Page images
PDF
EPUB

CANTO VENTESIMOSETTIMO.

CERCHIO OTTAVO; BOLGIA OTTAVA: CONSIGLIERI FRAUDOLENTI. CONTINUAZIONE. GUIDO DA MONTEFELTRO.

Già era dritta in sù la fiamma e queta
Per non dir più, e già da noi sen gía
Con la licenza del dolce poeta,

4 Quando un' altra, che dietro a lei venía,
Ne fece volger gli occhi alla sua cima
Per un confuso suon che fuor n' uscía.
7 Come il bue cicilian che mugghiò prima

1. DRITTA

cfr. XXVI, 86. 87.

QUETA: parlando crollava e si dimenava quà e là;

2. PER NON DIR PIÙ: avendo risposto pienamente alla domanda fatta da Virgilio, XXVI, 82. non le restava più che dire. Non s' intenda che la fiamma erasi dritta in su e divenuta queta perchè non voleva parlar oltre, ma viceversa: il quetarsi era l' effetto del tacere, come il dimenarsi l'effetto del parlare.

3. LICENZA: cfr. v. 21. Questo verso conferma l'osservazione che facemmo altrove, esser cioè legge dell' Inferno dantesco che i dannati si arrestino onde parlare ai due Poeti.

4. UN' ALTRA: fiamma.

5. NE: ci. La locuzione: Ne fece volger gli occhi alla sua cima per un confuso suon è simile a quell' altra: Gli ochei nostri n' andâr suso alla cima, Per due fiammette che i vedemmo porre, Inf. VIII, 3. 4.

6. PER: a cagione di. - CONFUSO SUON: la voce umana degli spiriti rinchiusi nelle fiamme rassomiglia sulle prime alla voce del fuoco, cioè al mormorío delle fiamme agitate dal vento; poi, quando le parole dello spirito si hanno fatto via ed hanno comunicato il moto della lingua umana alla punta della fiamma quel mormorío si converte in parole.

7. BUE CICILIAN: il toro di rame offerto da Perillo di Atene a Falaride, tiranno di Agrigenti. Era costrutto in modo, che le grida delle misere vittime, postevi dentro ad ardere si convertivano in muggiti di un toro vivente. Falaride vi fece entrare Perillo il primo a farne l'esperimento. Cfr. Plin. XXIV, 8. CICILIAN: siciliano; Cicilia e ciciliano dis

sero quasi sempre gli antichi.

[ocr errors]

Col pianto di colui e ciò fu dritto
Che l' avea temperato con sua lima,
10 Mugghiava con la voce dell' afflitto,
Si che, con tutto ch' e' fosse di rame,
Pure e' pareva dal dolor trafitto:

13 Così per non aver via nè forame

Dal principio del fuoco, in suo linguaggio
Si convertivan le parole grame.

16 Ma poscia ch' ebber colto lor viaggio
Su per la punta dandole quel guizzo

8. DRITTO: giusto. Qui fodit foveam, incidet in eam: et qui volvit lapidem, revertetur ad eum. Prov. XXVI, 27. Eccl. X, 8. Eccles. XXVII, 29. Ecce parturiit injustitium: concepit dolorem, et peperit iniquitatem. Lacum aperuit, et effodit eum: et incidit in foveam, quam fecit. Psl. VII, 15. 16. Et reddet illis iniquitatem ipsorum: et in malitia eorum disperdet eos: disperdet illos Dominus Deus noster. Psl. XCIII, 23.

9. TEMPERATO CON SUA LIMA: lavorato co' suoi ferri, fatto coll' arte sua. 10. CON LA VOCE: per mezzo de' lamenti dell' infelice messovi ad ardere. Qui mugghiava con la voce, nel v. 7. mugghiò col pianto; forse si accenna col primo a tormento dato ingiustamente, col secondo a pena meritata.

11. CON TUTTO CHE: quantunque, sebbene. 12. E': Al. el; inteso è il bue ciciliano.

ello, per egli, usatissimo agli antichi.

13. VIA: onde poter uscire.

[ocr errors]

=

El sarebbe troncamento di

14. DAL PRINCIPIO DEL FUOCO: «Non avendo le parole del peccatore foro nè via, onde uscir belle e intere, pigliavano dal principio (= elemento) del fuoco la forma del suo linguaggio.» Ces. Così pure Land., Vell., Dan., есс. - «Così le parole grame, per non aver dal principio (non avendo da principio che profferivansi dall' anima chiusa in quel fuoco) via nè forame per uscire del fuoco, si convertivano in suo linguaggio.» Biag., De Romanis ecc. (( Principio lingua, cima. Nel Purg. chiama principio la cima d'un monte.» Tom. «Là dove in prima le parole incontravano il fuoco. Greg. «Da principio che profferivansi da colui ch' era dentro la fiamma.» De Marzo. Dobbiamo confessare che nessuna di queste esposizioni ci riesce soddisfacente, e che non siamo in istato di proporne una migliore. Ogni difficoltà svanirebbe leggendo coll' illustre Witte ed altri, tanto antichi quanto moderni: Dal principio NEL fuoco; il senso sarebbe: Così le parole grame non trovando da prima nel fuoco via nè forame si convertivano nel linguaggio di esso fuoco, esposizione confortata pure da quel Ma poscia del v. 16. Ma ciò nonostante tre motivi ci inducono a mantenere nel testo la lezione del fuoco: 1. 1' autorità de' codici, la cui gran maggioranza sta per essa (anche tre dei quattro che servono di fondamento alla impareggiabile edizione del Witte); 2°. l'autorità de' commentatori antichi che quasi tutti lessero del fuoco; 3°. la difficoltà stessa della lezione, giacchè secondo i giusti canoni della critica la più oscura e difficile lezione merita sempre la preferenza. In una parola: la lezione nel fuoco ci sembra migliore, la lezione del fuoco ci sembra la vera. SUO LINGUAGGIO: nel linguaggio del fuoco, v. 6. nt.

15. GRAME: triste, piene d' afflizione.

16. COLTO LOR VIAGGIO: trovato lor via. Allorchè le parole grame si ebber fatto via su per la punta della fiamma, imprimendo ad essa punta quel guizzo che la lingua avea dato esprimendo le parole, noi udimmo ecc. Cfr. v. 6. nt.

17. DANDOLE: la punta della fiamma si move appunto come la lingua di chi parla. GUIZZO: Oscillazione, vibrazione.

Che dato avea la lingua in lor passaggio,
19 Udimmo dire: «O tu, a cui io drizzo

La voce, e che parlavi mo lombardo,
Dicendo: Issa ten va, più non t' adizzo:
22 Perch' io sia giunto forse alquanto tardo,
Non t' incresca restare a parlar meco.
Vedi che non incresce a me, ed ardo.
Se tu pur mo in questo mondo cieco

25

IN LOR

18. AVEA: la lingua dello spirito incarcerato nella fiamma. PASSAGGIO: nell' uscir dalle labbra dello spirito. Anche lo spirito che favella dal fuoco non parla senza lingua.

19. DRIZZO LA VOCE: parlo. Cfr. Conv. Canz. I. v. 7. 8.

Onde il parlar della vita ch' io provo

Par che si drizzi degnamente a vui.

E Dante spiega: Dico che il mio parlare a loro dee essere. Conv. tr. II. c. 7. 20. MO: adesso; Inf. X, 21. XXIII, 7. 28. ecc. LOMBARDO: nel verso seguente lo spirito ripete le ultime parole dette da Virgilio ad Ulisse. In queste parole occorrono le voci issa che è del dialetto lombardo, ed adizzo, probabilmente anche lombarda. Dunque il parlavi lombardo va preso alla lettera. Già nel Canto I, v. 68. Virgilio ha detto: Li parenti miei furon lombardi, quantunque de' Lombardi ai tempi di Virgilio si ignorasse persino il nome. Altri interpretano lombardo per italiano. Ma Dante quando vuol parlare degli Italiani in generale usa costantemente altri termini. E in questo canto medesimo, v. 26. chiama la dolce terra italiana non lombarda ma latina.

21. ISSA: ora vattene, chè io non ti stimolerò più a discorrere. In queste parole abbiamo la licenza che il dolce poeta diede ad Ulisse, v. 3. ed il parlar lombardo, v. 20. ISSA: adesso. Cfr. Inf. XXIII, 7. nt. Le lezioni ista, istra, istà, statti o va, ecc. sono evidenti correzioni di chi non conosceva la voce lombarda issa. Della lezione istra non giova parlarne, essendo un errore madornale. Le altre lezioni verrebbero a dire: resta o va ecc. Ma se Virgilio aveva licenziato Ulisse, v. 3. egli non gli avea detto di restare o di andarsene, ma semplicemente di andarsene, dopo averlo prima pregato di fermarsi, XXVI, 83. Quello smargiassone di Scarabelli difende nondimeno la lezione ista e spiega: Va, sta, fa quel che vuoi. Può ben darsi, e non ne dubitiamo punto, che un pecorone suo pari dia licenza in modo così rozzo e plebeo. Ma Virgilio, il dolce poeta non era uno scostumato come lo Scarabelli. -ADIZZO: al. aizzo; adizzare e aizzare vale stuzzicare, incitare, e quasi attizzare (e il Viviani legge a dirittura t' attizzo), «ben qui detto a colui, che non parlava, se non quà e là menando la cima della fiamma entro cui era.» Di Siena. - «Le parole di Virgilio, da lui probabilmente dirette ad Ulisse, appartengono al dialetto lombardo. Nè ciò deve recarci meraviglia, avendolo Dante nel primo canto fatto dire che i suoi parenti furon lombardi. In ciò il Poeta non errò forse molto, stantechè la differenza fra i dialetti italiani è radicata nell' antichità per avventura più che spesso non si crede.» Filal. 22. PERCH' 10: quantunque io ecc.

23. RESTARE: fermarti; al. di stare.

24. ED ARDO: e pure io ardo. Crucior in hac flamma: S. Luc. XVI, 24. E ha quì il valore dell' et che i latini usarono alcune volte per et tamen. Il senso è: Se non rincresce a me, che ardo, di fermarmi a parlar teco, rincrescerà a te, che non ardi, ancor meno di restare a parlar meco.

25. PUR MO: or' ora, testè; Inf. X, 21. Questo spirito crede di parlare ad un' anima che arriva appunto adesso dal mondo per andarsene al cerchio infernale destinatole. Volge le sue parole soltanto a Virgilio, non essendosi probabilmente accorto che il dolce poeta ha seco un compagno. Gli spiriti di questa bolgia sembrano privi della vista, forse perchè fecero un mal uso dell' occhio dell' intelletto. - MONDO CIECO: 1' Inferno, cfr. Inf. IV, 13. X, 58 ecc.

28

[ocr errors]

Caduto sei di quella dolce terra
Latina, onde mia colpa tutta reco;
Dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra;
Ch' io fui de' monti là intra Urbino
E il giogo di che Tever si disserra.>>
31 Io era in giuso ancora attento e chino,
Quando il mio duca mi tentò di costa,
Dicendo: «Parla tu; questi è latino.<<
34 Ed io, che avea già pronta la risposta
Senza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se' laggiù nascosta,
37 Romagna tua non è, e non fu mai

26. CADUTO: cfr. Inf. XXIV, 121. DOLCE rispetto al luogo dove egli è adesso. TERRA LATINA: l'Italia. Altri: il Lazio. Ma questo spirito crede parlare ad un Lombardo, v. 20; dunque non può supporlo caduto dal Lazio, sibbene dalla Lombardia; dunque la terra latina non è il solo Lazio, sibbene l'Italia.

27. ONDE dalla quale terra latina, ove commisi ogni mia colpa, son venuto quaggiù di essa colpa aggravato. E dice TUTTA, volendo con ciò dare ad intendere che nulla gli giovò nè il pentimento e la confessione, v. 83. nè l' assoluzione del gran prete, v. 100 e seg. Ma va nonostante senza dire che il Poeta è buon cattolico anche quando nega l' efficacia della papale assoluzione.

28. ROMAGNUOLI: i popoli della Romagna.

29. CH' 10 FUI: perchè io fui. Indica il motivo del suo chieder novelle dei Romagnuoli. Questo spirito non ha soltanto recato seco all' Inferno tutta la sua colpa, ma anche il suo amor patrio.

30. IL GIOGO: dell' Apennino, ove il Tevere si disserra, cioè scaturisce, ha la sua sorgente. Il Tevere scaturisce appiè del Monte Coronaro. Tra Urbino e le sorgenti del Tevere è situata la città e contea di Montefeltro. Lo spirito che parla è Guido, conte di Montefeltro, ghibellino, invictus Capitaneus Communis Forlivii, et generalis guerræ pro parte dicti Communis (Ann. Foroliv. ap. Muratori: Rer. It. Script. XXII, 141), sul quale vedi la nota al v. 67. di questo canto.

31. IN GIUSO: verso la sottostante bolgia; cfr. Inf. XXVI, 43 e seg. 32. TENTO: mi toccò leggermente nel fianco col gomito suo; cfr. Inf. XII, 67. Hor. Sat. lib. II. Sat. 5. v. 42:

«Nonne vides», aliquis cubito stantem prope tangens
Inquiet

33. LATINO: italiano. Gli proibisce di parlare ai Greci, XXVI, 72 e seg. lo esorta di parlare all' Italiano.

34. PRONTA: prevedendo che Virgilio lo esorterebbe a parlare lui aveva già preparato la risposta da fare alla domanda di quello spirito, v. 28 e seg. 36. LAGGIÙ: la fiamma è sotto il ponte della bolgia, ma vicino ai due poeti. NASCOSTA: dentro la fiamma.

[ocr errors]

37. ROMAGNA: anticamente Romandiola; stendesi da Pesaro al fiume Panaro e Po, confinando all' oriente coll' Adriatico, e all' occidente colla Toscana. Questa distesa di paese corrisponde alle odierne provincie di Bologna, Ravenna, Forlì, e Ferrara. N' era capitale Ravenna, alla quale vuolsi esser stato dato il nome di Romandiola cioè piccola Roma, per aver gli Esarchi stabilito ivi la loro sede. TUA: patria. Forse la dice tua perchè Guido di Montefeltro fu capo della lega de' Lambertazzi. E NON: al. nè non. È inutile addurre esempi di altri autori che usarono nè non in cambio di e non. Appunto se tale dizione usavasi si spiega naturalissimamente come un qualche amanuense la introdusse nel testo, il che non si spiegherebbe quando la dizione fosse stata sconosciuta.

Senza guerra ne' cor de' suoi tiranni
Ma palese nessuna or vi lasciai.

40 Ravenna sta come stata è molti anni;
L'aquila da Polenta la si cova,

Sì che Cervia ricopre co' suoi vanni.
43 La terra che fe' già la lunga prova,

E di Franceschi sanguinoso mucchio,

38. NE' COR: hanno sempre avuto ed hanno sempre guerra nel cuore, si odiarono e si odiano sempre. In ogni città almeno due partiti: Lambertazzi e Geremei a Bologna, Ordelaffi e Calboli a Forlì, a Imola Alidosi e Nordoli, a Faenza Zambrasi e Manfredi, Parcitati e Malatesta a Rimini ecc. «In Bologna fu grandissima sedizione e mortale battaglia tra i Lambertazzi ch' erano Ghibellini, e la parte de' Geremii, ch' erano Guelfi Ogni dì e ogni notte con fuoco, con ferri, con mangani, e con bombarde non cessavano di combattere.» Cronaca di Bologna (Muratori: Rer. It. Script. XVIII, 286) ad A°. 1284. Anche nelle altre città della Romagna, dappertutto dissensioni, contese, guerre (Cfr. Annales Foroliv. ap. Murat. Rer. It. Script. XXII, 140 e seg. e il sunto della storia di Romagna nel Filalete, appendice al presente canto). Nel 1300, anno nel quale Dante pone la sua visione, non v'erano guerre palesi nella Romagna. Ma gli odî, le dissensioni ed inimicizie continuavano tuttavia, e non vi mancavano preparativi di guerra. Ecco perchè Dante dice che la guerra la c'è, ma non palese.

40. MOLTI ANNI: Ravenna era venuta in potere de' Signori da Polenta nel 1270, dai quali fu governata fino al 1441.

41. L'AQUILA: «Messer Guido da Polenta era signore di Ravenna al tempo dell' Auttore, che porta per arme un' aquila vermiglia nel campo giallo.» An. Fior. Questo Guido (Novello), figlio di Ostasio da Polenta s' era insignorito di Ravenna nel 1275. Eodem anno (1275) Ravennæ sedictio facta est, in qua Guido minor de Polenta ea Urbe potitur (Annal. Forol. ap. Murat. Rer. It. Script. Vol. XXII, pag. 139). Relationibus didici antiquorum, quod uno vel duobus annis post Reversani captionem (avvenuta nel 1275), Dominus . . . . Guido minor de Polenta .. tradiderunt Provinciam Romandiola Ecclesiæ Romanæ. (Annal. Caesen. apud Murat. Rer. It. Script. Vol. XIV, pag. 1104.) A. D. 1294. magni rumores in Civitate Forlivii fuerunt accidit tantum quod incepto rumore in Civitate Forlivii expulsi fuerunt de ipsa Civitate Colbulenses. . . . et captus fuit Dominus Guido de Polenta, qui venerat Forlivium ad faciendum Officium Capitaniaria dicta Civitatis, et Rambertus ejus filio cum eo ecc. (Annal. Forol. ap. Murat. 1. c. Vol. XXII, pag. 163.) Item die 27 Junii (1295). Item Dominus Comes (Pietro Arcivescovo di Monreale Comandante generale della Chiesa) ivit Ravennam, et facta pace inter Intrinsecos et Extrinsecos, misit ad confinia de parte utraque, et fecit dirui domos Domini Guidonis de Polenta, et Lamberti sui filii (Ibid. pag. 166). Sembra però che nel 1300 Guido avesse già ripigliato la Signoria di Ravenna. (Di questo Guido, che ospitò Dante, si parla più a lungo nel Vol. dei Prolegomeni, lib. II.) Questo Guido era padre dell' infelice Francesca da Rimini; cfr. Inf. V, 74. nt. LA SI COVA: se la cova, se la tien cara come la gallina le uova.

42. CERVIA: città marittima, dodici miglia da Ravenna, sulla quale i Polentani estendevano la loro giurisdizione. Dominus Guido de Polenta Potestas Cervice (Annal. Forol. ap. Murat. I. c. Vol. XXII, pag. 161). RICOPRE: la ha sotto le sue ali (= sotto la sua giurisdizione e dominazione). - VANNI: ali. «Vanni si chiamano le penne presso alle penne dell' alia che si chiamano coltelli.» Buti.

43. TERRA: Forlì. LUNGA PROVA: sostenne il lungo assedio.

44. FRANCESCHI: francesi. Ciò fu nel 1282. Martinus Quartus Pontifex Summus de Regno Franciæ, affectans quamplurimum nancisci Forolivii urbem, in Comitem Romandiola et Ducem, Dominum Johannem de Appia militem strenuum in armis cum infinita multitudine pedestrium et equestrium Gal

« PreviousContinue »