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Nostra vita senza mezzo spira
La somma beninanza, e la innamora
Di sè sì, che poi sempre la desira (1);

e quivi affinandosi all'amorosa contemplazione di quel Bello soprannaturale, spicca ancor più alto il suo volo, e diviene lucido e puro come lucidi e puri sono quei mondi, dentro ai quali dolcemente trascorre come in propria sede, pregustando un' eco di quelle ineffabili armonie, che i Beati innalzano all' Altissimo sulle sante corde

Che la destra del cielo allenta e tira (2).

E' si direbbe che in tale impulso di luminoso amore, in questo possente bisogno dell'anima di sublimarsi al Creatore, stia la prova che le creature tendono al loro fine; e ciò è luce, ciò è amore, amore e luce che si compendia nel semplice concetto

La Provvidenza che governa il mondo (3):

ed ecco la maravigliosa sintesi della Divina Commedia, ecco tracciata la via a disvelarne il sottile intendimento e la sua progressione, racchiuso, come in germe fecondo, in questi altissimi versi:

(1) Parad. VII. 142.

(2) Parad. XV. 5.

(3) Parad. XI. 28.

E ibid. I. 103., dove parla dell' ordine

nella creazione, conclude (v. 121.):

La Provvidenza, che cotanto assetta,
Del suo lume fa il ciel sempre quïeto.

Esce di mano a lui, che la vagheggia
Prima che sia, a guisa di fanciulla,
Che piangendo e ridendo pargoleggia,
L'anima semplicetta, che sa nulla,

Salvo che mossa da lieto Fattore,
Volentier torna a ciò che la trastulla (1),

cioè al mare d'ogni luce e d'ogni amore,
Al fine di tutti i disii (2).

(1) Purgat. XVI. 85.

Rammenta quel di S. Agostino: « Fecisti nos, Domine, ad te; et inquietum est cor nostrum do» nec requiescat in te » (Confess. I.) E S. Tommaso, Somm. 1. 2. 2: «Non può la beatitudine dell' uomo essere che in un bene per»fetto, il quale non si rinviene in alcuna cosa creata, ma » solo in Dio; perchè ogni creatura non ha bontà se non par» tecipata.»> È secondo questa dottrina che il Poeta disse Dio:

Lo bene,

Di là dal qual non è a che s' aspiri (Purgat. XXXI. 23), il desire dello intelletto (Parad. I. 7). V. anche le parole di Adriano V., Purgat. XIX. 106-111.

(2) Parad. XXXIII. 46.

II.

Degli accennati principj (chi ben guardi) si valse Dante, per ciò che spetta al mio proposito, a comporre il suo Poema, che fu e sarà sempre la maraviglia di tutti i secoli e di ogni colta nazione.

Lo sventurato Poeta, colla mente annebbiata in parte dalle ire fratricide delle fazioni, col cuore gravido di profonde amarezze e di disinganni, giusto, ma non inteso (1), perseguito da un ingrato popolo maligno, che gli si fe' nemico pel suo ben fare (2), e perchè egli era nemico ai lupi che davan guerra alla sua cara Firenze (3), ristucco di una compagnia malvagia e scempia,

Che tutta ingrata, tutta matta ed empia (4)

(1) Inf. VI. 73.

Inf. XV. 64. A questo elogio de' Fiorentini Brunetto aggiunge poi l'altro (Ibid. v. 67.) in forma di avviso:

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;

Gente avara, invidiosa, superba:

Da' lor costumi fa che tu ti forbi;

mentre Ciacco (Inf. VI. 49.) avea detto Firenze piena D'invidia si, che già trabocca il sacco. Dante parve mettere in pratica l'avviso di Brunetto; e nel titolo dell' Epistola a Can Grande (che è la XIV. dell' ediz. di Livorno, 1843) si dice: Florentinus natione non moribus.

(3) Parad. XXV. 6. (4) Ibid. XVII. 62-65. Nell' Epist. IX. chiama ævum delirans il suo per l'opposizione de' Guelfi all'autorità imperiale.

si farebbe contra lui, lasciata ogni cosa diletta più caramente, ben prevedendo che avria dovuto provare

siccome sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e il salir per le altrui scale (1), dottisssimo nella filosofia, nella teologla, negli studi biblici (2), e in ogni fatta di scienza, rivolse ogni studio alla composizione del suo Poema, al quale dovea por mano e cielo e terra, e farlo per più anni macro (3): esule infelice, crescendo

(1) Parad. XVII. 55-60. Convito tratt. I. cap. 3: «Peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra a mia voglia la piaga della fortuna.... Epist. II. § 3:... Inopina paupertas, quam fecit exilium. Epist. XIV. § 33: Urget me rei familiaris angustia.» Dante, il dice egli stesso (Inf. XV. 70-72, e Parad. XVII. 68) riuscì a non essere nè guelfo nè ghibellino, biasimando il male dovunque s'annidasse, dovunque venisse lodando il bene: riuscì insomma non timido amico al vero (Parad. XVIII. 118); e a dirlo francamente a tutti, anche se disgustoso, n' avea ricevuto lode e conforto da Virgilio (Inf. VIII. 43), ed espresso comando da Beatrice (Purgat. XXXII. 104 e XXXIII. 53), e da Cacciaguida (Parad. XVII. 128); perchè « quello Maestro de' filosofi, Aristotile.. dice: · Se due sono gli amici, e l'uno è la Verità, alla verità è da consentire» (Convito, tratt. IV. cap. 8. V. Epist. XII. § 5).

....

(2) Le citazioni e i riferimenti della Divina Commedia ai libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, e ai detti dei SS. Padri (come osservò il ch. Cavedoni) sono 59 nell'Inf., 139 nel Purgat. e 95 nel Parad.; in tutto 293 (V. Opusc. Letter. ecc. di Modena, vol. X. e segg.).

(3) Parad. XXV. al princip.

sempre peggio le intestine discordie, dileguandosi ad una ad una tutte le più care speranze di ritornare in patria come innocente (1), si vale della sua Opera a correggimento di sè e dell'umanità traviata, e per la sola eccellenza di essa spera quandochessia di vincer la crudeltà che fuor lo serra del bello ovile ove dormi agnello, e di pigliar la corona poetica in sul fonte del suo battesimo (2), nel suo bel S. Giovanni (3); mirabile unione di gloria eccellente avvivata dall'idea cristiana, degna in tut

(1) È notabile che Dante nell' Epist. II. si chiama: A patria pulsus et exul immeritus: nel titolo alle Epistole IV, V, VI, VII si dice Florentinus et Exul immeritus (V. ediz. di Livorno, 1843.)

L'Ep. poi XIII tratta del suo rifiuto di ritornare a Firenze a certe condizioni, che a lui pareano non onorevoli; degne del suo franco carattere le parole del cap. 3.: «Estne ista revocatio gloriosa, qua D. Alla. (cioè Dantes Allagherii) revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hanc ne meruit innocentia manifesta quibuslibet? Hæc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro philosophia domestico temeraria terreni cordis humilitas, ut more cujusdam scioli et aliorum infamium quasi vinctus, ipse se patiatur offerri! Absit a viro prædicante justitiam, ut perpessus injuriam, inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat! » (2) Parad. XXV. 3-9. Al suo amico Giovanni Del Virgilio, che lo invitava a prendere la corona d'alloro a Bologna, scriveva nella prima delle due Egloghe a lui dirette (e lumeggia così i versi 8 e 9 l. cit.):

....

Quum mundi circumflua corpora cantu

Astricolæque meo, velut infera regna, patebunt,
Devincire caput hedera lauroque iuvabit.

(3) Inf. XIX. 17.

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