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E quale Ismeno già vide ed Asopo,
Lungo di sè di notte, furia e calca
Pur che i Teban di Bacco avesser uopo;
Tale per quel giron suo passo falca,

Per quel ch' io vidi di color, venendo,
Cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovra noi, perchè correndo

Si movea tutta quella turba magna,
E due dinanzi gridavan piangendo:
Maria corse con fretta alla montagna;

E Cesare, per soggiogare Ilerda,
Punse Marsilia, e poi corse in Ispagna.
Ratto ratto, chè il tempo non si perda
Per poco amor, gridavan gli altri appresso;
Chè studio di ben far grazia rinverda.
O gente, in cui fervore acuto adesso

91-93. E quale ec. I Tebani, secondo che scrive Stazio, ne' sacrifizii di Bacco, quando avevano bisogno di lui, correvano di notte in grandissimo numero lungo Ismeno ed Asopo, fiumi di Beozia, con facelle accese, gridando forte, e chiamando Bacco per molti e diversi suoi nomi..

94-96. Tale per quel ec. Tale calca, di color cui cavalca (sprona) buon volere e giusto amore, falea (avanza) per quel ch' io vidi suo passo per quel girone.

100-102. Maria corse ec. Due esempi di celerità, a redarguzione e stimolo degli accidiosi: uno sacro di Maria Vergine, che, por

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tandosi a visitar sua cognata santa Elisabetta, abiit in montana cum festinatione; l'altro profano di Giulio Cesare, che con grandissima celerità, partito da Roma andò a Marsilia, città a lui nemica ; e quella pungendo, cioè lasciando da Bruto con parte dell' esercito assediata, corse egli in Ispagna, ove superò Afranio, Petrejo, ed un figlio di Pompeo, e soggiogò Ilerda (oggi Lerida), città famosa di quella provincia.

105.Studio di ben far grazia rinverda. La sentenza poi è, che lo studio e la sollecitudine nostra a ben fare conferisce ad ottenere rinvigorimento dalla divina grazia.

Ricompie forse negligenza e' ndugio
Da voi per tiepidezza in ben far messo,
Questi che vive, e certo io non vi bugio,
Vuole andar su, purchè il Sol ne riluca;
Però ne dite ond'è presso il pertugio.
Parole furon queste del mio Duca;

Ed un di quegli spirti disse: vieni
Diretro a noi, che troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
Che ristar non potèm; però perdona,
Se villania nostra giustizia tieni.
Io fui Abate in san Zeno a Verona,

Sotto lo' mpero del buon Barbarossa,
Di cui dolente ancor Melan ragiona.
E tale ha già l'un piede entro la fossa,
Che tosto piangerà quel monistero,

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109. Non vi bugio, non vi dico qual tempo governava i monaci bugia.

110-111. Purche il Sol ne riluca: solamente che il Sole ne si fac cia rivedere. Accenna l'avviso dato lui da Sordello che di notte non si poteva salire.

117. Se villania ec.: se ci tieni, ci reputi, scortesi in ciò che giustamente e secondo il divin volere facciamo.

118. Io fui Abate ec. Il Pelli osserva, che tutti i Comentatori di Dante nell' asserire che questo Abale fosse un Alberto, si sono ingannati, perchè un Alberto lo fu a' tempi di Federigo II, non di Federigo I, detto Barbarossa, nel

di san Zeno un Gherardo II.

119. Buon Barbarossa, Federigo I; Dante lo chiama buono o perchè sostenne vigorosamente il partito Ghibellino, o perchè mori nel 1190 in Palestina alla testa di una Crociata, o come altri crede per ironia.

120. Di cui dolente ec., per essere stato dal Barbarossa distrutto, come tutti gl'istorici narrano.

121. Etale. Intende Alberto della Scala, già vecchio, Signor di Verona, che fece di potenza Abate di quel monistero un suo figliuolo naturale, Giuseppe Scaligero› stroppiato di corpo e di animo.

E tristo fia d'avervi avuta possa;
Perchè suo figlio, mal del corpo intero,
E della mente peggio, e che mal nacque,
Ha posto in luogo di suo pastor vero.
Io non so se più disse, o s' ei si tacque,
Tant' era già di là da noi trascorso;

Ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei, che m'era ad ogni uopo soccorso,
Disse volgiti in qua; vedine due
All' accidia venir dando di morso.
Diretro a tutti dicean: prima fue

Morta la gente, a cui il mar s'aperse,
Che vedesse Giordan le rede sue.
E quella, che l' affanno non sofferse
Fino alla fine col figliuol d' Anchise,
Sè stessa a vita senza gloria offerse.

Poi quando fur da noi tanto divise

Quell' ombre, che veder più non potêrsi,
Nuovo pensier dentro da me si mise,

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125. Mal nacque, perocchè ba- vini comandi, morirono prima che stardamente.

130. E quei, che ec., Virgilio. 132. All'accidia dando di morso: l'accidia mordendo, cioè biasimando; contando tristi effetti di cotal colpa.

133–135. Il grandissimo numero di quegli Ebrei ai quali Iddio aprì la prodigiosa strada nel Mar Rosso, tutti (eccettuati soli Giosuè e Caleb), in gastigo della pigrizia c freddezza loro nell'adempire i di

il fiume Giordano vedesse le rede sue, gli Ebrei costituiti da Dio eredi di quella provincia.

136-138. E quella, che ec., quella gente Trojana che, occupata dal tedio del lungo viaggio, volle piuttosto senza alcuna gloria rimanere in Sicilia con Aceste, che seguire in Italia, navigando, il figliuol di Anchise, Enea; siccome troviamo narrato da Virgilio nel V dell' Eneide.

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PURGATORIO CANTO XVIII

Dal qual più altri nacquero e diversi ;
E tanto d'uno in altro vaneggiai,
Che gli occhi per vaghezza ricopersi,
E il pensamento in sogno trasmutai.

144. Gli occhi per vaghezza ricopersi: per cagion del vagamento de' pensieri, cioè per non fisarsi

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più la mente in alcun pensiero, cessando agli occhi stimolo di restare aperti, mi si chiusero.

FINE DEL CANTO DECIMOTTAVO

CANTO XIX

ARGOMENTO

Con falso canto una femmina lorda
Sogna il Poeta; ma questa è scacciata
Tosto dall' altra che da lei discorda.
Svegliasi e sale ove la terra quata

Pur chino in giuso chi quassù dovizia
Volle d'averi con voglia assetata
Sviandosi da Dio per avarizia.

Nell' ora che non può il calor dïurno
Intiepidar più il freddo della Luna,
Vinto da terra, o talor da Saturno;
Quando i Geomanti lor Maggior Fortuna
Veggiono in Oriente innanzi all' alba

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