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Ed egli a me: tutti quanti fur guerci
Sì della mente in la vita primaia,
Che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l'abbaia,
Quando vengono ai duo punti del cerchio,
Ove colpa contraria gli dispaia.
Questi fur cherci, che non han coperchio
Piloso al capo, e papi e cardinali,
In cui usò avarizia il suo soperchio.

Ed io: Maestro, tra questi cotali
Dovrei io ben riconoscere alcuni,
Che furo immondi di cotesti mali.
Ed egli a me: vano pensiero aduni:
La sconoscente vita, che i fe sozzi,

42. FERCI. Fecero qui, cioè, in vita. Ci, lat. hic, Franc. ici. V. Inf. IV, 53.

53 seg. LA SCONOSCENTE VITA - è la vita che non conosce, o non ha conoscenza, un vivere dissennato. Conoscente, Conoscenza, Conoscere ec. son voci significative di senno, saviezza, consiglio, sapienza; secondo che abbiamo dimostrato là dove (Inf. XXVI, 119) Dante induce Ulisse parlando ai suoi:

Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Vanno d'accordo i due luoghi dello stesso Poeta: qui vita sconoscente, che rende sozzi gli avari; lì virtù e conoscenza, che non fa di uomini bruti. S'intende come la vita sozza e brutale sia effetto della insipienza e della dissennatezza ec. onde l'uomo non è esperto e pratico de' modi che son da tenere, per onestamente condurla al suo fine. Negli avari, preti o laici, si cerca più saviezza

che rinomanza.

Vedete, verbigrazia; avrebbe egli ragionevolmente Orazio richiesto un nome illustre nel suo avaro e gliene avrebbe fatto colpa che invece di menar vita misera, non si fosse studiato ad acquistarsi fama grande con altrettanta cura, quanta n'ebbe posta ad ammucchiare ricchezze? In quella guisa ch'è virtù il contentarsi al poco, quando non si può vivere che una vita frugale; sarà per lo contrario schifoso vizio, che tra le abbondanti facoltà un uomo come Avidieno si stringa il corpo, e faccia suo cibo di quattro oli

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ve quinquenni, o si mangi il cavolo condito per sua mano propria con poche stille di putida morchia, e beva male del cercone e vesta peggio. Dalla virtù della frugalità e della masserizia dilungasi egualmente l'avaro ed il prodigo. Il gran Poeta satirico esige che, a cansare i pericolosi estremi, abbia ciascuno quella sapienza che può apparare senza altri precetti ed ammaestramenti della Filosofia, siccome il suo rustico Ofello, ch'era: abnormis sapiens crassaque Minerva:

e più non chiede.

Chi adunque patisce difetto di questo buon lume naturale, se abbandonasi alle lautezze della vita, sarà uomo brutale, che, come Ciacco (Inf.VI) giacerà per terra in mezzo alla sozza mistura delle ombre e della pioggia; (Oraz. Lib. II, sat.2): Atque affigit humo divinae particulam aurac.

Se spilorcio; sarà a più forte ragione degno che diasegli nome di sozzo e immondo, per quello che di Avidieno è detto; cui anche Orazio chiama sordido e cane. La vita di cotestoro è chiamata da Dante sconoscente; perchè a cadaun d'essi potrebbe dirsi col Venosino (Sat. I, 1): Nescis quo valeat nummus, quem præbeat usum.

Or ad un Avidieno, a un Opimio (Oraz. Lib. II, sat. 3) che si lascia ammazzar dall' inedia, prima che sgocciolare otto assi per un cordiale, un Orazio e un Dante rimprovera soltanto l'immondo vivere e l'insipienza che trascina nel fango. Che il nostro poi dica:

Ad ogni conoscenza li fa bruni.

Ad ogni conoscenza or gli fa bruni.

In eterno verranno agli due cozzi:

non vuol significare che que' chercuti e gli altri, perchè avari non divennero illustri; ma che di loro egli non conobbe niuno in inferno: imperocchè siccome l'avarizia aveali di uomini mutati in sordidi animali; così per pena simile a simile colpa, non era giusto che se ne avesse colà la menoma notizia, a maggior disprezzo della loro bassezza e viltà. Un Comentatore: L' ignobile ed oscura vita che li fece sozzi di questi vizi li rende ora oscuri e sconosciuti. Dunque bisognava che fossero nobili ed illustri perchè a Dante potessero venir chiari e cogniti? Falso. Dante dice a Virgilio ch'egli, massimamente tra coloro che non aveano avuto coperchio piloso al capo, dovea conoscerne molti e Papi e cardinali vissuti con eccessiva avarizia; ora almeno questi ultimi avrebbe dovuto riconoscere, dappoichè la vita di costoro, spezialmente al tempo del poeta, era non ignobile e molto meno oscura. Tanto ancor più, che il P. non dice vita sconosciuta ma sconoscente: al che se si fosse riflettuto, i comentatori avrebber preso un granchio di meno. Nè una vita privata, sconosciuta od oscura debb'esser necessariamente sordida e immonda; trovandosi là più sovente mondizia e miglior costume, dove ha meno di lusso e di vano culto urbano. Egregi comentatori ed illustratori della Divina Commedia spesso sforzano l'autore a spropositare e dir quello che mai non s'è sognato: e questo accade dal non esserci fatti ancora capaci, che la lingua con cui Dante cantò la Monarchia di Dio riunisce alla semplicità del greco, la santità del linguaggio biblico, la maestosa gravità del latino idioma e l'affettuosa ed erotica favella provenzalesca de' trovadori, ch'ebber di poco preceduto il Poeta. I FE SOZZI. (V. Inf. V. 78).

55 segg. VERRANNO ALLI DUE COZZI. Rei di vizi contrari gli avari e i prodighi in vita, è giusto che dopo la morte cozzino eternamente. Avarizia non usa, Prodigalità abusa l'avere; quella mal tiene, que sta mal dà. Il rimproccio che si fanno:

Gridando: Perchè tieni ? e perchè burli? son gli estremi viziosi dannati dalla ra

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gione; nel mezzo de' quali si raffrontano e stringono amiche la masserizia e la liberalità, virtù civili e cristiane che rifuggono egualmente da quelli e mettonsi a salvo dalla percossa dell'eterno cozzare. Il Poeta gli pone allo stesso martoro: perciocchè la prodigalità nuoce tanto al prodigo, quanto non giova l' avarizia all'avaro; ed entrambe non giovano e nuocono altrui. Turbando l'ordine morale con egual forza e contraria, son volti giù fino al medesimo grado di punizione; dove si percuotono incontro:

Voltando pesi per forza di poppa. a significare quanto vane riuscissero le sollicitudini, onde si cercano le ricchezze, e gli affanni, cui vanno soggetti coloro che le gittano a precipizio. Al pensiero di Dante fu presente la favola di Sisifo con l'immane sasso, e ne seppe egli trar partito di più bella e più morale invenzione.

QUESTI RISURGERANNO: quando lo squillo dell' angelica tromba gli appellerà, intuonando il: Surgite, mortui, venite ad Judicium.

DEL sembra un segno del secondo caso; ma risponde al de de' latini quando regge un nome del luogo, onde uno si parte. I grammatici avvisano non potersi adoperar di per da fuori il caso che il verbo della proposizione dinoti moto da luogo. V. Inf. XXIV:

Tragge Marte vapor di val di Magra. SEPULCRO è qui molto appositamente usato per qualunque luogo d'inumazione: e n'è invero il termine generico, sotto cui si comprende sepoltura, avello, arca, tomba, monimento, fossa, locello, tumulo, sarcofago, mausoleo, busto, urna, cimitero. (Vedi il Grassi; e il Boccaccio, Com. Dant. Lez. 37).

Il P. si tenne a bello studio stretto alla proprietà della voce; mentre poi egli stesso credette potere significare la identica idea con vocaboli che non son veri sinonimi, cioè Sepolcro, avello, arca, tomba, monimento, cimitero (Inf. IX, 115, 118, 125, 129, 131).

Fra Guitt. Lett. a Fior.: Ben denno rifiutare e padre e voi, e nel sepulcro

Questi risurgeranno del sepulchro

ispogliarsi a vostra fine (morte) riputando voi ed ogni vostro.

COL PUGNO CHIUSo. Bene il Torricelli, il Bianchi, il Tommaseo ec. notano da Diodoro Sicolo che: Sinistra compressis digitis tenacitatem, atque avaritiam significat.

E QUESTI CO'CRIN MOZZI. Se gli avari risorgeranno del sepolcro col pugno chiuso, parrebbe che i prodighi, per lo contrario, risorger dovessero con la mano aperta. Ma poichè l'avaro ha la mano quanto rattrappata a dare, tanto distesa e pronta a pigliare (a), ragionevolmente il P. non attribuisce al prodigo la mano aperta e larga, qual segno di prodigalità. Che se poi l'avaro mostra al Giudizio soltanto la mancina chiusa; ciò vuol dire, che non è reo chi accumuli oneste ricchezze, ma chi non ne faccia il suo prode e l'altrui (b).

Vediamo ora a quale intendimento si fan suscitare i prodighi co' crin mozzi. Di quanti ne verranno su dalle tombe e da' cimiteri al Giudizio universale, ciascuno (Inf. VI, 98)

Ripiglierà sua carne e sua figura:

e al cospetto del supremo Giudice pari saranno i despoti e gli schiavi, i ricchi e i poveri, i nobili e i plebei. Le corone non fregiano le teste de' Re, nè gli allori cingono le dotte fronti de' poeti, e quelle de' valorosi capitani. Non codini, non crini cimati, non zazzere olenti di soavi profumi; non addirizzature, non forfecchine, non trecce, non ricci; non opera qual si sia o di pettini, o di forbici, o di calamistri. Ma quale che natura fe l'uomo, tal v'anderà egli, non acconciato per proprio studio od arte di parrucchiere. Quindi uomini e donne deformate dalla calvizie avran capelluto il

(a) Lotario Cap. XIII: Avarus ad petendum promptus, ad dandum tardus... largus in alieno sed parcus in proprio... Gulam evacuat ut arcam impleat; corpus extenuat ut lucrum extendat. Manum habet ad dandum collectam, sed ad recipiendum porrectam: ad dandum clausam ad recipiendum apertam.

(b) Se tu vuoli avere Prudenza.... acconcia le sì come la mano face, che tuttavia (sempre) è una medesima e quando ella è chiusa e quando ella è aperta. Bono Giamb., Forma d'onesta vita.

capo; le dame bicipiti de' dì nostri abbandoneranno nelle putide arche il posticcio cignone; e i rustici cotennoni, che or si fan tonduti e rasi, appresenterannosi col coperchio peloso, non più zucconati. Vedi ora il grande spettacolo! Mentre tutti gli uomini, che nacquero e morirono, dagl'incunabuli del mondo alla fine de' secoli, saran per comparire alla gran Valle, co' suoi capelli ciascuno; dovranno i soli prodighi andarne senza. Perocchè se di qua le chiome e le zazzere sono ornamento di civile persona e segno di gentilezza e di non basso stato di chi le azzima e le coltiva, ed è da rozzo plebeo andare in zuccone: di là, che non si reputa a colpa di nessuno l'essere vilmente nato, l'alta giustizia divina con dare a chiunque la sua capellatura, cancella ogni segno di distinzione ed ammenda per l'eguaglianza naturale, il difetto della nemica fortuna. Nondimeno colui che non sa dare con senno e misura, ma dissipa le sue sostanze, e di ricco impoverisce (c), è giusto che, in pena della propria stoltezza, sia mostro a dito davanti a tutta l' umana gene

razione, in figura di rozzo ed abbietto, qual per sua opra divenne. E che tanto significhino i crini mozzi non pare da mettersi in dubbio. Infatti presso i Romani i servi rozzi e semplici eran tonduti; i comati o compti eran gli astuti e

delicati. La testa tosa e la barba rasa vi fu per alcun tempo indizio di virilità; ma Giulio Cesare copriva co' radi bioccoli la parte calva del capo, Cincinnato si nomi

(c) Nota, lettore, che non si vuol confondere i prodighi con gli scialacquatori e coi biscazzieri o barattieri, che violenti neʼloro beni son messi dal Poeta nel secondo de' tre gironi, ne' quali è scompartito il settimo cerchio infernale (Vedi Inf. XI, 40 seg. XIII, 115 seg.). Onde non pare siensi avvertiti di questo coloro, che comentando dicono: I crin mozzi significano la prodigalità, perchè lo scialacquatore tutto fonde, come pur oggi si dice, fino ai capelli. Bianchi ed altri.

I prodighi risorgeranno co' crin mozzi, perchè forse, venduta ogni cosa, da ultimo si vendettero la chioma. Torricelli. Chi scialacqua o vende fin la chioma, Dante chiama barattiere, non prodigo; e da giustamente al primo più grave pena, che al secondo. Mi perdoni l' illustre Torricelli, se gli noto questa svista in un poema ch'egli sapeva a menadito.

Col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

na da' lunghi cirri, Berenice è celebrata
dalla chioma votata agli iddii (a). Dionigi
ruba i crini d'oro ad Apollo, Venere si lo-
da dai biondi capelli, a Cupido ondeggia-
no inanellati sugli omeri. Gl' italiani gli
tennero in pregio, fino all'onor del codi-
no; nè gli aristocratici, salvo che ai garzo-
ni, non li rasero mai. Quindi tosi e tose
per fanciulli e fanciulle. Nel Dittamondo:
Non è da toso che legge l'abbi.
il Boiardo (Lib. III, C. VII, 61):

Le chiome le tagliò come a garzone.

nel Centiloq. del Pucci:

E tutt'i cittadini

V'andavan, così il toso, come il raso.

Dove toso è il piccolo d' età, ovvero, come altri intende, l'uomo vile e plebeo. Ne' framm. stor. rom. (Lib. III, сар. IV): Tagliava li capelli e le varve de auro che avevano li sii Dii. I plebei, che non potevano nè allicchisarsi, nè scrinar la chioma, la si mozzavano; dando perciò segno certo di servitù e di condizione tribolata e tapina. Orazio (Lib. I, Epist. VII, 50) dice:

Conspexit, ut aiunt,

Adrasum quemdam vacua tonsoris in umbra. toccando il costume di certi zotici, i quali, per non istare a spendere ogni poco i lor quattrini alla barbieria; si facevano, una per le più volte, tosare i capelli rasente la cute.

Per pelare o ridurre alcuno a misera condizione spogliandolo del suo, dice anche il nostro volgo: Fare altrui il caruso, e Plauto (Capt. II, 2, 18) adopera in questo senso figurato la frase strictim attondere: Sed utrum, strictimne attonsurum dicam esse, an per pectinem nescio. Cioè: Non ti so io dire se gli cimerà i capelli, o glieli raderà (b).

Appo i Giudei, i Greci, i Longobardi ed altre genti si mozzavan le trecce alle giovani che andavano a marito: la quale

(a) Catone il censore è detto intonso da Orazio, con epiteto distintivo degli antichi romani; appo i quali l'uso di rader barba e capelli fu introdotto dopo 454 anni della fondazione di Roma, e i barbieri v'andarono dalla Sicilia.

(b) Rudere debbe poter dirsi del capo che si zuccona; poichè nel miglior fiore della latinità, il volgo diceva rasores, dove gli altri dicevano novaculae, i rasoi. Cantù. Stor. letterat. lat. Le Monn. 1864.

consuetudine significava ch'elle, non più libere nel loro stato, passavano sotto la dipendenza di lui. Ond'è che la donna nubile si disse Vergine in capillis od intonsa (Murat. Rer. italic. script. tom. II, p. 5); e che dura ancora tra noi la sacra cerimonia d'arritondare i capelli alle suore ed ai frati, i quali rinunziano al secolo, e non più indipendenti e liberi, si rendono servi di Dio ed annegano la propria volontà (c).

Dal che si fa chiaro, i crini mozzi, che Dante attribuisce ai prodighi, esprimere servitù, dipendenza, e vil condizione plebea. Che se l' avaro è servo sotto la si

gnoria tirannica della sua passione; il prodigo, poichè si fu spogliato della sua proprietà, in cui consiste il fondamento della creazione, la condizione dell' esivien servo di tutti, e ricordasi invano del stenza, il coefficiente della vita (d), ditempo felice nella miseria.

fra tante anime nere, si scelgano i soli Resta da ultimo a vedere com'è che, prodighi e gli avari allo spettacolo, che su è detto. L' Alighieri trova nell' avarizia, e quindi nell'opposto vizio, la trista sorgente di tutti i mali (e); imperocchè l'udiamo (Inf. I, 49) dire:

Ed una Lupa che di tutte brame

Sembrava carca nella sua magrezza,
E molte genti fe già viver grame ec.

All'enfiata labbia di Pluto, ch'è la superba gonfiezza di Mammona, dio dell'oro, fa rivolgere Virgilio con quelle for

ti parole:

Taci maladetto Lupo.

varizia.
Nel XX del Purgatorio chiama egli l'a-

...

il mal che tutto il mondo occuра.

(c) «Presso i Franchi, gli Alemanni, i Sassoni, quindi era sommo affronto tosare un uomo libei Wisigoti, gli schiavi avevano la testa rasa; ro, giacchè questo atto gli toglieva l'unica marca distintiva della sua condizione». Traité des coûtumes Anglo Normandes, tom. I, p. 29. V. Melch. Gioia. Merito e Ricomp. tom. I, c. II, § 4. (d) Filippo Cervo, Prolusione allo studio del Dritto pubblico univ. ec. Nap. 1867.

(e) Radix omnium malorum est cupiditas così la Volgata. Il testo greco φιλαργύρια (Philargyria) che S. Girol. volto in cupiditas per avarizia; quasi cupidigia più crudele di ogni

altra.

Mal dare, e mal tener lo mundo pulcro
Ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
Qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

e apostrofandola dice:

Maledetta sie tu, antica lupa,
Che più di tutte l'altre bestie hai preda,
Per la tua fame senza fine cupa!

L'avarizia e la prodigalità non solo agl'individui, ma son disastrose e funeste ai popoli ed agli Stati. Si mostra nella Lupa romana che nocque alla Religione ed alle genti, e nella nuova Italia che gitta ai cani le ricchezze sue. I papi vedrem dunque al gran Giudizio comparire col pugno chiuso, e l'Italia, se innanzi che venga il finimondo non rinsavisce, farà di sè miserando spettacolo, mozza il crine e tonduta e rasa infino alla cuticagna.

Anche in Purgatorio (XXII, 46-54) Stazio venne scambiato per avaro da Virgilio; ma dice ch' egli ebbe pecca di prodigo e lì era a purgarsi con quelli del vizio opposto:

Quanti risurgeran co' crini scemi,

Per l'ignoranza che di questa pecca Toglie il pentir vivendo, e negli estremi! E sappi che la colpa che rimbecса Per dritta opposizione alcun peccato, Con esso insieme qui suo verde secca. Però s'io son tra quella gente stato Che piange l'avarizia, per purgarmi Per lo contrario suo m'è incontrato. Rechiamo questo luogo come comento al passo che qui annotiamo.

58. MONDO PULCRO è il Paradiso. L'avarizia e la prodigalità tolse ai miseri il mondo pulcro; ch'è quanto dire per mal tenere e mal dare son dannati. Mondo cieco o malo suole dal nostro poeta chiamarsi l'Inferno; dolce, chiaro o mortal mondo questo della vita presente.

60. PAROLE NON CI APPULCRO. «Altri libri hanno: parlare non ci è pulcro, quasi voglia dire; meglio è tacere, ed in questo modo il testo è più chiaro: Bargigi.» - Veramente questa lettera renderebbe quella sentenza detta dal Poeta con altre parole (Inf. IV, 104):... il tacere è bello. Questo pregiato comentatore spone la comune lezione: Qual' ella sia questa zuffa, io non CI APPULCRO PAROLE; non ci voglio adattare parole belle

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ed ornate, perocchè non la voglio descrivere. Così, l' un dopo l' altro, tutti. Noi osserviamo, il Petrarca (in una Frottola) dir simigliantemente:

Mie parole non fregio: tu tel vedi. e ne pare, questo appulcrar parole valer tanto, quanto fregiarle. Dante stesso ci avvisa che dica lo stesso in altri termini nella frase: la lingua abborrire fiori (Inf. XXV, 143 seg.):

e qui mi scusi

La novità, se fior la penna abborra. cioè se il mio stilo è stato alieno da ornato ec. Così l'intende il Bargigi ed altri (a).

61. Buffa e rabbuffa hanno stretta affinità: come può andar dunque che buffa vaglia gioco, e rabbuffa valga si turba e s'irritano l'un con l'altro? E se per altri corta buffa è breve soffio, breve vanilà, o corto giuoco; com'è mai che cotesto soffio e cotesta breve vanità figli il verbo Rabbuffare, in sentimento di accapigliarsi e venire a zuffa? È invero una metamorfosi nuova, che per incanto è comparsa a provare come del fico possa nascere il grappolo e della vite il fico (b), e che così in filologia non sia da tener conto sempre delle significanze delle voci per le fonti da cui si derivano. Salva la reverenza debita agli antichi comentatori che fecero o tennero la sopraddetta interpretazione, quali furono il Boccaccio, Benvenuto da Imola, il Landino, il Daniello ec. e tra i moderni più celebri, al Tommaseo, al Bianchi, ed altri; a noi pare che Dante voglia qui dire, che i beni dispensati dalla Fortuna son quasi un soffio, del quale gli uomini si rigonfiano come fa otre o vescica, e vanno pe

(a) Altri, massime i moderni, prendendo por per alcun poco e aborrare per aberrare; spiegano: se alcun poco la mia penna aberra, devia. II Costa non è per quest'ultima sposizione, la quale per altro è bella ed ha ragioni per sostenersi. (V. B. Bianchi)

(b) Ma dell' ulivo che fece il grappolo d'uva diede avviso Alessandro Marchetti al Redi; il quale ne lo ringrazia con lettera del 14 settembre 1677. V. vol. IV, pag. 66, Ven. 1728.

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