139 136 Tu il déi saper, se tu vien pur mo giuso: Egli è ser Branca d' Oria, e son più anni Poscia passati ch' ei fu sì racchiuso. >> «Io credo >> dissi lui «che tu m' inganni; Chè Branca d' Oria non morì unquanche, E mangia e bee e dorme e veste panni.»> «Nel fosso su»> diss' ei «di Malebranche, Là dove bolle la tenace pece, 142 Non era giunto ancora Michel Zanche, 145 Che questi lasciò un diavolo in sua vece Nel corpo suo, ed un suo prossimano, Che il tradimento insieme con lui fece. 148 Ma distendi oramai in qua la mano; Aprimi gli occhi.»> Ed io non gliele apersi; 136. PUR MO: solamente adesso, in questo momento. 137. BRANCA D'ORIA: genovese; invitò a mensa Michele Zanche, suo suocero (cfr. Inf. XXII, 88. nt.), e lo uccise a tradimento, per torgli la Giudicatura di Logodoro in Sardegna. PIÙ ANNI: il tradimento di Branca fu compiuto nel 1275; erano dunque passati già venticinque anni dacchè l'anima sua fu racchiusa nella Tolomea. 139. LUI: a lui; cfr. Inf. I, 81. nt. 140. NON MORÌ UNQUANCHE: non è ancor morto. Branca d' Oria era ancor vivo nel 1311; cfr. Dino Comp. 1. III. ap. Murat. Rer. It. Script. Vol. IX, pag. 528. Unquanche dal lat. unquam = Non mai. 141. MANGIA: << Nota come in questo verso si citano tutti gl' indizj d' una vita animale, nessuno della vera vita dell' uomo.» Br. B. 142. NEL FOSso: nella bolgia de' barattieri, Inf. XXII. Il diavolo entrò nel corpo di Branca d' Oria e ne mandò l'anima all' Inferno prima che Michel Zanche fosse giunto alla quinta bolgia. Anche qui Dante sembra avesse in mira il passo scritturale citato nella nota al v. 130. Come Satana entrò in Giuda prima che egli consumasse il suo tradimento, così egli s' incarnò in ser Branca già prima che egli facesse morire a tradimento Michel Zanche. 143. QUESTI: Branca d' Oria. UN DIAVOLO: Al. il diavolo. 146. ED UN: Così ci pare da leggere. I più leggono: e d'un suo, secondo la qual lezione Frate Alberigo verrebbe a dire: Questi lasciò un diavolo in sua vece nel corpo suo e nel corpo di un suo prossimano. Ma 1o. Come mai poteva Alberigo dire che Branca d' Oria lasciasse un diavolo nel corpo d' un suo prossimano? 2°. La lezione e d'un farebbe credere che il medesimo diavolo abitasse nello stesso tempo nei due corpi, il che sarebbe un' assurdo. Ogni corpo ha il suo diavolo. Leggendo ed un ogni difficoltà svanisce; Frate Alberigo vuol dire questi lasciò un diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano fece lo stesso, cioè lasciò anche lui un diavolo nel suo. Le lezioni e un, et un di alcuni codd. confortano la nostra interpretazione; inquanto all' altra ricordiamo che nei codd. si scrisse edun, che significa non meno ed un che e d'un. — PROSSIMANO: parente, congiunto. Dicono fosse un cugino o nipote del d' Oria, che l' aiutò a commettere il tradimento. 147. INSIEME CON LUI: in compagnia di Branca d' Oria. (( Questi fu uno suo nipote, il quale, insieme con questo messer Branca Doria, fece il tradimento et fu a uccidere Michele Zanche.» Anon. Fior. 148. ORAMAI: Al. omai, oggimai, ecc. Ora che io ho fatto quanto chiedesti ed ancora più che non chiedesti; cfr. v. 115 e seg. 149. GLIELE: Al. glieli. Di gliele per glieli ha infiniti esempi negli scrittori. Quel tal Scarabelli ignorando naturalmente il valore di questo 151 E cortesía fu in lui esser villano. Ahi Genovesi, uomini diversi D' ogni costume, e pien' d' ogni magagna, 157 Trovai un tal di voi, che per sua opra gliele scrive: «Witte gliele, ma nè giusto nè tollerabile, poi ch'è degli - 150. CORTESIA FU: l'esser villano con questo traditore fu un atto di 151. DIVERSI: alieni d' ogni buon costume. Al. Diversi da' costumi 152. PIEN: pieni d' ogni vizio; così G. Vill. 1. VIII, c. 92: uno Nofo 154. SPIRTO: Frate Alberigo. 155. UN TAL: Branca d' Oria. - DI VOI: della vostra città; forse vuol NOTA ai v. 1-75 del C. XXXIII. UGOLINO DELLA GHERARDESCA. La casata de' Gherardeschi, potentissima e antica, al cominciare del milledugento era delle prime d' Italia. Di Guelfo della Gherardesca nacque nella prima metà del secolo XIII il famoso Ugolino, conte di Donoratico, padrone di molte terre ne' piani della Maremma e di Pisa, signore della sesta parte del regno cagliaritano e del castello di Settimo. Tolse in moglie Margherita de' Panocchieschi, contessa di Montingegnoli, che gli partori cinque figli e tre figlie. Si chiamarono i figli Gueljo, Lotto, Matteo, Gaddo e Uguccione; le figlie Emilia, maritata a Ildobrandino conte di S. Fiora, Gherardesca, donna di Guido Novello de' Conti Guidi di Bagno; la terza, di cui ignorasi il nome, fu sposa di Giovanni Visconti, giudice di Gallura. Guelfo, primogenito di Ugolino sposò la principessa Elena, figlia naturale d' Enzo re di Sardegna, che lo fece padre di quattro figli, Lapo, Errico, Nino detto il Brigata, ed Anselmuccio. Ai tre primi Enzo lasciò in eredità il dominio della Sardegna e i suoi diritti sulla Lunigiana, sulla Garfagnana e sulla Versilia. Ugolino venne scelto ad amministratore de' fanciulli suoi nipoti e per curarne gli averi si recò nel 1274 nella Sardegna. I signori della Gherardesca, quelli di Capraia e i Visconti di Pisa avevano largo e assoluto dominio in parecchie terre dell' isola, già avute in feudo dalla Repubblica, alla quale pagavano ogni anno un tenue tributo. Onde por fine alle continue turbolenze in cui era involta la patria loro, e che recavano grave danno al commercio ed alla navigazione, essi risolsero di mutare in guelfo il reggimento ghibellino. Il disegno andò loro fallito, Giovanni Visconti, genero di Ugolino, venne cacciato da Pisa e dichiarato ribelle, Ugolino stesso imprigionato e costretto a rinunziare nelle mani del podestà quanto possedeva in Sardegna. Liberato Ugolino si rifugiò a Lucca, strinse lega coi Lucchesi e coi guelfi della Toscana, venne ad oste contro la patria, sconfisse i Pisani ad Asciano e al fosso Arnonico e li costrinse a rimettere in patria gli usciti, fra i quali il giovinetto Nino Visconti, figlio di Giovanni e nipote di Ugolino, il cui padre era morto in bando a Montopoli il 19 maggio 1276. Ugolino riebbe i suoi giudicati in Sardegna promettendo al Comune di pagare il tributo, e seppe cattivarsi la stima de' suoi concittadini per tal modo, che ne venne scelto a capitano generale dell' armata contro i genovesi, coi quali avevano guerra già dal 1282. Nella sanguinosa battaglia navale che ebbe luogo alla Meloria il 6 agosto 1284 fu rotta per sempre la potenza Pisana. «E funno sconfitte le Galee del Comune di Pisa, e prese 27 Galee, e Galeoni, presi bene XI. mila homini, morti più di 1285.» (Fragm. Hist. Pis. in Murat. Rer. Ital. Scrip. Vol. XXIV, p. 648). 46. galéæ capiuntur cum 10. millibus hominum, et ultra (Annal. Ptol. Lucens., in Murat. 1. c. Vol. XI, pag. 1294). «Rimason per prigioni da undici mila uomini, e funnone menati a Genova» (Cron. di Pisa in Murat. 1. c. Vol. XV, pag. 979). De Pisanis vero facta exstitit tanta strages, quod mare rubrum undique apparebat; et captæ fuerunt de galeis Pisanorum XXIX. et VII submersæ. (Jac. Aurice Annal. Gen. 1. X. in Murat. 1. c. Vol. VI, pag. 587). <<I Pisani ricevettono infinito dammaggio di perdita di buone genti, che morti e che presi, bene sedicimila uomini, e rimasono prese quaranta galee de' Pisani, sanza l' altre galee rotte e profondate in mare... In Pisa ebbe grande dolore e pianto, che non v' ebbe nulla casa nè famiglia che non vi rimanessero più uomini o morti o presi; e dall' ora innanzi Pisa non ricoverò mai suo stato nè podere» (C. Vill. 1. VII, c. 92). Secondo un' iscrizione che si legge a Genova sulla facciata di S. Matteo, postavi poco dopo la battaglia, il numero de' prigioni Pisani ascese a 9272 (Canale, Nuova istor. della Republ. di Genova, Vol. III. pag. 32.). A motivo del gran numero di prigioni si diceva che chi vuol veder Pisa vada a Genova. Et Alcuni accusarono Ugolino di esser stato la cagione principale della sventura de' Pisani, essendo fuggito nel calore della mischia per vendicarsi della patria e tradirla. Ma tal fuga è una mera invenzione, nessuno degli storici contemporanei facendone menzione. Ugolino può tacciarsi d' inettezza al comando, di tradimento non mai. E n'è prova l' essere stato a quella battaglia colle sue galere, co' suoi vassalli di Sardegna, co' suoi nipoti e figliuoli, uno de' quali, Lotto, vi rimase prigione. Che poi fuggisse è impossibile. Comandava egli il centro dell' armata e per guadagnare la foce dell' Arno ch' era quattordici miglia al disopra, bisognava che passasse sulla linea de' Doria che aveva sgominata l' ala diritta pisana, e certo in quel codardo passaggio vi sarebbe rimasto o prigioniero o affondato.» (Sforza, Dante e i Pisani, nel Propugnatore, Vol. II, P. I. pag. 43.). Sconfitti in tal modo i Pisani, i Fiorentini, Lucchesi ed altri Guelfi di Toscana pensarono di ridurre Pisa a parte guelfa, et miserunt Nuntios et Ambasciatores in Januam, asserentes eos velle facere societatem nobiscum ad destructionem civitatis Pisana (Jac. Aurice in Murat. 1. c. Vol. VI, pag. 588). Invano i Pisani procurarono di impedire la lega. E in allora essi erano tanto lungi dal sospettare Ugolino di tradimento, che a lui invece affidarono la pericolante patria. Conoscendo troppo bene l' impossibilità di vincere colla forza i nemici di Pisa, Ugolino ebbe ricorso all' astuzia. Donando ai guelfi di Firenze S. Maria in Monte, Fucecchio, Castelfranco, S. Croce e Montecalvoli, ai guelfi di Lucca Bientina, Ripafratta e Viareggio, il conte pervenne a disfare la lega e dividere i nemici della sua patria. Con queste arti egli salvò Pisa dal totale esterminio. Arrivati i Genovesi con 65 navi e un galeone al Porto Pisano, Oberto Spinola ne avvisò i Fiorentini e i Lucchesi, affinchè a seconda de' patti fermati nella lega assalissero Pisa per terra. Ma costoro, già guadagnati da Ugolino nel modo anzidetto, se ne tolsero fuori, cosicchè lo Spinola si vide costretto a fare da sè (Fragm. Hist. Pis. in Murat. 1. c. Vol. XXIV, pag. 649. Jac. Auriæ, Annal. Gen. in Murat. 1. c. Vol. VI, pag. 588 e seg. G. Vill. 1. VII, c. 98. Sforza, 1. c. pag. 43 e seg.). In Già prima dell' arrivo della flotta genovese al Porto Pisano Ugolino era stato eletto podestà per dieci anni (Jac. Auriæ, 1. c.). Ma Nino Visconti suo nipote, quantunque fosse ancor giovinetto «volse essere insieme col conte Ugolino» al governo di Pisa (Fragm. Hist. Pis. in Murat. 1. c. pag. 649). Al cadere del 1285 Ugolino col nipote presero a reggere assieme la somma delle cose, raccolsero in sè ogni autorità, chiamandosi Capitani del Popolo, Podestà, Rettori e Governatori del Comune. breve (Sforza 1. c. p. 46.) la discordia si accese tra i due reggitori, che ambiziosissimi entrambi forse agognavano alla signoria suprema della Repubblica. Essendosi il Visconti recato in Sardegna, Ugolino vi mandò Guelfo suo figliuolo, ordinandogli d' occupare non solo le proprie castella, ma quelle pure di Pisa (Annal. Ptol. Luc. in Murat. 1. c. Vol. XI, pag. 1296). Di questo si tenne fortemente offeso il Visconti, che cercò l'amicizia di Firenze, e a dispetto dell' avo e degli Upezzinghi « fece venire li Guelfi da Fiorensa, e intrare nel castello del Ponte adera e pigliarlo a inganno e a tradimento» (Fragm. Hist. Pis. p. 649). Poi il Visconti prese a fomentare le discordie che straziavano Buti, grossa terra del distretto pisano, divisa in due fazioni, «quelli de la parte di sopra, e quelli de la parte di sotto» (Ibid. p. 650), «E le dicte parte da Buiti», segue lo stesso cronista, << moute voute combattenno insieme in Buiti; e Judici e li Vesconti mandavano ajuto a la parte di sopra; e lo conte Ugolino, e li Upessinghi mandavano ajuto a la parte di sotto; e a ciò funno mouto acciese le dicte parte, e li stessi signori; e mouti omicidj e mali intervenneno intra loro. Per la qual cosa perchè la loro parte ne istava peggio, et per l'autre risse, ch' erano tra 'l Conte, e Judici, e li Upessinghi, e Vesconti; e perchè a Brigata figliuolo ch' era del Conte Guelfo, con suoi compagni ucciseno Messere Gano Scornigiano, ch' era da la parte di Judicie, e de i Vesconti, di Lungarno quando tornava a casa, un de' Judici di Gallura, e i Vesconti si levonno a romore contra lo Conte Ugolino, diciendo e gridando: Muoja chi non vuole pacie co i Gienovesi. E conosciendo li Pisani, che non lo facieano per parte volere, ma per confondere lo Conte Ugolino, non si levonno a romore per ciò.» (Fragm. Hist. Pis. pag. 650). « Nino (continuo colle parole dello Sforza, 1. c. pag. 47 e seg.) fatto accorto che in siffatta maniera non si poteva disfare dell' avolo, volle che Ugolino lasciato il palazzo del Comune dove stava coll' Ufficio della capitaneria e podesteria, se ne tornasse a casa. Furono a pregare di questo il Gherardesca i consoli del mare e de' mercatanti, quelli dell' arte della lana e i consoli e priori delle sette arti, e li fece contenti; e tanto esso quanto il Visconti, alla buona mercè de' loro consigli, commisero i propri carichi a Guidoccino de' Bonghi e si ridussero a vita privata; ma spesso furono in armi e più volte le famiglie d' entrambi fecero briga assieme. La cupidigia di governare li tornò amici, e a colorire il disegno d' impadronirsi di nuovo della suprema podestà diè modo il Bonghi catturando un famigliare del conte e rifiutandosi di lasciarlo come voleva. Preso a forza e di notte il palazzo del Comune, in armi vennero il giorno appresso a quello del Popolo, e la città di nuovo fu governata per opera loro. I pisani che erano a Genova prigionieri, desiderando finalmente di ricuperare la libertà e tornarsene in patria, da parecchio tempo trattavano la pace e in buon accordo apparecchiatone co' Genovesi un onesto disegno, con licenza loro, quattro di essi andarono a Pisa a farlo approvare. A questo disegno di pace fece buon viso il Visconti per confondere e disfare Ugolino che niente voleva saperne. Però il Gherardesca seppe schermirsi dall' insidia, e per non tirarsi addosso l'ira del popolo e dare appiglio al rivale vi si piegò; e questa pace conclusa ai 15 d' aprile venne ratificata ai 13 di maggio del 1288. Di grave danno e molestia riusciva ai duumviri il ritorno de' prigionieri che doveva seguire appena la Repubblica avesse soddisfatto a parecchi de' patti solennemente giurati; perciò eglino si dettero a trovare ogni appiglio affinchè andasse in lungo la cosa, e a meglio riuscirvi comandarono che le navi di Genova si danneggiassero per ogni dove. Di tanta perfidia si sdegnarono i genovesi, e Niccolino da Petrazio, inviato a Pisa per questo, ne mosse forti lagnanze, ma senza frutto. La parte ghibellina già cominciava a rialzare la cresta e le aspre gare de' due reggitori facevano ad essa rivivere la speranza di una più lieta fortuna. N' era l'anima e il capo l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e a lui si stringeva buona parte degli ecclesiastici, i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi e altre case numerose e potenti e numero grande di popolani. All' ambasciatore di Genova, che seguitava a rimanersene a Pisa, l'arcivescovo e gli altri ottimati svelarono sotto segreto con quali arti i duumviri si governassero con quella Repubblica per restar sempre in guerra con essa. Si dissero apparecchiati a chiamare il popolo all' armi e ad imprigionare il Gherardesca e il Visconti, ove i genovesi mandassero quattro o cinque galere in loro aiuto sulla foce dell' Arno. Fecero intendere che riuscita a bene l'impresa, avrebbero dato loro nelle mani que' prigionieri e si sarebbero posti sotto la protezione di Genova ricevendone un podestà per dieci anni, consegnando in pegno le chiavi della città, l'Elba, la Gorgona e le torri del porto. Promise l'ambasciatore di svelare ogni cosa al suo governo e se ne parti subito alla volta di Genova recando seco varie lettere de' congiurati ai Capitani del Popolo e ai prigionieri. A meglio riuscire ne' suoi disegni l' arcivescovo si finse amico di Ugolino e con saputa e volontà di lui, che a bella posta se n' andò a Settimo, fatta una grande adunata di gente si messe in armi contro il Visconti, che avvistosi del tradimento nè vedendosi forte al riparo, si ridusse a Calci co' suoi. I ghibellini furono subito alle case del conte, e volevano ad ogni modo che il Brigata si facesse di governo e si recasse nel palazzo del Comune; ma Gaddo non andare, gli disse, aspetta lo conte che torni da Settimo, e vinto da suoi consigli rimase. V' entrò invece Ruggieri e, serrate le porte della città, fece intendere ad Ugolino tornasse pure a sua voglia, ma senza compagni. Del trovare l'arcivescovo in palazzo se ne mostrò turbatissimo il conte: invano disse ch' egli volea essere solo e libero signore come era: risposero i ghibellini amavano fosse suo compagno, e ove non gli garbasse ne prendesse un altro, ma di parte loro, fosse anco il genero suo Aldobrandino da S. Fiora. Il giorno appresso furono tutti nella chiesa di S. Bastiano, e non s' accordarono, e venne stabilito di tornarvi dopo nona. Frattanto il Brigata, fatte porre varie barche nell' Arno, metteva dentro Tieri da Bientina con mille fanti già arrivati insieme con Ugolino. I ghibellini, temendo d' essere ingannati e traditi, avanti che entrassero quelle genti in aiuto de' Gherardeschi si levarono a romore; per ogni dove fu gridato all' armi, mentre per l' arcivescovo sonava la campana del Comune e per Ugolino quella del Popolo. A infiammare viemmeglio la plebe, che tutta a furore |