vale a far posare una sola di quelle anime stanche,noi non gli avremmo le grandi mercedi. Sapevancelo ancor noi piccini che nell'inferno non fil redemptio; anzi sappiamo dippiù, che la divina giustizia è ben altra dall'umana, cui può corrompere la potenza dell' oro. Sappiamo, che tutto l'oro del mondo non può mica cessare il tribolo degli avari e nè de' traditori, de' violenti, degl' iracondi, de' carnali e di chiunque altro si trovi dal limbo fino all'ultimo foro del cono inferna

le. Laonde si farebbe carico a Dante d'aver detto, de' soli avari, quello che può, e deve onninamente dirsi di tutt'i dannati. E questa inconvenienza si leva anche via, tenuta la lettera e l'interpretazione, che noi proponiamo e che sinceramente sottomettiamo ai nostri maestri, e al fino ed imparziale giudizio de' nostri lettori.

66.POTEREBBE. Inflessione regolare da Potere, siccome da temere, temerebbe. Da Potre, una delle tante configurazioni di questo verbo, si può venire Potrebbe, se nol si voglia piuttosto voce sincopata dello stesso Poterebbe. Si diceva in antico porrebbe da porre, potere; ma Poterrebbe che si legge nel Testo del Tommaseo pare erroneo, se non si abbia esempio dell'indefinito Poterre. (Vedi Inf. IX, 33).

Jacopo da Lentino:

Che senza lei non poteria gaudire. Ciullo d'Alcamo:

Avere me non poteria esto monno. Il Bembo, Asol.:

Il poteremmo noi fare.

L'uso insegnò che, ad evitare gli equivoci, si convenisse lasciar queste cadenze al verbo Potare, ritenendo potrei, potresti ec. Al poeta accade di dovere ri

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pristinarne l'uso antico, ed egli lo farà, senza tema che abbiano a confondersi le distinte significazioni di potere e potare.

67. DISSI LUI. (Vedi Inf. I, 81). Mi Dì. Le particelle pronominali raramente si prepongono agl'imperativi; ma quest' or mi dì è di tanta vaghezza, che farebbe ribellarsi alla regola grammaticale.

Non di', come in alcuna moderna edizione; ma dì siccome i più accorti han ritenuto dopo le osservazioni del Nannucci. (V. Teorica de' Verbi pag. 321, Fir. 1843, Le Monn.).

Si deve scrivere di', giorno, dì imperativo di Dire, e di preposizione. (Vedi Paradiso V. 122)

68. ТосCHE è per Tocchi; ma non in forza della rima. (Vedi Purg. XXV, 36)

69. CHE È, CHE è il pretto sputato Quid est, quod de' latini; e vale Perchè mai, Ond'è che ec.

BRANCHE. L'illustre Tommaseo ha sì bene afferrata la forza di questa voce ; che meglio non si poteva spiegar la cagione, onde Virgilio riprendesse Dante con fare il panegirico della Fortuna.

72. IMBOCCARE figuratamente per Credere alla cieca usano anche oggidì nel contado i Calabri: comunemente Ingollarsela ec.

Il traslato è preso da' bambini, che non guardano checchè di cibo lor si ponga in bocca. Virgilio vuole che il suo alunno accetti la sentenza come vera, senza discussione. Le chiose al testo del Cod. Cassinese: Volo quod capias meam sententiam pro vera.

Virgilio stesso (En. II, 1): intentique ora tenebant; che, sebbene si volti: pendeano intenti dalla bocca di Enea ec. pure la lettera dice proprio bocca, ma per Sineddoche pigliasi in sentimento di

Colui, lo cui saver tutto trascende,

Fece li cieli, e diè lor chi conduce,
Sì ch' ogni parte ad ogni parte splende,

faccia; siccome bocca per viso, aspetto
o faccia Dante adoperò alla latina (Purg.
XXXI, 136):

Per grazia fa noi grazia che disvele A lui la bocca tua, si che discerna. La seconda bellezza che tu cele. La parola di verità è cibo dell' anima, perchè non in solo pane vive l'uomo. Il Nostro più ch' una volta fa uso di questa metafora: eccone degli esempi:

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Ciò ch'io ti dicerò, se vuoi saziarti. Ancora, II, 10:

Voi altri pochi che drizzaste il collo

Per tempo al pan degli angeli (a), del quale Vivesi qui, ma non sen vien satollo ec.

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tori in versi e prosa. La Nina Siciliana in un sonetto di risposta a Dante da Maiano:

Lo core meo pensar non si savria

Alcuna cosa che sturbasse amanza ec. Fra Guittone Lett. XIV: Carissimi e amatissimi molto miei, ben credo savete che da fiera non è già che ragione in conoscere e amare bene... E dovete savere che non città fan già palagi nè rughe belle, nè uomo persona bella nè drappi ricchi, ma legge naturale, ordinala giustizia, pace e gaudio intendo che fa città... Oh che dolci e dilellosi e savorevili frutti gustate avete... E voi (a voi) ha più savore in guerra buccella secca, che in pace ogni vidanda... Vinca, vinca ormai saver mattezza. Ivi anche disavere in sentimento d'ignoranLett. V: Soprappiacente donna, di tutto compiuto savere.

za.

Meo Abbracciavacca (1250) Lett. a

Nell' Inferno (XIV, 85 e segg.) Virgi- Mess. Dotto: E se vostra intenzione non

lio a Dante:

Tra tutto l'altro ch'io t'ho dimostrato,
Posciachè noi entrammo per la porta,
Lo cui sogliare a nessuno è negato.
Cosa non fu dagli occhi tuoi scorta
Notabile, com'è il presente rio,

Che sopra sè tutte fiammelle ammorta. E Dante appella col nome di pasto ciò che di nuovo s'offre ai suoi occhi, e può venirgli descritto e spiegato dal Savio Duca; onde soggiugne immediatamente: Queste parole fur del Duca mio:

Perchè 'l pregai, che mi largisse il pasto, Di cui largito m'aveva il disio. Da ultimo, lo stesso Convito (opera dove il Poeta addestrava il suo ingegno a spiccar dipoi voli più alti nel sacro Poema) non è, a sua detta, che una imbandigione d'elette dottrine, onde lo spirito s'alimenti (b).

73 segg. SAVER. Savere per Sapere pel facile scambio della v col p. Si trovano infiniti esempi tra gli antichi scrit

(a) Pan degli angeli è propriamente la manna piovuta nel deserto agli Ebrei. Salm.LXXVII v. 27, 28, 29. Figuratamente è presa per l'Eucaristia, é Dante forse togliela per la Parola di verità tenuta in virtù della Rivelazione.

(b) Altra lez. tutti... imbocche, cioè a tutti.

si pagasse (appagasse) ripulatene il poco saver mio. Brun. Latini, Rettor.: Materia di quest'arle dicemo che sia quella nella quale tutta l'arte, e lo savere che dall'arle s'apprende dimora.-Che se Ermagoras avessi (avesse) in queste cose avuto grande savere acquistato per istudio e per insegnamento. Id. Oraz. per M. Marcell.: Che già follia non si mescola con savere, nè sorta di ventura non si riceve in buono consiglio. Vegez. Lib. III, cap. XXVI: La natura crea gli uomini forti per animo, ma 'l savere gli redde migliori per buoni ammaestramenti. Quindi il Poeta Inf. XI, 92 seg.:

Tu mi contenti si quando tu solvi, Che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. in questo canto, v. 85:

Vostro saver non ha contrasto a lei.

e in più altri luoghi.

Intorno al fino magistero dell'arte Dantesca che rifulge anche in questo luogo (vv. 73 a 81 ec.) così G. B. Niccolini (c):

(c) Dell'universalità e nazionalità della Divina Commedia. Lezione detta nell'Accademia della Crusca li 14 settembre 1830.

Distribuendo ugualmente la luce:
Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,

Che permutasse a tempo li ben vani

Di gente in gente e d' uno in altro sangue, Oltre la difension de' senni umani:

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Perchè una gente impera, e l'altra langue,

Seguendo lo giudicio di costei,

Che è occulto, come in erba l'angue. Vostro saver non ha contrasto a lei: Ella provvede, giudica, e persegue Suo regno, come il loro gli altri Dei. Le sue permutazion non hanno triegue: Necessità la fa esser veloce,

Con quanto senno, e con quanta novità, la ricchezza, la potenza, tutti gli splendori mondani sono paragonati alla luce che per natura si diffonde, e passa di cosa in cosa, che nessun può far sua, che di necessità si divide! Osserva il valent' uomo che fra gl' infiniti pregi del nostro Poeta gli è proprio ancor quello che consiste nello scoprire fra le cose una relazione inaspettala e vera nella sua novità.

81. DIFENSION. Opposizione, ostacolo, difesa, guardia, provvedimento. V. Inf. VIII, 123, XV, 27:

84. IN ERBA L'ANGUE. Perchè quando talora par che la fortuna ci asseconda, il suo riso è come di fiori, tra cui la serpe velenosa s'asconde.

Virgilio Ecl. III, 92 seg.: Qui legitis flores, et humi nascentia fraga, Frigidus, o pueri fugite hinc, latet anguis in (herba.

Metafora bella, quanto vera.

88 segg. PERMUTAZIONE è qui gran mutamento; e grandi e strane son le mutazioni della fortuna. Dante diede al per, particola intensiva latina, la stessa forza nella predetta voce composta.

Non hanno triegue: non posson patteggiare, obbligar la fede, entrare in accordi con gli uomini; come si fa tra due campi nemici per sospendere le ostilità. Così niuno perseguitato dalla avversa fortuna speri pace o posa, e dalla

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propizia secondato non si reputi sicuro di qualche disfatta.

Tregue è voce del lat. barb., Treva tratta dal German. trew o truewe che valse fede, pace. I nostri vecchi adoperarono Treva e Trieva: e pare in accettazione di patto venire in questi versetti di Ser Brun. Latini. Tesoretto, Cap. VI:

E fece Adamo ed Eva Che poi ruppe la trieva. Trega uso il Boiardo. Nel Dittamondo, Fazio usurpò il verbo attreguare per aver pace o riposo.

Quello poi che parmi necessario notare è, che in questo luogo di Dante trieque può essere del numero singolare:

siccome in altro dice:

Vostro saver non ha contrasto... e non già: non ha contrasti. Che poi tregue sia alcuna volta detto nel meno, lo dimostra questo verso del Dittam. Lib. IV, Cap. V: A che pur tieni questo Imperio in tregui? dove tregui è da tregue come vesti, armi ec. da veste, arme ec. Dante, chi ben consideri, non avea ragione e necessità d'usare il plurale in questo luogo, come tampoco Purg. XVII, 75.

89. NECESSITÀ LA FA ESSER VELOCE. Questo luogo è franteso da' più illustri comentatori per non tenere presente il passo di Orazio imitato dal nostro Poeta. Lib. I, od. 35:

Te (Fortunam) semper anteit saeva Necessitas.
Clavos trabales et cuneos manu

Gestans aëna, nec severus
Uncus abest liquidumque plumbum.

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