Colleghi Onorevolifsemi ieto di quello che leggeste nella uffiziale qui innanzi posta rinnovo, amplio, e a Voi dirigo e consacro il ragionamento critico fatto ai Municipali di Bologna il 14 maggio del 1865. È omaggio sincero ai vostri studi e alla vostra virtù. La idea felice d' una festa parentale al secentesimo natalizio del POЕТА che non ha pari in nessuna letteratura mi piacque tanto, che dimenticati gli ostacoli alla già tentata ripubblicazione della Chiosa più antica fatta alla sua COMEDIA m'accinsi da capo al procurarla. Non mi pareva degno d' Italia che il Fiorentino si godesse tutto solo la esultanza della Nazione e gli man casse quell' amoroso e dotto compagno pel quale il Poema fu per tutta Italia in que' suoi moltissimi tempi diffuso. Voi intendete, Signori, ch'io parlo di JACOPO DALLA LANA di cui nessuno, fuorchè un tedesco, quantunque celebratissimo, disammirò lo studio e la sollecitudine, pel quale disserterò qui con Voi e di Lui e di Dante a segno che sia di tutti quello che è di me: non essere, degli stranieri, alcuno possibile, per quanto duri e si coltivi in Italia, giungere a penetrare il finissimo e l'arcano magistero della nostra lingua se, de' nostri, molti le finezze e i magisteri delle altrui più che qualche volta con maraviglia di essi raggiungono. La cagione dei fortunati italiani appunto è in ciò che la filosofia del nostro linguaggio supera per l'antichità in sublimità tutte quelle degli altri, come già la potenza civile di noi ebbe superata la potenza delle nazioni esterne. Invidiati prima, temuti poi, oppressi da sezzo, dai mali scaturirono i beni che l'ingordigia dei dominatori ci calcò, sopprimette le parti, raggruppò i popoli, e ci afforzò quanto mai forti non fummo a raccoglierci finalmente tutti e riaver mezzo, se avremo giudizio, a rifarci la potenza, e con essa quella supremazia civile che fra civili nazioni non può più essere pericolosa, essendo provata sapienza la prosperità dei popoli scendere non dalla preponderanza dei pochi sui molti, ma dalla sollecitudine fraterna della giustizia del bene mutuo e comune. L'impresa, o Signori, che in tempi scorsi mi era stata impossibile avrebbe dovuto quella volta riuscire possibilissima: l'occasione solenne, la presenza del nostro Corpo letterato che non poteva avere migliore idolo ad onorare che Dante, la sua residenza nella Città illustre, e primo per età e per grandezza il Commentatore di quel maestoso poema, l'uffizio suo di pubblicare se inediti, o ripubblicare se dimenticati, i monumenti più onorevoli e utili della lingua nostra, mi lusingavano che avrei avuto modo di attuare il mio concetto. L'incomodo suo riducevasi alla copia del volume per consegnarsi ai torchi; per di contro l'onore grande. Ma con maraviglia mia e di tutti le cose si arrestarono ove meno da me era temuto: che si vedeva non possibile stampare sì gran mole in cinque mesi dal tipografo suo, ma non potevasi riconoscere officiale ciò che per altri torchi si stampasse, e quindi non doversi nè pure il minimo discomodo assumere per ciò che di non ufficiale si presentasse. Ma io son tenace de' propositi, e d'animo non mi perdo: gli ostacoli alle cose buone non vincono la mia virtù di procacciarle. Era troppo avventurosa l'occasione di portare qualche servigio agli studii, e subitamente quello che al Corpo gratuitamente davo, gratuito diedi, privato cittadino io, ad artigiano privato, e ogni arduità fu subito appianata, anzi scomparve. Era utopia, si diceva, aspettarsi questa mole in sì breve tempo col tanto a fare che si doveva da me, il quale sapevano stretto della maladetta fortuna a logorare più della metà del dì al tavolo, se voglio vivere con decenza; ma si misurava alla poca attività dell' universale e non si contava che a' miei sessant'anni la vita, stata attivissima sin dall'infanzia, non patisce esercizio quantunque grave e premente; ed ecco il Volume uscì e chi il legge e detto avrà quant' abbia pensato e fatto per esso, e s'io mi spaventi di nessuno ostacolo, o nessuna opposizione. Ben dirò io che mi spiacque ciò che m'avvenne, e ora mi consola che mi si conceda, e si possa, quello che allora non si potè, sotto gli auspizi della nostra Commissione alla studiosa Italia, anche meglio elaborato, presentarlo. Fu opera di assiduissimo per cinque mesi, e pur compita, a questa Città consacrata. Se chi ha la podestà avesse avuto la volontà, io avrei avuto l'onore di associare il mio lavoro ad una celebrità artistica, l'illustre Scaramuzza, il primo de' compositori storici nel disegno nella presente povertà italica dell' oprar vero; ma non tutti intendono tutto, e dello Scaramuzza vedeste i disegni insigni esposti a Firenze, ora fotografati assai bene dal Calvi, che faranno domandare se meglio non giovano alla festa e alle arti che non la medaglia che si chiude agli scrigni e nulla insegna. - La spesa! - Oh non è alla istruzione che si debbano chiedere i risparmi! Io ti saluto Scaramuzza; dura la vita, e i tempi verranno anche alla tua virtù. Qualche cosa, quanta nel ristretto privato si poteva, si fece. Vedetevi in fronte un grazioso lavoro di nuova industria artistica instituita nella vostra Accademia delle arti belle, di cui sono ora professore, e vedete la bella iniziale che sta in capo a questa prefazione, la cui allegoria troverete spiegata dalla prima nota messa alla colonna del Commento laneo all' Inferno dantesco; allegoria augurata da tutta Italia, che io ho imaginato e pregato disegnarsi ed eseguirsi a cura dell' amoroso professore Ratti dal suo più distinto discepolo, il Ballarini. Da questo saggio, dopo quelli di maggiore larghezza costi eseguiti e premiati, e già mostri al Pubblico, parmi che si cammini bene all' innanzi così che l'Italia anche nella scilografia non abbia fra non molto a desiderare roba straniera, e se il professore mediti processi maggiori e ne chiegga all' Accademia i fornimenti, io farò istanza perchè ne sia complito. Bene sta che, sì come egli pur vuole, l'incisore non sia un meccanico, ma un artista, perchè sappia tradursi col disegno il concetto della mente, e perchè la mano non osi tradire, ma anzi concorrere a perfezionare, il disegno; bene sta che, essendo le arti del disegno spirate dall' amore del vero e del bello, non siano a questa scuola introdotti, come a santuario di civiltà, che coloro i quali per quello amore vi si spingano, e al guadagno della pecunia non mirino che per adagiarsi nello instituire a sè stessi buon nome, e alla patria onore. Se fallito il maggiore concetto, più tempo avessi avuto, ogni Canto avrebbe almeno avuto un soggetto allegorico alla iniziale; fecesene invece dal De-Maurizi a ogni Cantica, tagliato da altri come non avremmo voluto; oggi a crescimento di decoro, favorente il Ratti medesimo colla sua scuola, nuovamente composte e degnamente incise. Di che ecco il concetto. L'una è per l' Inferno. Re Capaneo, come in suo vivente sostenne l'ira degli Dei terrestri e intrepido lasciò schiacciarsi anzichè cedere, può essere insegnamento ai deboli d'animo, i quali sono impaccio alla civiltà, e malanno; contro i quali stanno i nobilissimi versi e vigorosi di quel celebratissimo che dava all' ammirazione del mondo colui del quale poteasi dire Si fractus illabatur orbis Impavidum ferient ruina. Tanta gloria sui campi di battaglia non equivarranno le virtù dell'animo operatrici colla parola? Tutta la grandezza di Roma e della Italia illustre è dovuta alla parola. Chi la parola persegue, e i liberi parlatori fulmina, è vile tiranno. Bisognerebbero Capanei a salvar le nazioni. Ma non dobbiamo contro i feroci imbestiar l'animo; i tempi bestiali sono corsi, e la temperanza del difendere non deve soverchiare l'offesa. Nel tempo istesso dove l'animo si abbatta, e per incessante offesa infiacchisca, volgiamolo alla contemplazione spirituale del sostanziale vero che tanto a Dio si accosta |